Dialoghi in città
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Anteprima del libro
Dialoghi in città - Camillo Ruini
Landi
Introduzione
L’Archidiocesi di Spoleto-Norcia guarda con simpatia alla città degli uomini e desidera tenderle la mano con l’iniziativa culturale Dialoghi del venerdì
, chiamati anche Dialoghi in città
, momenti di approfondimento e confronto che si inseriscono nel solco del dialogo con il territorio, realizzato dagli ultimi Arcivescovi Ottorino Pietro Alberti, Antonio Ambrosiano e Riccardo Fontana.
Le profonde e rapide mutazioni culturali, sociali e tecnologiche del nostro tempo richiedono di ripensare costantemente forme e modi della presenza della Chiesa nella città dell’uomo, tante sono le esigenze e le attese alle quali devono corrispondere l’annuncio del Vangelo e le iniziative della solidarietà fraterna. Quanto più urgono le necessità, tanto più la presenza della Chiesa deve essere operante e ricca di frutti. Rispettosa delle legittime autonomie e competenze, essa considera suo preciso mandato farsi presente in tutta la realtà: quella della vita culturale, del lavoro, dei servizi, del tempo libero; impegnata in prima persona, intende assicurare a tutte le componenti sociali – e da esse spera di ottenere – una collaborazione leale, fattiva e cordiale. Pur non avendo risposte tecniche da fornire agli interrogativi posti dalla convivenza civile, la Chiesa sa di compiere la sua, indicando nel Signore Gesù la causa, il fine e il modello dell’uomo autentico; offrendo gli imperativi della morale umana ed evangelica non come limiti o motivi di oppressione, ma come ragioni di pieno sviluppo della persona; additando delle mete per le quali ritiene valga la pena di vivere e donando, in nome e per mandato di Cristo, la forza per raggiungerle. Il suo primo servizio all’uomo è quello della verità e della grazia, da cui deriva l’impegno dell’azione a vantaggio dei singoli e della comunità. Essa desidera costruire, insieme con le altre realtà, una salda piattaforma di virtù morali su cui edificare una convivenza a misura d’uomo: «Tutti dipendiamo da tutti», scriveva il Beato Giovanni Paolo II (cf. Sollicitudo rei socialis, 38).
Ciò è vero in qualsiasi ambito ed in qualsiasi ordine della vita umana, in particolare in quello della convivenza civile e sociale. Questa interdipendenza può essere sentita come una coazione, oppure accolta ed accettata come un dovere morale. Quando la si interpreta così, essa si trasforma in un valore: la solidarietà, impegno fermo e perseverante per il bene comune. Le nostre realizzazioni umane – lo sappiamo tutti – tanto valgono quanto si rivelano strumenti di servizio nei confronti dei nostri simili. Perché, ci ricorda Papa Benedetto XVI nella Enciclica Caritas in veritate, «il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità» (n. 25).
Su questa linea, con l’iniziativa dei Dialoghi del venerdì
la Chiesa, che è a Spoleto-Norcia, vuole offrire il proprio contributo per rendere la vita sociale sempre più umana, cioè degna dell’uomo, annunciando la parola della speranza e della consolazione che Gesù Cristo da affidata ai suoi discepoli, per condurre gli uomini alla vita buona e bella del Vangelo.
+ RENATO BOCCARDO
Arcivescovo di Spoleto-Norcia
La sfida educativa
Camillo Ruini
¹
Un fatto vistoso e inquietante
Nel gennaio-febbraio 2008 Benedetto XVI, in una lettera alla diocesi di Roma e poi in una grande udienza in piazza San Pietro, riassumeva la situazione attuale dell’educazione nella formula emergenza educativa
, che poi è stata abbondantemente ripresa perché esprime una sensazione diffusa in Italia e, perfino più acutamente, in molti altri paesi. Educare non è mai stato facile, osservava il Papa, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno per esperienza i genitori, gli insegnanti, lo sappiamo noi sacerdoti, come tutti coloro che a vario titolo si occupano di educazione. Sembrano aumentare cioè le difficoltà che si incontrano nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento, nel formare quindi persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita.
Per spiegare una tale emergenza non basta richiamare la cosiddetta frattura tra le generazioni
, nel nostro tempo certamente più profonda e più condizionante che in passato: essa, infatti, sembra essere l’effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori. Ancora meno senso ha far carico di questa frattura e dell’emergenza educativa alle nuove generazioni, come se i bambini di oggi fossero diversi e più difficili
rispetto a quelli che nascevano nel passato. Ma probabilmente è anche poco utile e troppo sbrigativo, o comunque insufficiente, attribuire tutte le responsabilità agli adulti di oggi, come se, per loro carenze, non fossero più capaci di educare. È certamente forte e diffusa, tra i genitori come tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tendenza a rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il proprio ruolo. Ma, di nuovo, questo sembra essere piuttosto l’effetto che la causa delle difficoltà dell’educazione.
Riconoscere questo non significa condividere quelle tendenze allo scaricabarile
che attribuiscono tutte le colpe a un’imprecisata società
e negano le responsabilità personali: nel nostro caso sia quelle degli educatori sia anche quelle dei ragazzi e dei giovani che sono i soggetti dell’educazione. Non sembra fondato però mettere principalmente l’accento sulle carenze delle persone. Non basta nemmeno chiamare in causa le pur evidenti lacune e disfunzioni del nostro sistema scolastico, come di quelli di molti altri paesi.
Le radici delle attuali difficoltà
Una spiegazione seria dell’emergenza educativa in cui ci troviamo rimanda piuttosto al predominio del relativismo nella nostra cultura e nella vita sociale. In questo senso Benedetto XVI ha parlato più volte di dittatura
del relativismo e alla luce di essa ha affermato che l’emergenza educativa oggi è, in certa misura, un’emergenza inevitabile. Quando infatti vengono a mancare, come orizzonte della nostra vita, la luce e la certezza della verità, al punto che, anche e particolarmente in ambito educativo, lo stesso parlare di verità viene considerato pericoloso e autoritario
, e parallelamente, sul piano etico, si ritiene infondato e lesivo della libertà ogni riferimento ad un bene oggettivo
, che preceda le nostre scelte e possa essere il criterio della loro valutazione, diventa inevitabile dubitare della bontà della vita e della consistenza dei rapporti e degli impegni di cui la vita è intessuta. È ancora un bene, allora, essere una persona umana? Vivere può ancora avere un significato? Come sarebbe possibile, entro questo quadro di riferimento culturale, proporre ai più giovani e trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di vita, un significato e obiettivi consistenti per la nostra esistenza e per il nostro futuro, sia come persone sia come comunità? Non è strano, allora, che l’educazione tenda a concentrarsi sulle questioni di tecnica educativa
, certamente importanti ma non decisive, e a ridursi alla trasmissione di informazioni e di specifiche abilità, mentre si cerca di appagare il desiderio di felicità delle nuove generazioni colmandole di oggetti di consumo e di gratificazioni superficiali. Ma proprio così abdichiamo al nostro compito educativo e non offriamo ai più giovani quello di cui hanno anzitutto bisogno: dei fondamenti solidi su cui costruire la loro vita.
Il filosofo Umberto Galimberti, in un libro che ha avuto