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Una via della mente e del cuore: Buddisti e Cristiani
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E-book222 pagine3 ore

Una via della mente e del cuore: Buddisti e Cristiani

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Info su questo ebook

Interrogato sull’essenza del suo insegnamento, Bodhidharma, primo patriarca del buddismo in Cina, rispose semplicemente: “Nulla di sacro, grande apertura”.
Gli autori di questo libro, compagni nella vita come nella ricerca di fede, sono convinti, in base alla loro esperienza, che la religione è il frutto di una pratica. Così, anche il dialogo interreligioso, in questo caso fra Buddisti e Cristiani, non è sviluppato sul piano teologico o metafisico, ma come testimonianza di una esperienza vivente. Questa esperienza vivente nasce dall’incontro di due sensibilità affini, e dal cammino che hanno intrapreso insieme.
Pratica e condivisione sono i due termini qualificanti di questo testo straordinario e originale: col primo si intende sottolineare che non può esistere un convincimento religioso che non dia luogo ad una pratica coerente con esso; col secondo che la dimensione caratterizzante dell’esperienza religiosa va ricercata nella capacità di apertura.
Scrive nella presentazione Remo Cacitti: Il problema della definizione del genere letterario di questo lavoro può essere affrontato evocando quello straordinario documento costituito dalle Confessiones di Agostino d’Ippona: un riconoscimento sincero della propria finitezza e delle proprie fragilità, situazione che si dischiude però in un inno di lode a Dio in cui si racconta la propria vita, evocandone gioie speranze dolori disillusioni incontri abbandoni scoperte perdite.
LinguaItaliano
Data di uscita3 nov 2014
ISBN9788897264477
Una via della mente e del cuore: Buddisti e Cristiani

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    Anteprima del libro

    Una via della mente e del cuore - Elisabetta D'Ambrosio

    FRONTESPIZIO

    Elisabetta D’Ambrosio - Sergio Gandini

    UNA VIA

    DELLA MENTE E DEL CUORE

    Buddisti e Cristiani

    COLOPHON

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2014 Oltre edizioni

    http://www.oltre.it

    info@oltre.it

    ISBN 978-88-97264-47-7

    ISBN cartaceo 978-88-97264-42-2

    Titolo originale dell’opera:

    Una via della mente e del cuore

    Buddisti e Cristiani

    di Elisabetta D’Ambrosio - Sergio Gandini

    Collana *eterno presente

    diretta da Gian Gabriele Vertova

    Prima edizione novembre 2014

    Blog degli Autori:

    http://una-via-della-mente-e-del-cuore.tumblr.com/

    INDICE

    FRONTESPIZIO

    COLOPHON

    Itinerarium

    Introduzione

    Prefazione

    Il dialogo possibile

    Linguaggio e verità

    Unità e molteplicità

    Monaco e laico

    Condividere e impegnarsi

    Bibliografia

    Elisabetta D’Ambrosio, dopo gli studi classici, si è laureata in scienze biologiche, dedicandosi poi all’insegnamento e occupandosi, tra l’altro, di integrazione e interculturalità.

    Sergio Gandini, laureato in filosofia, insegna filosofia e storia al liceo: coltiva da sempre la poesia, ha pubblicato diverse raccolte, e tenuto corsi e conferenze in questo ambito.

    Elisabetta ha praticato per molti anni lo scoutismo, affascinata dalla spiritualità della strada ed è entrata in contatto con l’esperienza di Taizè, Sergio con la tradizione Soto Zen del Maestro Deshimaru.

    Elisabetta e Sergio, nati entrambi a Milano nel 1956, sono sposati e hanno due figli.

    Insieme hanno intrapreso un cammino di ricerca spirituale e di pratica comune: hanno partecipato a diversi ritiri presso il convento del Monte Mesma ad Orta, hanno seguito in parte la comunità la Stella del Mattino di Galgagnano e poi l’ associazione Vangelo e Zen condotta a Milano e a Desio da padre Luciano Mazzocchi, e seguono gli insegnamento del Maestro Zen vietnamita Thich Nhat Hanh fondatore della comunità di pratica di Plum Village in Francia.

    Itinerarium

    Quali parole può usare uno storico delle origini cristiane per invitare un lettore ad affrontare il viaggio che i due Autori ci propongono lungo l’itinerario delle loro esperienza spirituale? Certamente quelle desunte dal proprio mestiere, vale a dire operando un’analisi critica in ordine alle fonti, al metodo, ai contenuti. Ma già dalla lettura delle prime pagine di questo libro è emersa la convinzione che operazione previa doveva essere quella di rispettare le parole scritte quale eco di una realtà a cui lo storico, in quanto tale, non può attingere, perché non ha la strumentazione adeguata: la sfera dell’intuizione, della sensibilità e della percezione – costellazione che indubbiamente guida ogni atto della quotidianità di ogni essere pur razionale – sfera così pervasivamente presente in questo libro, manda segnali che l’osservatorio storico non riesce a ricevere, prima ancora che a decifrare. Il che, ovviamente, non può in alcun modo inficiarne la presenza: quante volte, a lezione, mi sono ostinato a spiegare che negare la storicità della resurrezione di Cristo non significa affatto negare l’evento; e, per chiarire questo rapporto, ho sempre fatto ricorso alla metafora, forse banale, dell’innamoramento, vissuto che – considerata l’età dei miei studenti – sarebbe addirittura imprudente negare. Eppure, se questo sentire (sentio, in latino, esprime proprio la percezione sensitiva) non può essere storicamente catalogato, ben diversa è la situazione per quanto concerne gli effetti, le conseguenze di questi eventi, del tutto criticamente valutabili: se la resurrezione di Cristo ha rappresentato l’élan vital che ha dato origine al cristianesimo (e alla sua storia), il vissuto di miriadi di donne e di uomini che hanno cercato attivamente una via che – abbandonati i sentieri dell’esteriorità – portasse all’essenza del proprio essere, alla comunicazione con l’altro, alla condivisione di quelli che gli antichi Padri cristiani chiamavano i beni spirituali, ebbene questi pellegrinaggi dello spirito hanno originato fenomeni imponenti, tanto in Oriente quanto in Occidente, ricostruibili nella storia dell’ascesi, della mistica, dell’itineranza religiosa, dell’eremitaggio, del monachesimo.

    Sotto questa luce, il problema della definizione del genere letterario di questo lavoro può essere affrontato evocando quello straordinario documento costituito dalle Confessiones di Agostino d’Ippona: un riconoscimento sincero della propria finitezza e delle proprie fragilità, situazione che si dischiude però in un inno di lode a Dio in cui si racconta la propria vita, evocandone gioie speranze dolori disillusioni incontri abbandoni scoperte perdite. Se, per Agostino la strada procedette tortuosa attraverso sistemi religiosi quali il Manicheismo o filosofici, quali il Neoplatonismo, attingendo a una meta che potremmo definire aperta (non è ozioso il dibattito se il grande Africano a Cassiciacum si sia convertito a Cristo o a Plotino), anche qui noi ci troviamo di fronte a un problema analogo: attraverso quali tappe e dove conduce il cammino dei nostri due Autori? La diversità delle loro sensibilità spirituali – l’una più accentuatamente ispirata dal cristianesimo, l’altra dal buddismo – non pone certo difficoltà, perché da molti decenni le pratiche ascetiche orientali sono state cordialmente accolte nella spiritualità cristiana: all’inaugurazione, alcuni anni fa, di un tempio buddista a Milano mi sorpresi a riconoscere, attivamente partecipi del culto colà celebrato, alcuni esponenti cattolici di cui conoscevo l’elevatezza e la raffinatezza spirituali, segno evidente di una comunione senza barriere, distinzioni o preclusioni. Il problema è piuttosto un altro, e investe prioritariamente la coscienza cristiana, dal momento che il cristianesimo, in una con il più tardo affermarsi dell’islam, costituisce uno dei grandi rami rampollati dal tronco del giudaismo. Queste tre manifestazioni religiose, che in Abramo riconoscono il loro patriarca, presentano tuttavia il carattere, comune alle religioni rivelate, dell’esclusività: un Dio unico, geloso, che non ammette concorrenti. Come conciliare dunque la fedeltà intransigente al Patto, alla parola (berit) data all’unico Dio con l’apertura foss’anche limitata all’esperienza spirituale e alla pratica dell’ascesi, verso quelli che i libri di Neemia e di Esdra chiamerebbero una prostituzione contaminante?

    Nel racconto del loro cammino di perfezione, emergono a tale proposito insistiti spunti di riflessione che richiamano per forti analogie un episodio drammaticamente celebre della biografia di Ambrogio di Milano che, sullo spirare del IV secolo, era vescovo niceno dell’allora capitale dell’Impero. Nel clima di frontale opposizione che, in ambito cristiano, divideva da molti decenni gli ariani dai niceni (o cattolici), presso quella corte, su cui nominalmente regnava un fanciullo, Valentiniano II, sotto l’egida inflessibile della madre Giustina, di confessione ariana, fu inviata da parte del Senato di Roma, composto in maggioranza da pagani, una delegazione capeggiata da Simmaco – appartenente a quella familia degli Aurelii da cui proveniva lo stesso Ambrogio – latore di una supplica in cui veniva richiesta la ricollocazione, nell’aula di quel Senato, di un simulacro pagano, il c.d. Altare della Vittoria, su cui da sempre, prima di ogni adunanza, era consuetudine da parte dei senatori bruciare qualche granello d’incenso. Già questo scenario pare davvero congruo a rappresentare il molteplice intreccio, pur se in questo caso conflittuale, del tessuto religioso: il Senato tenta, attraverso un suo componente pagano imparentato con il vescovo cristiano, un riconoscimento della sua individualità, facendo leva sull’odio che la corte ariana nutre verso il vescovo niceno. Ambrogio, attraverso i suoi agenti, riesce a intercettare il documento senatorio – la celebre III Relatio Symmachi – e alza un terribile fuoco di sbarramento per far fallire la pericolosa ambasciata: Simmaco infatti, per prevenire la scontata argomentazione per cui la fede cristiana, di qualsiasi confessione fosse, non poteva ammettere la sopravvivenza delle fedi pagane, aveva affermato che "uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum". Scampando al tiro incrociato delle inesauste interpretazioni di questa sentenza, è del tutto plausibile che il senatore pagano avesse voluto affermare che, per attingere al mistero della divinità (secretum), un solo percorso (uno itinere) non fosse assolutamente sufficiente, sancendo quindi la necessità, prima ancora della possibilità, di battere strade diverse. Chi s’inoltri nella lettura di questo libro, spero potrà giustificare questa lunga digressione: non v’è infatti pagina in cui la tematica dell’itinerarium cordis in Deun, il cammino spirituale che conduce a Dio, non sia richiamata quale principio di verificazione dell’esperienza religiosa dei due Autori, che paiono rivivere nella loro esperienza quell’antica conflittualità, cercando naturalmente di superarla in un’armonica composizione delle parti.

    Non si tratta, a mio parere, di un ripiegamento irenico effettuato a ristoro dell’assolutismo esclusivistico insito in ogni religione rivelata, quella praescriptio ad excludendum che ha insanguinato miriadi di campi di battaglia – cristiani contro islamici, ebrei perseguitati dai cristiani, etnocidi galoppanti dalle Guerre di religione d’Età moderna alla Conquista coloniale del sub-continente americano alla cultura del disprezzo che ha attizzato il fuoco della Shoah agli attacchi talebani contro le minoranze cristiane in Africa e altrove: un’autentica galleria degli orrori allestita sotto le insegne della Vera Religione – . L’elisione della prospettiva storica nella riflessione dei nostri due Autori pare piuttosto motivata dall’accoglimento, pur se di natura peculiare, della rivoluzionaria svolta operata in Europa dalla grande teologia critica del Novecento: il dio asservito ai bisogni e alle intenzionalità dell’uomo (il dio della devozione popolare – e del suo lucroso sfruttamento – e quello della teologia politica) è morto e, sperava Dietrich Bonhoeffer, non è destinato a risorgere. "Dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio – scriveva il martire antinazista di Flossenburg in Resistena e resa Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (cfr. Mc 15,34). Egli però si manifesta ora nella piena umanità della vita dell’uomo Gesù: la decisione, la responsabilità della scelta torna in mano alla pienezza dell’umanità della vita di un uomo condannato, fra atroci sofferenze, al patibolo. Resta però aporetica, a mio giudizio, la possibilità di innestare su questa radice teologica – di assoluto stampo cristologico – una spiritualità orientata all’armonia degli insiemi, proprio perché la croce di Cristo è rottura, divisione, contrasto, opposizione, scandalo per i Giudei e follia per i gentili", come già scriveva Paolo di Tarso agli albori dell’annunzio evangelico (1 Cor 1,23).

    Scorrendo la Bibliografia che correda il volume – cui i due Autori giustamente rivendicano un ruolo non circoscritto al mero elenco di titoli – forse si può attingere alla più corretta prospettiva entro cui Elisabetta D’Ambrosio e Sergio Gandini hanno inteso disporre, come in un quadro. i realia della loro avventura spirituale: simili agli emblemi di cui si fregiavano gli antichi pellegrini, le opere citate ci consentono di ricostruire, su una mappatura delle regioni dello spirito che hanno attraversato, il loro inesausto cammino intrecciato fra Oriente e Occidente: una lunga via pratica, come direbbero gli Autori, che ci viene offerta non tanto per lo studio geografico quanto per la meditazione spirituale.

    Remo Cacitti

    Università degli studi di Milano

    Introduzione

    È possibile dialogare tra religioni diverse?

    Durante una recente intervista il Dalai Lama ha parlato della possibilità di distinguere fra religione della mente e religione del cuore. Lo ha fatto in relazione al problema delle conversioni, del passaggio da una religione ad un’altra, fenomeno sempre più frequente in questa nostra epoca di incontro fra religioni appartenenti a differenti tradizioni. Il senso delle sue parole, anche se è stato travisato e strumentalizzato, è semplice e ogni polemica svanirebbe se si partisse dal riconoscimento della impossibilità di attribuire al bisogno religioso un contenuto definito una volta per tutte, di qualsiasi contenuto si tratti.

    Occorre ammettere come postulato fenomenologico che il bisogno religioso è avvertito da ogni individuo dalla sua infanzia semplicemente come implicita e inespressa interrogazione sul senso stesso dell’esistenza: quando si parla di bisogno religioso, ci si riferisce ad un sentire indistinto, che precede ogni concettualizzazione, ogni nozione determinata di Dio, in cui si radica però ogni successivo tentativo di definire l’esperienza della Divinità.

    Poiché ogni individuo cresce all’interno di una cultura e di una tradizione in cui questo bisogno è già stato accettato e codificato, è naturale che finisca per riconoscersi in una confessione religiosa determinata ereditandola direttamente dal suo ambiente, spesso dalla religione dei propri genitori.

    Possiamo chiamare questo processo la religione del cuore?

    Crescendo un individuo può aprirsi a nuove esperienze, certamente di natura esistenziale, talvolta anche di carattere specificamente filosofico o morale, può maturare e mutare i suoi orientamenti: potremmo chiamare questo processo la costruzione di una religione della mente. È altrettanto possibile che un altro individuo si sviluppi senza avvertire nessuna esigenza di mutamento e rimanga ancorato alla religione in cui è cresciuto, ma anche in questo caso il significato complessivo della sua interrogazione religiosa è mutato, implica dei risvolti e delle acquisizioni concettuali per cui sarebbe più corretto parlare di religione della mente.

    Forse, a questo punto, è bene chiarire un postulato essenziale, implicito in questo nostro libro, sul quale sarebbe superfluo poi ritornare altre volte: quando parliamo di religione della mente intendiamo riferirci all’insieme di ideali, convinzioni, pratiche che ogni essere umano segue nel momento in cui cerca di dare un senso alla propria esistenza. Nella nostra prospettiva anche un coerente ateismo è, pur sempre, espressione di questa ricerca di senso: d’altronde il termine stesso di ateismo non sta a indicare che chi si definisce ateo continua a pensarsi all’interno della prospettiva di senso definita dall’esperienza religiosa?

    Oppure, da un diverso punto di vista, come non meditare su questa affermazione del grande scrittore Proust: Un artiste n’a pas besoin d’exprimer directement sa pensée dans son ouvrage pour que celui-ci en reflète la qualité; on a même pu dire que la louange la plus haute de Dieu est dans la négation de l’athée qui trouve la création assez parfaite pour se passer d’un créateur?¹

    Per i sinceri cercatori della Verità, nessuna barriera, nessuno steccato fra mente ed esperienza, fra sacro e profano, alla fine, può avere una giustificazione.

    È possibile interpretare questa distinzione fra religione del cuore e religione della mente anche in un’altra direzione, riferendosi alla compresenza di una dimensione femminile e maschile dentro ognuno di noi: allora la religione del cuore appare piuttosto come la parte di noi riferita alla componente di gentilezza e di accoglienza, naturalmente legata alla figura della madre, mentre la religione della mente appare come la componente normativa, naturalmente legata alla figura del padre, quella in relazione al dover essere e alle nostre aspirazioni.

    In questo senso la religione del cuore indicherebbe dunque l’esperienza religiosa primitiva per ciascuno di noi, quella derivata per riflesso dalla cultura di appartenenza dell’individuo, con una sfumatura implicita di gentilezza materna, mentre la religione della mente si riferirebbe piuttosto ad un approccio più riflessivo e razionale a questa stessa esigenza di devozione, con una tensione di paterno rigore. In questo caso materno e paterno stanno a significare qualità certo derivate dall’essere umano e quasi riferibili ad esso, ma che tendono a farsi costitutive di caratteri ontologici predicabili della divinità stessa.

    È indispensabile irrigidire questa contraddizione presente in ciascuno di noi?

    Certamente le parole del Dalai Lama sono mosse prima di tutto dalla preoccupazione di evitare conflitti emotivi interni alla coscienza di ciascun credente e quindi alle possibili conseguenze problematiche che si realizzano in chiunque si trovi a vivere l’esperienza di una conversione, del passaggio da una confessione religiosa ad un’altra.

    Colui che vive una conversione religiosa è, probabilmente e innanzitutto, una persona che ha sempre vissuto la dimensione della fede con una particolare intensità, magari a partire dai primi anni della sua vita, e che matura una scelta che, vista dall’esterno, può apparire radicale, ma che, in realtà, stava fermentando da tempo nella sua interiorità.

    Come afferma il filosofo Ortega y Gasset: Ogni uomo è se stesso e la sua circostanza.

    Le parole del Dalai Lama intendono avvertirci che ogni credo religioso è comunque relativo alla mente del fedele in cui si attua, dipende da un complesso insieme di circostanze individuali e culturali: piuttosto che essere considerato come espressione di una convinzione assoluta, è una modalità singolare con cui la Divinità si attua e si incarna dentro ognuno di noi.

    Perciò la preoccupazione prima di ogni messaggio religioso, secondo lo spirito autentico del Vangelo, deve essere quella di unire, piuttosto che dividere alimentando le barriere del fanatismo e della guerra di religione:

    In quel tempo, Gesù, alzati

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