E il Logos si fece carne
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Anteprima del libro
E il Logos si fece carne - Costant Chévillon
Constant Chévillon
E IL LOGOS SI FECE CARNE
(Giovanni 1,14)
(Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο)
Traduzione di Mauro Cerulli
A cura di Filippo Goti
med_0med_1INTRODUZIONE
«Giovanni, il discepolo del Signore, colui che riposò sul suo petto (Gv 13,3), ha pubblicato anche lui un Vangelo mentre dimorava ad Efeso in Asia»» (Ireneo, Adversus Haereses III, 1, 1)
In questa breve nota introduttiva è mio desiderio offrire alcune semplici tracce per meglio inquadrare l’Inno al Logos e predisporre colui che desidera approfondire siffatto tema, verso una proficua ricerca. La quale non deve assumere forma di curiosità intellettuale, ma assurgere ad autentica bussola, per orientarsi lungo le impervie vie del viatico di perfezionamento interiore. La centralità della questione Giovannita è elemento caratterizzante dell’esoterismo cristiano e solamente oggi, a causa del degrado dell’ambiente e della mediocrità di molti cercatori, sembra essere dimenticata. Questo, a mio avviso non è necessariamente un male, in quanto permette, ai pochi autentici braccianti nella vigna dello spirito, di operare silenziosamente e al riparo di occhi indiscreti.
Non c’è quindi da stupirsi che Costant Chévillon, la cui importanza è cruciale quale formidabile anello della catena iniziatica occidentale, si sia cimentato in uno studio di questo gioiello sapienziale dell’esoterismo cristiano. È bene sottolineare come l’autentica portata della questione Giovannita, rimandi ad una reale tradizione del fuoco
che prende le mosse da quelle protoreligioni e protoiniziazioni che furono lo zoroastrismo e il mandeismo. La loro vitale linfa spirituale procedette da Alessandria di Egitto, giunse in Grecia con Orfeo e il culto di Apollo, si incarnò (seppur in modo diverso) nello gnosticismo alessandrino e nel manicheismo, si instillò nell’Europa medioevale attraverso i Bogumili e i Catari; divenne gli strumenti e l’arte delle antiche confraternite delle arte e dei mestieri. Tutto questo raccolto, occultato e protetto da una pregevole trama di parole ed immagini, capaci di solleticare le corde profonde della nostra anima superiore.
L’autore dell’Inno sembra non essere estraneo a temi e riflessioni propri della filosofia greca; questo Logos fecondo, che dona la vita, richiama indubbiamente la filosofia stoica[1] ma anche il concetto di Demiurgo Platonico. Al contempo, nell’affresco immaginifico delle Tenebre che cercano di sopraffare la Luce, e il non mischiarsi della seconda con le prime, forte riecheggia lo zoroastrismo, l’antica religione dei Magi, dove una precosmica lotta fra due irriducibili principi ha plasmato lo spazio, il tempo e il destino dell’uomo.
Ancora, la generazione del Logos, questa espressione ipostatica dell’Essere, richiama prepotentemente gli scritti dei maestri gnostici Valentino e Basilide, che vedevano nella conoscenza la via e la forma di redenzione e rettificazione dell’uomo.
A prescindere dalle varie riflessioni, che ognuno di noi può trarre dall’Inno al Logos, dobbiamo chiederci se questa sua capacità di traghettare a noi gli scrigni sapienziali dell’area mediterranea, dipenda da una chiara volontà del suo estensore, oppure sia frutto del caso.
A tale domanda se ne deve aggiungere un’altra, la quale rimanda alla ragione dell’inclusione di questo vangelo fra i sinottici.
...Giovanni se non segue la tradizione sinottica, non la perde mai d’occhio. Giustamente ha detto il Renan che Giovanni aveva una sua propria tradizione, una tradizione parallela a quella dei sinottici, e che la sua posizione è quella di un autore che non ignora ciò che è già stato scritto sull’argomento ch’egli tratta, approva molte delle cose già dette, ma crede d’avere informazioni superiori e le comunica senza preoccuparsi degli altri
(Ernest Renan "Vita di Gesù Cristo" dell’Abate Ricciotti 1941, revisione del 1962).
Gli studiosi sostengono che la compilazione del Vangelo di Giovanni sia durata oltre cinquanta anni, possiamo quindi ipotizzare come, nel corso di questo periodo, vi siano stati degli apporti e delle inclusioni e che il Vangelo di Giovanni costituisca solamente quanto raccoglie, come uno contenitore che debba preservare un prezioso olio, l’Inno al Logos. In altri termini, siamo innanzi ad un’opera, il Vangelo di Giovanni, che ha come finalità quella di preservare elementi filosofici e metafisici all’interno di una narrazione che in qualche modo incontrasse la capacità di lettura e di ascolto dei semplici e sfuggisse alle severe cesoie della censura teologica. Una volta che questo Vangelo ebbe conquistato il cuore delle comunità dei fedeli, la sua inclusione nel canone fu non più ostacolabile e da quel momento la sua preservazione garantita. Un’astuta operazione attraverso la quale la narrazione delle opere e della storia di Gesù non sono altro che il cavallo di troia, lo strumento, attraverso cui instillare nel cuore della nascente e vincente religione elementi filosofici sì destinati ai pochi uomini di conoscenza, ma che necessariamente dovevano essere salvaguardati dal crollo imminente del mondo greco-romano. Questi lumi sapienziali dovevano essere traghettati nella nuova era, attraverso una nuova novella narrativa che ne garantisse una capillare diffusione, attraverso la ripetizione orale e rituale.
Possiamo ancora leggere
il Vangelo di Giovanni nell’ottica della lotta
fra le anime del cristianesimo primitivo, quella ebraica e quella greca alessandrina, raccolte e cristallizzate nel canone. Dove la prima, a carattere preminentemente morale, dispone di un numero maggiore di testi, e la seconda, intrisa di filosofia dell’anima, testimoniata, a cui si aggiungeranno le tanto discusse lettere di Paolo di Tarso, dal solo Vangelo di Giovanni. In questa prospettiva possiamo vedere il canone nuovo testamentario come la composizione, o ricomposizione, di quel mosaico che erano le comunità cristiane dei primi secoli della nuova era. Esso è quindi la testimonianza eterna, all’interno della tradizione scritta, non solo dei vari rapporti di forza, ma anche delle varie radici spirituali e tradizionali, con la loro problematica coabitazione (che nel corso dei secoli sfocerà in violenze, pogrom e stermini).
Rimane adesso un’ultima riflessione da proporre al paziente lettore. L’Inno al Logos disegna una creazione fondata sull’intelletto, che si manifesta nel Logos vivente, capace di infondere vita spirituale e luce di conoscenza, laddove prima albergavano le caotiche tenebre. Possiamo, quindi, affermare che siamo innanzi ad una seconda genesi, non più basata su di un cieco fare meccanico in guisa del piacere della divinità, così come appare nell’apertura dell’Antico Testamento, quanto piuttosto una creazione frutto di amore e governata dall’Intelletto Superiore.
Sorge adesso un dubbio, considerazione, o semplice ronzare della mente vivace. Le tenebre che cercano di sopraffare la luce del Logos portatore di vita, non sono forse il frutto della precedente creazione legata ad un cieco ed umorale fare? Effettivamente, esse sono già presenti sul palcoscenico che raccoglie la manifestazione del Logos, e quindi una qualche origine esse la debbano pur avere. Un’origine, mi si permetta, avente natura, tempo e sostanza diversa da quella del Logos a cui esse, incidentalmente faccio notare, sono ostili.
Come possiamo ben vedere, da queste poche righe di introduzione, siamo innanzi ad un testo che costantemente ci obbliga a riflettere non solo attorno alla nebulosa ed eterodossa origine del cristianesimo, non solo in merito alle varie radici tradizionali e filosofiche in esso raccolte ma sulla stessa strutturazione del canone cattolico e dello stridere fra gli elementi che forzatamente, per necessità o per cecità lo compongono. Dubbi, domande ed orientamenti che non possono essere semplicemente occultati o rimossi, ma che sono necessari per collocare ogni ricercatore lungo un autentico percorso tradizionale.
Note:
[1] La dottrina e la tradizione che, rifacendosi ai principi di Zenone di Cizio (sec. III-II a.C.), considerava il cosmo come un ordine razionale e provvidenziale, identificando la vera felicità nella virtù, e la sapienza nella serena accettazione degli eventi e specialmente del dolore e della morte, la quale poteva essere volontariamente ricercata quale mezzo per l’affermazione della dignità e della libertà spirituale individuale.
BIOGRAFIA
med_5Constant Chévillon vede la luce il 26 ottobre 1880 ad Annoire (Jura), in una famiglia profondamente intrisa di una genuina fede cattolica, e in tale perimetro avvenne la sua formazione culturale e morale, di cui abbiamo un vivido spaccato nella sua vita e nelle sue opere. Ancora giovanissimo manifestò tali evidenti qualità, come una memoria formidabile e una vivida curiosità verso tutto quanto era spirituale, da attirare l’attenzione del prete della sua parrocchia, che iniziò ad erudirlo sul latino e sui fondamenti del cattolicesimo. Successivamente, all’età di dodici anni, vediamo Costant Chévillon entrare nel Collegio di Montciel (presso la cittadina di Lons-le-Saunier) e dedicarsi allo studio della letteratura, della storia antica e della filosofia. Terminato questo percorso didattico e supportato dalla famiglia, decise di accedere a rami superiori della formazione culturale, conseguendo una laurea presso la Facoltà di Lettere a Lione, dove ottenne anche una borsa di studio.
Trascorso un breve periodo trascorso presso l’Abbazia di Solesmes, dove insegna filosofia religiosa con i gesuiti, viene assunto in qualità di impiegato dalla Società Generale di Lione. Tale occupazione viene abbandonata per entrare nella Banca nazionale per il Credito Industriale
(1913), in cui assume incarichi sempre più importanti e prestigiosi.