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Sante Dee Martiri. Tra paganesimo e cristianesimo
Sante Dee Martiri. Tra paganesimo e cristianesimo
Sante Dee Martiri. Tra paganesimo e cristianesimo
E-book541 pagine7 ore

Sante Dee Martiri. Tra paganesimo e cristianesimo

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Info su questo ebook

Nella fase nascente del cristianesimo, quando una nuova era sembrava poter cominciare, molte donne espressero le loro rinnovate speranze di dignità, autonomia e realizzazione, duramente calpestate dalla degenerazione del paganesimo patriarcale. Figure tragiche, ambivalenti, insieme vittoriose e vittime, riportarono a galla l’anima indomita delle fiere dee vergini di un tempo, rinnovando antichi simboli e pratiche, eredità dimenticata dell’originaria civiltà della Dea. L’autrice rilegge gli Atti originali dei loro martirii e ricostruisce la genesi delle feste e dei culti loro dedicati, profondamente radicati nell’area mediterranea e ancora celebrati con passione nel presente.
 
LinguaItaliano
EditoreVenexia
Data di uscita13 dic 2020
ISBN9788899863555
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    Anteprima del libro

    Sante Dee Martiri. Tra paganesimo e cristianesimo - Ghiggini Elisa

    ELISA GHIGGINI

    Sante dee martiri

    Venexia

    Collana Le Civette – I Saggi

    A cura di Luciana Percovich

    ©2014 Copyright by Venexia

    Via Erodoto, 36

    00124 Roma

    www.venexia.it

     INTRODUZIONE

    Tra gli uomini, per me, l’evidenza si offusca:

    ma il verbo divino, da tempo lo so, è verità.

    (Euripide, Elena, vv. 1148-1150)

    DALLE DEE ALLE MARTIRI

    Perché un libro sulle sante martiri (dal I all’inizio del IV secolo d.C.)? Perché rendere degna d’attenzione la vita di un essere umano vissuto in un’epoca storica tanto lontana da noi? 

    Ritengo che narrare la storia delle sante martiri sia un’occasione importante per non recidere le radici millenarie di una tradizione sulla quale poggia ancora, in un certo senso, la nostra identità. Anche se la nostra cultura si distingue per le scoperte scientifiche e tecnologiche che hanno cambiato la vita quotidiana, e anche se abbiamo un diverso modo di vedere la religione e la divinità, è importante sottolineare la persistenza di certi atteggiamenti verso le donne e il ruolo che esse continuano ad avere in questa civiltà occidentale, un ruolo protrattosi lungo i secoli.

    Ho lasciato che i documenti mi si rivelassero senza pregiudizi o moralismi, attenta solo a descrivere il fenomeno delle loro vite eccezionali come si manifestava alla mia esperienza. Così, ho constatato che la documentazione agiografica inerente alle martiri offriva a una prima lettura un’immagine parziale del vissuto individuale e collettivo, distribuito in fasi standardizzate: lo stesso tipo di conversione, gli stessi rifiuti di sacrificare agli dèi pagani, le stesse difficoltà drammatiche, le stesse virtù, soprattutto la verginità, la stessa morte edificante, in un copione visto e rivisto, prevedibile e noioso. Mi dicevo che la realtà era invece molto più complessa e articolata, e per scoprirla occorreva procedere a un più profondo livello di lettura, con l’aiuto di documentazioni storiche, antropologiche, psicologiche e soprattutto con l’aiuto della religione e della mitologia pagana, ricca di storie di dèi e dee, eroi ed eroine.

    Una vita non può essere compresa e spiegata se non viene considerata la fitta maglia di legami mediante i quali essa si inserisce nell’intero tessuto della civiltà di cui fa parte. Mi sono accorta che vedere le vicende delle martiri solo in chiave di persecuzione e oppressione religiosa non rendeva giustizia alle capacità femminili di riscatto storico, di autonomia sovrana, di cultura, di attività creativa, di padronanza di sé. Così è nata in me l’esigenza di valorizzare l’esperienza di quelle donne che esercitarono una profonda influenza sulla comunità sociale del loro tempo.

    È stato interessante scoprire ciò che le martiri avevano fatto della loro appartenenza al genere femminile, quanto aveva pesato la loro adesione alle concezioni culturali riferibili all’ideologia patriarcale fondata storicamente sulla differenza dei sessi, con quali modalità erano riuscite a imporsi come soggetti in grado di decidere di sé, con quanta incredibile forza si erano opposte a ciò che veniva loro insegnato e, soprattutto, quanta della loro determinazione segreta e della loro autorevolezza, malgrado la scelta di un nuovo credo cristiano, fosse dovuta a esemplarità assimilate attraverso la mitologia religiosa precedente.

    Nelle civiltà preelleniche e greco-romane, i miti erano manifestazioni di un mondo originario superiore, accaduto in tempi primordiali, il quale determinava la vita e il destino dell’umanità nel presente, allo scopo di rifondare e riorganizzare socialmente e individualmente gli esseri umani. I fatti narrati nei miti costituivano il fondamento di una certa visione dell’esistenza che poggiava su di loro caratterizzando in modo unitario una cultura. Gli uomini e le donne antichi crescevano nella rappresentazione di modelli esemplari in cui si immergevano, protetti e trasfigurati, per affrontare i problemi del loro presente. I cristiani si proponevano come iniziatori di una nuova era, con nuovi prototipi rappresentativi e una nuova visione del mondo opposta a quella pagana. I gruppi sociali cui appartenevano le martiri si trovarono a vivere in un clima di forte conflittualità, aggravata da un’altrettanta temibile crisi di autorità. Di fronte ai culti pagani la Chiesa di Roma reagì in un primo tempo con la volontà assoluta di distinguersi dal paganesimo attraverso l’intransigenza e il rifiuto di qualsiasi forma di commistione; tuttavia, sebbene legittimata con l’editto di Milano a opera dell’imperatore Costantino nel 313, essa non ebbe neanche da vincente la possibilità di cancellare con un’azione repressiva molti riti precristiani, che continuarono a svolgere la loro funzione in seno alla popolazione, sia pure dentro significati devozionali diversi.

    Il fenomeno religioso della santità fu il risultato di un processo dinamico che coinvolse civiltà contrapposte ed eterogenee e tuttavia reciprocamente intersecanti, alimentato soprattutto dai fedeli delle martiri, la cui perpetua devozione lungo i secoli non può essere spiegata soltanto in base alle singole vite delle sante, talvolta storicamente del tutto inesistenti. Piuttosto, è spiegabile in base all’eredità cultuale che, proiettata sulle sante dai credenti delle antiche dee, poté così continuare tradizioni millenarie. Le martiri cristiane furono celebrate e identificate con gli attributi delle Grandi Dee della terra (Cerere/Demetra, Giunone, Venere, Bona Dea ecc.), come dimostreremo; la loro santità dipese in gran parte dalla concezione della terra concreta e visibile che si fondeva con l’immagine arcaica della divinità materna, propria dei nostri antichi antenati.

    Sulla terra soprattutto le dee assolvevano una molteplicità di funzioni protettive (abbondanza, fertilità, gioia, pace) e vivevano a stretto contatto con gli esseri umani, rendendosi presenti nella loro vita attraverso i sogni o la divinazione oracolare, stringendo con loro rapporti intimi, sacralizzando con la loro presenza luoghi particolari fatti di contatti privilegiati. La consuetudine di dormire in certi luoghi per ottenere rivelazioni o guarigione, miracoli e altre pratiche rituali che analizzeremo, si manifestarono in località pagane successivamente cristianizzate, e anche le funzioni delle dee furono cristianizzate, poiché assolvevano a esigenze di protezione e sicurezza cui la gente non voleva rinunciare. Questa pratica di integrazione non fu soltanto un fenomeno prodotto da esigenze e consuetudini popolari, ma fu promosso anche da abili menti di intellettuali cristiani che seppero convertire da un punto di vista teologico e pastorale i bisogni collettivi di sicurezza e di protezione, incanalandoli in un rapporto di intimità con una compagna illustre, invisibile e potente: la santa martire.

    A una lettura attenta degli scritti agiografici e dell’insieme di tutti i testi dedicati alla memoria delle sante (i verbali dei processi, chiamati Acta, o Passiones, che contengono il resoconto di una o più udienze processuali, le vite e le leggende, i racconti dei miracoli, le feste folcloristiche, l’iconografia), dietro alle descrizioni precostituite e attraverso un lavoro di riesumazione basato su uno studio interdisciplinare è possibile rintracciare episodi mitici importanti che hanno prodotto determinate simbologie, resistendo alle trasformazioni operate dalla nuova religione cristiana e mantenendo una loro estraneità misteriosa e interessante. Vicende, simboli, ritualità e funzioni mitiche risalgano in gran parte a un passato lontano, in grado di spiegare aspetti peculiari e specifici legati alla storia delle martiri le quali, grazie a questa luce interpretativa, non sono più eroine sempre uguali a loro stesse e prevedibili nelle loro azioni, ma donne le cui vicende offrono uno sguardo penetrante sullo spirito dei tempi che le hanno precedute e vivificate, rendendole emblemi scelti dalla collettività per rappresentare se stessa.

    I martiri e le martiri non furono i primi a essere oggetto di venerazione da parte della Chiesa; inizialmente non furono qualificati neanche come santi, forse per non confonderli con altri santi di altre religioni: il termine santo non è solo cristiano. La lingua greca ha agios e la lingua latina sanctus, perché l’idea di santità è una caratteristica comune a qualsiasi religione. Sanctus e Sanctissimus erano usati dai Romani in riferimento agli dèi, ma anche nella fraseologia ufficiale per indicare le prerogative di funzioni pubbliche relative agli imperatori, ai membri del senato; li si trovava inoltre applicati alle vestali e persino alle spose caste. Più che un santo, un martire all’inizio era considerato un testimone, dal greco martus, che significa appunto testimone. Le martiri furono le prime testimoni, davanti ai tribunali umani, della divinità del Cristo e le loro morti furono considerate come l’aderenza massima alla passione stessa di Cristo. Fino al V secolo, il culto reso ai martiri fu solo una forma elaborata di culto funebre, strettamente legato alla loro tomba, dunque un culto locale. Il giorno natale della martire (ossia il giorno della morte come nascita all’eternità del paradiso), la comunità cristiana si raccoglieva attorno alla tomba per mantenere viva la sua memoria, leggendo gli atti della passione, pregando e celebrando il servizio eucaristico. La situazione cambiò a partire dal V secolo, in seguito alla trascrizione nei calendari dei santi universali che non appartenevano più all’una o all’altra comunità, bensì a tutta la Chiesa. Era importante avere gli atti delle passioni e della morte dei martiri; talvolta la notizia delle loro sofferenze, considerate delle vere vittorie, veniva trasmessa anche alle comunità lontane, sotto forma di lettera. Secondo molti studiosi, non è da escludere che particolari storicamente attendibili possano essere contenuti in numerose passioni, rimaneggiate ma non interamente leggendarie. Gli scritti storici e antropologici che abbiamo consultato confermano spesso la veridicità di certe versioni documentali.

    Nel corso dei secoli sono stati ritrovati in molte biblioteche manoscritti greci e latini che in molti casi conservavano redazioni più antiche di quelle già note; si tratta per lo più di compilazioni anonime o di dubbia attribuzione, di difficile datazione e collocazione, fatte talvolta di letteratura romanzata che ha posto problemi di cronologia in ordine alla formazione e alla trasmissione, originariamente orale. Soprattutto le versioni più recenti appaiono amplificate in direzione retorica ed elogiativa, in alcuni casi con aggiunte arbitrarie favolistiche in sostituzione ai documenti originali, quando questi mancavano, le quali crearono delle vere e proprie leggende sui martiri.

    Abbiamo scelto di preferenza i testi più antichi, che raccontano fatti accaduti in tempi poco distanti dalla narrazione, dato che la loro antichità potrebbe offrire una maggiore aderenza alla realtà. La documentazione raccolta non ha certo la pretesa di essere esauriente; è piuttosto un’indagine a carattere esplorativo che ha lo scopo di tratteggiare aspetti e momenti delle vite delle martiri particolarmente significativi. Il lavoro non è consistito tanto nella scoperta di nuove fonti, quanto nella rilettura delle fonti già disponibili in una prospettiva diversa, con un punto di vista attento al fenomeno delle convertite quale risultato di un processo in divenire, mentre in genere l’attività di conversione del mondo pagano al cristianesimo è stata considerata, nel materiale agiografico, dal punto di vista dei vincitori cristiani, con finalità di ammaestramento.

    CAPITOLO 1

    TECLA

    Tecla fu una martire orientale, discepola di san Paolo, nata a Iconio, l’attuale Konya, una città posta a nord della catena del Tauro in Asia Minore (l’attuale Turchia), la cui passione contiene le prime manifestazioni femministe della storia.

    Per capire la personalità di questa martire è necessario calarsi nel contesto storico della sua regione, uno dei centri maggiori in cui fiorì la civiltà della Dea e su cui si è riverberata l’influenza di un’antichissima città, Çatal Hüyük (dove il termine höyük è l’equivalente turco di tell, colle), che sorgeva 50 chilometri a sud-est nella piana di Konya, un’area alluvionale fertile compresa tra il Tauro e la steppa salata meridionale dell’altopiano anatolico. La città originaria, risalente al periodo neolitico, ovvero al VII millennio a.C., è una delle città più antiche del mondo ed è stata capace di ospitare oltre 8000 abitanti. Essa stupì gli archeologi per la mancanza di differenze significative nella dimensione e nella struttura delle case, indice di una sostanziale società egualitaria, a differenza delle città posteriori che rivelano differenze strutturali di rango e di funzioni, con case costruite con un’intelaiatura reticolare di travi in legno riempita da mattoni di argilla, la stessa tecnica che si trova a Cnosso, a oltre 3000 anni di distanza, nel leggendario labirinto del Minotauro. Nei locali adibiti al culto di Çatal Hüyük, insieme all’immagine di avvoltoi giganteschi, si trovano rilievi di teste taurine modellati con corna vere le quali, secondo Marija Gimbutas, rimandano al corpo femminile, poiché l’utero con le trombe di Falloppio ha una forma molto simile a quella che veniva rappresentata dal teschio dotato di corna. Queste, inoltre, simboleggiavano le falci lunari, essendo il ciclo lunare analogo al ciclo mestruale. Il grande avvoltoio era una delle manifestazioni della Grande Madre mediterranea, Dea della vita e della morte, diffusa anche in Egitto, dove uno dei geroglifici che indicava la madre era proprio l’avvoltoio, insieme simbolo della cura materna verso i piccoli e divoratore dei corpi morti, che così venivano rincorporati nel ciclo della vita.

    Nel suo libro Colei che dà la vita. Colei che dà la forma, la studiosa Luciana Percovich scrive che le più antiche civiltà a ogni latitudine hanno conosciuto una fase di tipo matrilineare o matriarcale, immaginando un’origine esclusivamente femminile, dove la Madre o la Dea dava la vita ma anche la forma, ossia quell’insieme di riti, simboli e miti necessari per continuare la creazione, garantendo e mantenendo l’armonia con i ritmi della natura. In Europa e in Asia Minore, queste civiltà matriarcali furono poi teatro di scontro con i popoli invasori indoeuropei che, a ondate successive, importarono e finirono per imporre un nuovo ordine religioso e un nuovo sistema sociale. Alla fine, i simboli, i miti, le divinità e i principi regolatori della società furono adattati a un diverso sistema di vita, il tutto non senza dolore e tenaci resistenze, come vedremo.

    La piana di Konia e gran parte dell’Asia Minore furono poi invase nel IV secolo a.C. da Alessandro Magno, re macedone (istruito dal greco Aristotele), devoto a un Olimpo di divinità comandate dal capo supremo, il dio di tutti gli dèi, Zeus, secondo un sistema gerarchico.

    Con Alessandro, la cultura ellenistica si diffuse in tutti i territori da lui conquistati fino all’India; infatti il suo sogno più grande era quello di unire il mondo orientale con quello occidentale. In seguito la città di Iconio fu sottomessa dall’esercito romano, capeggiato dal console L. Cornelio Scipione, coadiuvato come consigliere dal suo fratello maggiore Scipione l’Africano. Un quadro, esposto dal console nel 186 a.C. in Campidoglio, glorificava la presa dell’Asia Minore su Antioco re di Siria.

    I Romani notoriamente erano portati a rispettare la civiltà ellenica che per secoli li aveva influenzati direttamente o indirettamente attraverso la Magna Grecia nell’Italia meridionale e nella Sicilia. Molti Elleni provenienti da tutte le città si erano stabiliti a Roma e i dibattiti sul pensiero greco erano divenuti familiari anche per la produzione teatrale, di ispirazione ellenica. Dunque, il livellamento tra le due civiltà, scrivono gli storici, si era fatto così rapido e travolgente da lasciare pensare che la Grecia, con la sua civiltà, avesse conquistato l’incolto vincitore romano. I padri apostolici adotteranno poi la lingua greca come lingua della Chiesa, e sarà la stessa che verrà parlata nel cuore di Roma non meno che ad Atene e Alessandria.

    Il racconto del martirio di Tecla proviene da un documento molto antico redatto in lingua greca, risalente alla fine del II secolo d.C., gli Atti di Paolo e Tecla, scritto da un prete asiatico (forse nativo di Seleucia in Asia Minore, dove esisteva un grande santuario dedicato alla martire cristiana) e preso più volte in considerazione dai Padri della Chiesa e dalle diverse chiese occidentali. In alcuni ambienti, tali Atti godettero di grande considerazione, in altri vennero assolutamente rifiutati. Tertulliano e san Girolamo li respinsero in blocco, senza esitazione. Ma perché?

    IL RIFIUTO DEGLI ATTI DI PAOLO E TECLA

    Leggiamo quanto scrive a riguardo il vescovo di Cartagine, Tertulliano, all’inizio del III secolo, nel periodo subito successivo alla scrittura degli Atti (De Baptismo, 17):

       Ma la sfacciataggine della donna che ha già usurpato il diritto di insegnare arriverà     ad arrogarsi quello di battezzare? No, a meno che non nasca qualche nuova stupida simile alla prima. Una pretende di sopprimere il battesimo, un’altra vuole amministrarlo essa stessa! E se queste donne invocano gli Atti, che a torto portano il nome di Paolo, e rivendicano l’esempio di Tecla per difendere il loro diritto di insegnare e battezzare, apprendano questo: è un prete d’Asia che ha scritto quest’opera coprendo, per così dire, la propria autorità con quella di Paolo. Accusato di frode, egli confessò di aver agito per amore di Paolo e fu deposto. Di fatto, è forse verosimile che l’apostolo abbia permesso alle donne il potere di insegnare e battezzare, lui che non donò alle spose, se non con costrizione, il permesso di istruirsi? Che esse tacciano, dice egli, e che chiedano a casa loro ai loro mariti. (1)

    È evidente il disprezzo e la sfiducia che Tertulliano nutre verso le donne, insultate per la varietà delle loro opinioni e l’usurpazione di ruoli che non competono loro, ritenendo che l’apostolo Paolo condividesse la sua opinione sulle donne.

    Tertulliano forse si riferiva alle parole di Paolo nella prima Lettera a Timoteo (II, 11-15), che recita: La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettar legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo a essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia.

    Facendo eco a Tertulliano, riguardo agli Atti di Paolo e Tecla, san Girolamo (347-420) dice (De viris illustribus, 7): Pertanto annoveriamo le peregrinazioni di Paolo e Tecla e tutta la favola del leone battezzato tra gli scritti apocrifi. Come è possibile infatti che l’indivisibile compagno (cioè Luca) dell’apostolo, tra tutte le altre vicissitudini della sua vita abbia ignorato soltanto questa? Ma anche Tertulliano, che è vicino a quell’epoca, riferisce che un presbitero d’Asia, seguace dell’apostolo, dopo essere stato dimostrato colpevole presso Giovanni di essere l’autore del libro e aver confessato di averlo fatto per amore di Paolo, fu destituito dal suo incarico. (2)

    Secondo la teologa Elisabeth Schussler, il fatto che gli Atti degli Apostoli non nominino gli Atti di Paolo e Tecla è del tutto plausibile se si pensa che gli scritti di Luca non intendevano fornire una storia dettagliata e precisa del movimento cristiano primitivo, ma piuttosto un racconto delle imprese esemplari dei due principali apostoli, Pietro e Paolo. Quindi l’autore menziona persone e avvenimenti nella misura in cui pongono i suoi eroi nella giusta luce. Ora poiché le vicende di Tecla superano le imprese di Paolo, che assume nel racconto una parte sempre meno importante ed eroica (fino a diventare deludente), è comprensibile che Luca abbia scelto di sorvolare su determinate vicissitudini del suo campione Paolo. Rimane vero che esiste nel testo degli Atti di Paolo e Tecla la prova chiara che Paolo stesso e la sua missione erano molto discussi e ben lungi dall’essere riconosciuti da tutti i settori del movimento cristiano primitivo: le correnti gnostiche ed encratiche, verso le quali l’apostolo ha parole molto dure, come vedremo più avanti, erano contrarie alla dottrina predicata dall’apostolo Paolo.

    Già dalla fine del II secolo il cristianesimo aveva iniziato a costituirsi come religione ufficiale, con un sistema di credenze condiviso, e aveva sentito la necessità di denunciare il possesso di determinati libri considerati eretici, derivati da credenze e pratiche religiose professate in modi molto diversi dalle varie chiese. Il processo di riconoscimento dei veri testi cristiani fu senza dubbio condizionato anche dalle polemiche e dalle lotte riguardanti la posizione direttiva delle donne nella Chiesa. 

    Dalla fine del II secolo il cristianesimo era diventato un’istituzione diretta dai vescovi, che si definirono i custodi della vera fede. Uno di loro, il vescovo Ireneo, che diresse la chiesa di Lione intorno al 180 d.C., scrisse cinque libri di denuncia e confutazione contro i testi eretici che dovevano essere generalmente bruciati e distrutti. Tutti i testi che non derivavano la loro autorità dalla tradizione degli apostoli del Cristo non furono accettati e il cerchio della leadership venne ristretto a un piccolo gruppo di persone: gli apostoli, e dopo di loro i vescovi, consacrati dagli apostoli, gli unici a godere di incontestabile autorità. Tra di loro non erano comprese le donne (3).

    Tornando alla nostra fonte, nonostante il presbitero d’Asia sostenesse di aver scritto gli Atti di Paolo e Tecla per amore di Paolo, non gli viene riconosciuta una reale derivazione dall’apostolo. Tuttavia, pur essendo degradato, non fu scomunicato o escluso dalla chiesa, come osserva lo studioso Mario Erbetta, e tale presbitero diede una particolare estensione e fervore alle vicende della martire.

    L’ACCETTAZIONE DEGLI ATTI

    Gli Atti di Paolo e Tecla furono addirittura considerati testi canonici nell’Italia del nord, secondo lo studioso W. Rordorf che in un articolo scrive: "Possediamo degli indizi che in questa regione gli Atti di Paolo e Tecla fossero persino contati tra gli scritti canonici". (4) 

    Abbiamo anche la testimonianza della pellegrina Eteria, che intorno al 400 visitò il famoso santuario di Santa Tecla a Seleucia, dove lesse gli Atti. La pellegrina, proveniente dalla Galizia spagnola, era probabilmente una nobildonna, la cui posizione familiare doveva essere delle più distinte vista la considerazione che trovava ovunque da parte di monaci, vescovi e rappresentanti dell’amministrazione imperiale, tanto che si potrebbe pensare a una sua parentela o amicizia con la famiglia di Teodosio, che era galiziano. Ecco quanto scrive Eteria:

    Il terzo giorno arrivai alla città che si chiama Seleucia di Isauria. Giunta là andai dal vescovo, veramente santo ex monaco, anche là nella detta città vidi una chiesa molto bella. Poiché di là alla chiesa di Santa Tecla, in una località più lontana dalla città, su un’altura ma pianeggiante, vi erano circa 500 passi dalla città, preferii arrivare fin là, per fare una fermata che avevo intenzione di fare. Ora vicino alla santa chiesa non vi erano nient’altro che innumerevoli monasteri di uomini e donne (…) sulla collina e in mezzo un grande muro che include la chiesa, in cui è la cappella martirio: questa cappella è molto bella. Vi è stato messo il muro per proteggere la chiesa, a causa degli Isauri, che sono gente molto cattiva e spesso fanno i ladroncelli, perché alle volte non tentino qualche brutto scherzo sul monastero che è deputato là (al servizio della chiesa). Arrivata là nel nome di Dio, dopo aver fatto una preghiera al martirio e aver letto inoltre tutti gli Atti di santa Tecla, resi infinite azioni di grazia al Cristo, nostro Dio, che si degnò, indegna e priva di meriti come sono, di dar compimento a tutti i miei desideri". (5)

    La pellegrina galiziana riferisce di aver letto nella chiesa di Santa Tecla a Seleucia tutti gli Atti della santa, ossia l’opera completa, usata presso il santuario come documento ufficiale. Con il trascorrere del tempo, soprattutto negli ambienti ecclesiastici di Roma, prevalse la linea intransigente nei confronti del documento e nel 447 il papa Leone Magno lo citò con parole dure, non ammettendo che avesse neppure un fondo di autenticità. Il canone ecclesiastico che si andò formando già a partire dal II secolo, come abbiamo detto, riflesse un processo di selezione che incontrò una certa opposizione e servì a sbarrare definitivamente alle donne la possibilità di pretendere posizioni direttive di grande responsabilità. A questo punto gli Atti di Paolo e Tecla avrebbero dovuto sparire, ma non fu così, perché sopravvissero in parte grazie al culto di Tecla; ossia, secondo alcuni studiosi, fu la venerazione per santa Tecla a far sì che la parte dedicata alla santa venisse staccata e utilizzata come vero e proprio testo agiografico. Non si sa di preciso quando la parte dedicata a Tecla fu separata dal resto del corpo degli Atti; certamente, scrive Mario Erbetta, prima del Decretum Gelasianum (500-550). Tuttavia, sappiamo che: In questo passaggio da atto apocrifo a fonte agiografica è molto probabile che il testo abbia subito qualche modifica. Probabilmente furono eliminati i punti sospetti di eresia (6), e probabilmente fu anche ridimensionata la tradizione primitiva di prassi cristiana che riconosceva alla donna ruoli importanti e direttivi nelle primitive comunità cristiane. I testi potrebbero cioè essere stati riscritti, o rimaneggiati, per eliminare eventuali tracce sospette.

    La leggenda di Tecla, staccata dagli Apocrifi di Paolo, lavata delle sue connotazioni eretiche (encratismo, tendenze gnostiche) e da tutta la parte che metteva in risalto il ruolo attivo delle donne nel rivendicare posizioni egualitarie nel ministero ecclesiastico, ebbe una brillante carriera. Leggiamo quindi il testo nella sua versione greca, giudicata da alcuni studiosi come la migliore. (7)

    ATTI DI PAOLO E TECLA

    Salendo Paolo ad Iconio, dopo la fuga da Antiochia, lo accompagnarono nel viaggio Demas e il calderaio Ermogene. Era questa della gente piena di ipocrisia, la quale gli teneva dietro assiduamente, facendo mostra di volergli bene. Paolo, badando solo alla mansuetudine di Cristo, non nutriva a loro riguardo alcun cattivo sospetto, ma li amava fervidamente, cercando di rendere loro amabili tutte le sentenze della dottrina del Signore e dell’esegesi evangelica, riguardanti sia la nascita che la resurrezione del Figlio diletto e di più, narrando loro parola per parola le meraviglie del Cristo, come erano state a lui rivelate. Un tal uomo, di nome Onesiforo, udendo che Paolo era in viaggio verso Iconio, gli andò incontro insieme con i suoi figli Simmia e Zenone e con la moglie Lettra, per riceverlo in casa sua. Tito gli aveva descritto l’aspetto di Paolo, poiché quegli non l’aveva mai visto di persona ma solo nello spirito. Camminava verso la Via Regia che porta a Listra, si fermava ad attenderlo e osservava i passanti secondo la descrizione di Tito. Finalmente scorse Paolo venire: piccolo di statura, testa calva, gambe curve, corpo ben formato, sopracciglia congiunte, naso un po’ sporgente, pieno di bontà. Alle volte sembrava un uomo, alle volte aveva la faccia di un angelo. Quando Paolo vide Onesiforo, sorrise. Questi disse: Salve, servo del Dio benedetto. L’altro rispose: La grazia sia con te e con la tua casa. Ma Demas ed Ermogene divennero invidiosi e, simulando ancor più la loro ipocrisia, il primo proruppe: Noi non siamo servi del Dio benedetto, perché tu non debba salutarci in questo modo?. E Onesiforo: Non vedo in voi alcun frutto di giustizia; se però siete qualcosa, su venite anche voi a casa mia e ristoratevi.

    Paolo aveva ricevuto l’incarico di diffondere la parola del Cristo ai pagani dalla chiesa di Gerusalemme, come ci racconta lui stesso nella sua Lettera ai Galati (II, 7-10). In modo sottile, l’autore degli Atti, pur lodando il ministro legittimo Paolo, che bada solo alla mansuetudine di Cristo, vuol farci capire che egli accoglieva presso di sé anche persone non degne, persone che avrebbero dovuto essere a ragione respinte. Inoltre ci fa notare che Onesiforo, pur non possedendo responsabilità amministrative in seno alla comunità, capisce subito che Demas ed Ermogene non meritano amicizia, e infatti dice loro: Non vedo in voi alcun frutto di giustizia. Lo stesso Onesiforo sa individuare Paolo tra i molti passanti per la via regale verso Listra, anche se non l’aveva mai visto di persona, ma solo nello spirito, come se Onesiforo fosse dotato di una percezione intuitiva, che Paolo invece non assecondava. Tutto ciò non è senza importanza poiché, già all’inizio del racconto, si profila il grande dibattito che opponeva cristianesimo e gnosticismo (una corrente religiosa, nata alle origini del cristianesimo, diffusasi dal I al IV secolo d.C. in un’area geografica comprendente l’attuale Iraq, la Siria, la Palestina, l’Egitto, Roma e Lione) sulla difficile questione che riguardava la selezione e l’accoglimento dei futuri candidati cristiani in seno alle comunità. L’autore degli Atti ritiene che il ministro di Dio, Paolo, scelga i possibili nuovi fedeli secondo criteri concreti ma insoddisfacenti, adottati dalla maggioranza delle chiese ortodosse (ossia le chiese del retto pensiero) in base ai quali, per divenire membro della comunità cristiana, era sufficiente professare il nuovo credo, accettare il rito del battesimo, prendere parte al culto e obbedire al clero. In questo modo venivano eliminati i criteri qualitativi, tanto cari agli gnostici, criteri di maturità spirituale, di penetrazione intuitiva, di autentica disponibilità interiore.

    Gli gnostici mettevano in guardia dall’accettare chi per imitazione o per ipocrisia voleva entrare nella chiesa e chiedevano invece di osservare attentamente le conseguenze delle loro attività, citando il detto di Gesù: Dai loro frutti li conoscerete. Onesiforo non casualmente fa notare: Non vedo in voi alcun frutto di giustizia. Per gli gnostici non bastava unirsi al ministro della comunità, ascoltarlo e ubbidirgli; ciò che distingueva il vero candidato dal falso era il livello di comprensione, la qualità dei rapporti reciproci e soprattutto l’esperienza personale col divino, l’unica in grado di fornire il criterio ultimo della verità, con diritto di precedenza su ogni testimonianza diretta e ogni tradizione apostolica. (8)

    Secondo il presbitero d’Asia, autore degli Atti di Paolo e Tecla, l’apostolo prendeva decisioni non sempre condivise e, difatti, anche il suo seguace Onesiforo non era d’accordo con lui sull’accoglimento nella comunità di due individui come Ermas ed Ermogene. Occorreva cioè essere più elitari, il che avrebbe richiesto una gestione molto più complessa, mentre Paolo, non volendo correre il rischio di escludere molti che avrebbero potuto aver bisogno di quel che la Chiesa poteva dare, comprendeva nel suo abbraccio persone indegne e piene d’ipocrisia. Continuiamo nella lettura.

    LE BEATITUDINI

    Entrato Paolo in casa di Onesiforo, la gioia fu grande, le ginocchia si piegarono, fu spezzato il pane e fu predicata la parola di Dio concernente la continenza e la resurrezione. Così infatti Paolo parlò: "Beati i puri di cuore: essi vedranno Dio. Beati quelli che conservano casta la carne: diverranno tempio di Dio. Beati i continenti: a loro parlerà Iddio. Beati quelli che hanno rinunziato a questo mondo: piaceranno a Dio. Beati quelli che tengono la moglie come se non l’avessero: erediteranno Iddio. Beati quelli che temono Iddio: diventeranno angeli di Dio. Beati quelli che temono dinnanzi alle parole di Dio: verranno consolati. Beati quelli che hanno accolta la sapienza di Gesù Cristo: si chiameranno figli dell’Altissimo. Beati quelli che hanno conservato puro il battesimo: si riposeranno presso il Padre e presso il Figlio. Beati quelli che hanno compreso Gesù Cristo: dimoreranno nella luce. Beati quelli che per amor di Dio si sono scostati dalla moda del mondo: giudicheranno gli angeli e saranno benedetti alla destra del Padre. Beati i misericordiosi: troveranno misericordia da Dio e non vedranno l’amaro giorno del giudizio. Beati i corpi delle vergini: essi piaceranno a Dio e non perderanno la mercede della loro castità ché la parola del Padre sarà per essi causa di salvezza nel giorno del Figlio del Dio e avranno requie per tutta l’eternità.

    Alcune di queste beatitudini hanno una struttura identica a quella delle beatitudini evangeliche, ma dal punto di vista del contenuto vi è una differenza sostanziale: ben sei beatitudini su tredici riguardano la virtù della continenza, enkrateia, un concetto seguito dalla setta dell’encratismo: una dottrina che praticava la continenza anche delle coppie sposate, condannava l’uso di cibi animali e del vino, nonché le nozze e la procreazione. È stata notata la persistenza del movimento encratico in Isauria, Panfilia, Cilicia, Siria del nord, ossia nelle principali aree di diffusione del culto di Tecla. Tale dottrina fu condannata da Paolo in Timoteo (4, 1-5) quando scrive: Lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, sedotti dall’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza. Costoro vieteranno il matrimonio, imporranno di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati con rendimento di grazie dei fedeli e da quanti conoscono la verità. Infatti tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera.

    Per l’apostolo Paolo la convivenza e la sessualità degli sposi è permessa, anche se viene vista come un ripiego dovuto all’incontrollabilità del loro istinto sessuale. (…) Alle vedove e ai vedovi Paolo ripropone invece la castità, presentando l’eventuale scelta di un nuovo matrimonio in modo del tutto negativo. (9)

    Alcuni studiosi fanno notare che nella concezione che Paolo ha della sessualità emergono contraddizioni dovute al fatto che, pur essendo nato in un ambiente culturale ellenistico, era stato educato nelle scuole rabbiniche e il mondo giudaico era dunque in grado di trasmettere al cristianesimo non solo la sua concezione antifemminista ma anche ossessioni sessuali a carattere religioso(10).  Se da una parte il cristianesimo di Paolo dava credito a coloro che consideravano la vita sessuale impura, offrendo soddisfazione ai molti che erano affascinati dall’ascetismo, dall’altra non sembra accentuasse eccessivamente la continenza e non avversasse mai la compatibilità della vita normale degli sposi con la perfetta pratica religiosa. Certi suoi punti di vista collimavano con la sapienza del tardo passato pagano, per il quale l’ascetismo era una componente importante della pratica religiosa; raramente si è tentato di spiegare l’ascetismo e l’astinenza sessuale dei predicatori cristiani alla luce del comune riferimento alle vicende mitiche sugli antichi sapienti pagani.

    Nella cultura greca classica si sentiva l’esigenza di riservare il contatto con il divino a persone pure; per questo, per particolari compiti di carattere sacerdotale, venivano richieste vergini, fanciulli impuberi, oppure donne anziane che avessero chiuso con il sesso. Anche nella tragedia greca si accenna spesso alla presenza delle vergini nei templi (Euripide: Ione, Ifigenia, Taurica, Elena) e a scelte di astinenza sessuale per motivi religiosi (Ippolito). Significativo, infine, era il carattere fortemente antisessuale di alcune festività: le Thesmoforie, ad esempio, prevedevano l’esclusione dei maschi e un periodo di astinenza, aiutato forse da preparati antiafrodisiaci, per le donne.

    Nella cultura romana le vestali, assunte tra i sei e i dieci anni, erano obbligate a rimanere vergini per tutti i trent’anni del loro servizio alla dea Vesta, al termine del quale ricevevano una dote e potevano sposarsi. Il loro dovere principale era quello di custodire il fuoco sacro del focolare pubblico della città, nel tempio della dea, identificata con la Terra Madre.

    La studiosa Rousselle Aline sottolinea che le indicazioni più importanti riguardo il valore della verginità non vanno cercate nella condotta delle vestali o nei comportamenti delle sacerdotesse pagane celebranti determinate festività, ma piuttosto nelle raccolte di citazioni che i medici antichi scrivevano alle famiglie, imponendo certe norme utili alla salute. Il Corpus Hippocraticum comprende opere mediche di epoche diverse (dal VI secolo a.C. all’inizio dell’era cristiana) che diventarono lo strumento al servizio di una precisa politica familiare. Ad esempio, il medico Sorano (I secolo a.C.) affermava che ogni emissione di seme nuoceva alla salute e, riprendendo un’affermazione di Epicuro, che il rapporto sessuale era di per sé nocivo; ribadiva che gli uomini casti erano più grandi e forti dei non continenti e che le donne passionali avrebbero avuto gravidanze fragili. Sempre riguardo alle donne, nella sua opera Sull’igiene constatava che quelle che avevano rinunciato al coito e si erano mantenute vergini per rigore nel servire gli dèi erano meno soggette alle malattie. Il medico Galeno nel II secolo a.C. sosteneva che con il liquido seminale veniva eliminato anche il soffio vitale e non ci si doveva meravigliare che le persone dedite al libertinaggio si infiacchissero, oltre al fatto che il piacere allentava la tensione vitale, al punto che certi erano morti per eccesso di piacere. Esisteva tutta una serie di consigli sugli alimenti che predisponevano all’amore; in generale si dovevano evitare i cibi flatulenti, ossia portatori di flatus, il soffio vitale, ed erano invece da preferire i cibi freddi e rinfrescanti, come la lattuga, che inaridivano il desiderio. Per concludere, le esperienze pagane di astensione sessuale, e le condizioni in cui in tale contesto si proibiva alla donna la libera espressione della sua sessualità, costituirono certamente una preparazione alla concezione della continenza cristiana, come predicata da Paolo (11), che dà senza dubbio un peso notevole alla castità. Tuttavia, nelle beatitudini veniva esaltato anche il timor di Dio, la ritualità del battesimo, la comprensione dell’insegnamento di Cristo, la misericordia, tutte virtù sulle quali non potevano che essere d’accordo anche i pagani. In un sacrario privato eretto in onore della dea Cibele Adgistis (delle rocce) nella città di Filadelfia in Lidia, una regione dell’Asia Minore, verso la fine del II secolo a.C. o al più tardi all’inizio del

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