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Dall'eremo: Lettera ai fratelli delle chiese d’oriente
Dall'eremo: Lettera ai fratelli delle chiese d’oriente
Dall'eremo: Lettera ai fratelli delle chiese d’oriente
E-book161 pagine2 ore

Dall'eremo: Lettera ai fratelli delle chiese d’oriente

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Info su questo ebook

Sempre di più viviamo nel frastuono, sempre di più immersi in un flusso incessante di comunicazioni… E il mio io dov’è? Che senso ha questa corsa, questo gridare?

“Il Signore, nella voce di un silenzio sottile...” ( 1 Re 19, 1-13).

L’eremita impara a vivere dell’ascolto di questa voce – non senza aver conosciuto l’impeto del vento, del sisma, del fuoco, e l’impotenza dinanzi al proprio stesso desiderio di morte...
Questo “silenzio sottile” alimenta la vita di chi è chiamato al suo ascolto, e non solo per se stesso...
Questo libro nasce dalla gioia di consegnare ad altri qualcosa di questo ascolto – e il desiderio conduce verso Oriente, in un movimento naturale di comune ricerca...
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2016
ISBN9788897264729
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    Anteprima del libro

    Dall'eremo - Mirella Mujà

    SPOSO

    I – DEDICAZIONE

    Lettera ai fratelli delle chiese d’oriente

    La voce del mare arriva fin qui nei giorni d’autunno. Non l’ho riconosciuta subito, e a lungo mi sono chiesta che cosa fosse quel rombo in sottofondo, di giorno e di notte. Il mare è lontano dall’eremo, anche se riempie l’orizzonte. Non pensavo che la sua voce fosse così potente da superare la distanza e l’altezza. Nei giorni in cui rimbomba non c’è vento, ma una grande pesantezza grigia ricopre tutto, fino ai monti più lontani.

    Penso al giorno che ho iniziato a scrivere una lettera ai fratelli delle chiese orientali, come se fossero amici e conoscenti persi di vista per tanto tempo. Non ero ancora arrivata qui, allora. Ma venendo qui, la lettera è entrata a far parte dei giorni.

    Per scrivere bisogna destinare. A volte i destinatari sono presenze familiari, o anche solo immaginate come tali – ma in questo caso, non lo sono. Dall’inizio infatti scrivere è stato per me come gettare una corda nel vuoto, senza sapere se ci sarà qualcuno che ne afferrerà il lembo, tendendola come un passaggio sull’abisso. Ho scritto così – anzi, direi: ho scritto per questo. Ho desiderato gettare la corda della condivisione, come quando ci si trova a una mensa con degli sconosciuti, una mensa tanto vasta da coincidere con il mare che separa questa costa della Calabria ionica dalle coste greca, turca, siriaca, palestinese, egiziana…le sponde da cui, secoli fa, sono approdati qui i monaci perseguitati, come i migranti di oggi, e hanno trovato rifugio sui monti e nelle grotte. Questo è stato per loro un paesaggio familiare, con le asprezze calcaree e rocciose, gli anfratti, e le macchie della vegetazione sulle rive dei torrenti e sui monti. Sprazzi di deserto, di oasi, di giardini irrigati, di pietra. Questi padri, qualunque fosse il motivo della persecuzione da cui fuggivano, hanno ritrovato qui le grotte e le cime da cui venivano, segnandone le pareti di pietra con croci siriache, copte, bizantine.

    La condivisione richiede qualcosa da condividere. Questa è la materia della vita quotidiana fatta di preghiera, lavoro, accoglienza. Il lavoro e l’accoglienza non hanno bisogno di essere raccontati, e la preghiera, nella sua essenza più intima, è segreta e spesso senza parole. Ma tutto questo poggia sull’ascolto quotidiano della Scrittura, delle persone, dei fatti, delle cose. E questo si può raccontare per come scrive dentro e lascia tracce. Così tutto il già scritto, in risonanza con la lettura quotidiana della bibbia, è approdato in questo luogo, confluendo nel solco già preparato: questa lettera ai fratelli delle chiese orientali.

    Non ho mai smarrito in questi anni il senso del luogo e della storia: sono a mensa, una mensa grande come tutto questo mare Ionio, e porto con me le briciole del pane di questi ultimi anni della mia vita. Lo porto perché credo che su questa mensa sarà trasformato in comunione da Colui che chiama da tempo tutti quelli che come me si affacciano a questo orizzonte. Non avrei questa speranza, se sapessi di consegnarlo, così com’è, nelle mani di altri commensali, uomini e donne come me, spesso svuotati di speranza, e soprattutto segnati dalle ferite della reciproca diffidenza. Ma ho questa ferma fiducia perché lo porto alle mani di Colui che moltiplica spezzando e distribuendo, e più spezza più distribuisce. Questa è infatti la moltiplicazione: quello che per me, per noi, è una separazione, una sottrazione, una frattura, è in verità chiamato a diventare, nel segno scandaloso della divisione, ciò che unisce e vivifica insieme tutte le membra sparse sulla terra…

    Scrittura e silenzio

    Un tempo scrivevo molto. Ho provato la gioia dello scrivere fin dall’adolescenza, ed è rimasta immutata lungo gli anni: è una potente energia di vita. Ho smesso di scrivere nel tempo dell’impegno politico, quando mi appariva un lusso. Ho ripreso a scrivere, dopo tanti anni di silenzio, nel tempo dell’esilio, e sono tornata alla poesia. Ho nuovamente smesso nel momento della prima conversione, sotto la luce della via di Damasco. Ho ripreso a scrivere quando ho iniziato ad entrare nel fitto della Scrittura e a vivere all’interno di essa come in una grande casa familiare. Allora sono ancora tornata alla poesia, perché si avvicina in punta di piedi a ciò che resta nascosto.

    Le figure più amate della Bibbia diventavano parlanti per me attraverso la poesia – o meglio, essa era l’unico linguaggio con cui si comunicavano a me, e io comunicavo con esse.

    Ho scritto molto. Ogni volta era una scoperta, un incontro da cui ricevevo un potente anelito di vita. Davo da leggere quei fogli ad amici, era il mio modo di condividere con essi la mia vita.

    Anni passarono così. Poi tornò il silenzio. Forse era giusto tornare al silenzio, le parole cadevano nel vuoto e quasi mi sembrava di cadervi anch’io.

    Furono anni di silenzio. Questo vuol dire di spegnimento del senso vitale. Infatti vivevo stancamente, molto…

    Poi venni a Gerace e nei primi tempi ripresi a scrivere: qualche breve preghiera, poesia, a briciole sparse con mani stanche.

    Poi scrissi un Akathistos allo Sposo, dopo molta preghiera per invocare ancora il dono di quel flusso di vita conosciuto nel passato. E da allora ancora il silenzio. In fogli sparsi, a Gerace, avevo scritto ciò che vedevo e comprendevo di questa chiamata. Allora ero pervasa da un senso di fecondità che mi faceva scrivere per quelli che avrebbero un giorno incontrato sul loro cammino questa testimonianza di vita.

    Poi è tornato il silenzio. È tornato per lo spegnimento di quel senso di fecondità: è come se improvvisamente avessi scoperto di non avere interlocutori. Credo sia proprio così.

    Ora mi sento pronta a ricominciare, a partire dall’accettazione di questa realtà. Che è solitudine e comunione insieme, l’una sperimentata nel vissuto quotidiano, l’altra nello spirito, e con la coscienza di essere un corpo rinato, un corpo fatto di me e di creato.

    Desiderio di comunione

    Ricordo che questo sentimento di comunione mi era familiare fin dall’infanzia. All’inizio si è manifestata come compassione per le creature che finiscono, a cominciare dalle piante. Mi interrogavo sulla morte di erbe e rami spezzati che a volte trovavo per via andando in campagna dalla nonna contadina. Ne raccoglievo alcuni che piantavo dove mi capitava, nel tentativo di sottrarli alla fine certa. Mi attraeva questo mistero, il passaggio dall’essere vivo, e per una pianta , verde, allo stato di non essere più se non inaridito, secco. Perché ero certa che anche le piante fossero capaci di sofferenza.

    Con la crescita della coscienza, la mia attenzione si spostava dalle piante, agli animali, agli uomini. Mi sembrava tutto avvolto nello stesso mistero, che mi affascinava: quello di un passaggio. Finché un giorno ne feci l’esperienza in una malattia grave che mi condusse vicino alla morte. Anche se ero ancora piccola – avevo appena sei anni – avvertivo questo stato come un transitare, anzi una partenza, e ne ebbi una percezione chiarissima: sto morendo , dissi a mio padre nell’ambulanza. Svegliandomi la notte in una corsia dell’ospedale dei bambini, vidi accanto a me mia madre, e nello stesso tempo provai il dolore di quella corsia come se fosse mio,personale. Esso si esprimeva in quel momento nel pianto di un bambino malato vegliato dalla nonna. Lo seppi perché chiesi a mia madre chi piangeva, e mi rispose: È un bambino che vuole sua madre, lontana per lavoro, è qui solo con la nonna. Un senso sconosciuto di impotenza mi sommerse allora, lo ricordo bene, ed è sempre attuale. Allora dissi a mia madre: Vai a portare le nostre arance a quel bambino!. C’erano infatti delle arance del nostro giardino accanto al mio letto. Il pianto di quel bambino mi ha accompagnato sempre come espressione del dolore senza consolazione. Non ricordo altro di lui, e spesso mi sono chiesta quale fosse poi la sua vita.

    A questa ed altre esperienze del dolore, personale o di altri, è sempre associata, oltre la costanza del ricordo e della compassione, anche una consapevolezza sempre crescente: che tali cose fossero il segno di altre, di tante simili, e che dovessi parlarne. Questa esperienza di comunione, di cui non fui consapevole per lunghi anni, persisteva legata al bisogno di parlarne. E parlarne voleva dire scrivere, cioè comunicare. Questo fu il filo continuo che legava insieme tutte le esperienze di relazione con il mondo: esse tornavano al mondo, si imponevano come anelli di una catena di comunicazione con gli altri. Gli altri erano quelle persone con cui desideravo condividere le cose vissute. Così cominciai a scrivere, partendo da piccoli fatti, che diventavano racconti. E questi brevi scritti venivano consegnati alle persone con cui desideravo essere più a contatto, come alcune insegnanti – ero allora nei primi anni del liceo.

    Questo desiderio di comunicazione mi ha sempre accompagnata. Non era solo desiderio, ma anche bisogno di vita. Si formava così con alcune persone un dialogo che mi aiutava a vivere. Anzi direi che ne avevo bisogno per vivere, cioè per non ripiegarmi su me stessa nell’isolamento della mia vita. Nello stesso tempo avvertivo queste comunicazioni come un dono della mia vita: era proprio ciò che avevo di più prezioso a essere così consegnato ad altri. Finché non misi fine io stessa, per una malintesa ascesi rivoluzionaria, a questo filo di comunicazione, feci esperienza di risposte molto varie e sfumate – ma erano risposte. C’era stato un dialogo reale. Devo dire che da allora non lo ho più conosciuto, se non molto di rado.

    Sono trascorsi quarant’anni da allora; smisi di scrivere attorno ai venti anni. Smettendo di scrivere, smisi anche di ricordare consapevolmente le esperienze di comunione con il dolore delle creature. Esse poi mi attraversarono in silenzio e rimasero mute. Ma custodisco alcuni frammenti che sono il segno in me di una unità spezzata.

    Dopo la mia conversione ripresi a scrivere, rinvigorita e vivificata dal contatto con la Scrittura. Per alcuni anni scrissi molto, ed ero animata nel farlo dall’antico desiderio di condivisione. Sempre di più avvertivo tutto questo come la consegna di un tesoro prezioso.

    Che cosa accadde, perché ritornò il silenzio? Non fu un silenzio totale, ma interrotto da qualche breve grido.

    Non si è stabilito alcun dialogo.

    Non mi sono accorta subito della mia nuova difficoltà. Il silenzio è caduto all’improvviso. Credo che fosse una svolta. Scrivere ora non è più lo stesso. Né desiderio, né attesa, solo una piccolissima consapevolezza, spesso attraversata dal dubbio di un non-senso: FORSE è bene lasciare un segno. A chi? Questa domanda ha segnato questi ultimi tempi. Infatti sono passata dalla speranza in una discendenza, alla consapevolezza del deserto intorno a me. Non so rispondere neanche alla domanda: a chi?, non ho strumenti. Non vedo nulla. Forse in questo sono simile a quei prigionieri che nell’oscurità della loro cella mantengono accesa una piccola luce di speranza, consegnando il cuore alla luce attraverso questo piccole gesto dello scrivere.

    Nel tempo in cui scrivevo molto ero affascinata dalle parole di Florenskj, quando era prigioniero , come dal Cantico Spirituale di S. Giovanni della Croce, anche lui prigioniero. Perché scrivevano, perché hanno scritto? È un credo alla Vita. E resto in attesa dei barlumi di vera luce che chiedono di essere tradotti in povere parole.

    Questa è oggi la mia speranza e anche la mia preghiera.

    Amen.

    Scrivere come respirare

    Quel giorno l’ulivo davanti alla finestra

    divenne una fiamma verde,

    e ogni foglia uno smeraldo di luce.

    Il segreto di ogni vivente è la luce.

    È segreto perché non si vede, ed è nascosto nell’intimo sussistere di ogni cosa.

    Ma è segreto anche perché appartiene al momento della nascita, quando fu impresso in una relazione di intima appartenenza. Anche una foglia lo conosce, come può esserci conoscenza in una foglia: è un conoscere per una adesione della creatura, non per sapienza, ma per obbedienza.

    Accade talvolta che si aprano spiragli nell’apparenza visibile delle cose, e si veda la loro intima adesione come luce. Essa è non solo il segreto di quel vivente con il suo creatore,ma anche la manifestazione di ciò che sarà nella trasfigurazione di tutto in cieli nuovi e terre nuove.

    Quando uno spiraglio si apre, è grande gioia per

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