Una prova di democrazia in tempo di crisi
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«Innovazione, cultura ed educazione sono per me le tre parole chiave per affrontare il delicato momento presente» dalla Prefazione del Card. Angelo Scola
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Anteprima del libro
Una prova di democrazia in tempo di crisi - Fondazione Leone Moressa
2009.
Prefazione
L’uscita dal «male oscuro» della crisi economica domanda intraprendenza e nuova capacità progettuale. Sono queste le vie percorse nella ricerca che ha dato vita al presente volume curato dalla Fondazione Leone Moressa e dal Delegato del Patriarcato di Venezia all’azione sociale e cittadinanza, Mons. Fabiano Longoni. Nel volume viene presentata una significativa ricerca sui processi di democrazia deliberativa
, con particolare riferimento alla realtà di Venezia.
Questa pubblicazione presenta un duplice significativo carattere. Sono state coinvolte nello studio numerosissime associazioni di varia natura che operano nella realtà civile veneziana. In tal modo il volume già attua quel diverso modo di fare politica e politiche che propugna poi nel tentativo di illustrare la natura dei processi deliberativi.
Il secondo elemento di peculiarità è dato dal fatto che lo studio qui presentato si innesta su una tradizione di lavoro comune ormai consolidata che esprime una fitta trama di relazioni tra persone e corpi intermedi che non poco peso ha nella costruzione della vita buona della nostra società civile. In particolare debbo sottolineare la franca e rispettosa cooperazione di uffici e realtà del Patriarcato con numerose realtà civili. Nel rispetto delle diverse finalità questa collaborazione su temi decisivi per la vita sociale è un prezioso segno dei tempi che mi auguro possa essere imitato anche in altri ambiti.
Innovazione, cultura ed educazione sono per me le tre parole chiave per affrontare il delicato momento presente. Esse domandano una capacità di coinvolgimento e di decisione purtroppo ancora piuttosto rare anche nella nostra Venezia e nel nostro Veneto. Da dove trarre maggior energia per un appassionato lavoro comune? Benedetto XVI ha suggerito con forza una pista nell’Angelus della scorsa Domenica 3 gennaio: «La nostra speranza non fa conto su improbabili pronostici e nemmeno sulle previsioni economiche, pur importanti. La nostra speranza è in Dio, non nel senso di una generica religiosità, o di un fatalismo ammantato di fede. Noi confidiamo nel Dio che in Gesù Cristo ha rivelato in modo compiuto e definitivo la sua volontà di stare con l’uomo, di condividere la sua storia, per guidarci tutti al suo Regno di amore e di vita. E questa grande speranza anima e talvolta corregge le nostre speranze umane».
† Angelo card. Scola
Patriarca di Venezia
Venezia, 9 gennaio 2010
Introduzione
Questo volume è il frutto di un lavoro accorto e innovativo a cura della rete di associazioni proposta e costituita da oltre due anni dalla Pastorale sociale e del lavoro del Patriarcato di Venezia e dall’Istituto di ricerca della Fondazione Moressa che vi partecipa, che ha lo scopo di contribuire a mantenere, motivare e costruire il capitale sociale del territorio veneziano.
Benedetto XVI in un passo fondamentale dell’enciclica Caritas in Veritate definisce il capitale sociale come «l’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile» [CV n. 32]. Possiamo testimoniare che questa amicitia civilis
ha sostenuto e sostiene tuttora questo cammino di reciproco ascolto e conoscenza in vista di un impegno comune.
I principi che ci hanno guidati fanno parte delle comuni radici culturali nelle quali il nostro territorio si riconosce. I soggetti sociali protagonisti, associazioni imprenditoriali, sindacali e di categoria, pur provenendo da appartenenze con riferimenti intellettuali e storici differenti, si sono collocati nell’ambito di una ricerca complessiva comune: quella del bene-essere
del nostro territorio, composto da persone, famiglie e gruppi intermedi.
Le domande essenziali che ci siamo posti e che vorremmo allargare a tutti i lettori di questo studio sono le seguenti: È possibile in una società complessa come la nostra pensare di dialogare apertamente in vista del bene comune? È possibile uscire da recinti che possono oltre che sembrare angusti e alle volte protettivi anche isolare dalla realtà e dal suo svolgersi?
L’esperienza ci ha insegnato che questo è realizzabile solo se, nella libertà decisionale di ciascuno e nella pluralità e diversità degli interventi, il nostro apporto diventa una ricchezza per tutti i partecipanti a questo tavolo e di riflesso per le istituzioni che hanno il compito di presiedere, promuovere e tutelare lo sviluppo del bene di ognuno di noi che in questo territorio abbiamo deciso di vivere. Sviluppo che sarà più proficuo manifestando quella capacità e quel talento che sono propri della specificità di ciascuno. La libertà ci ha fatti muovere l’uno verso l’altro col desiderio di contribuire, di cum-promittere
, di impegnarci insieme per creare ricchezza sociale nella sua accezione più vera, cioè autentico sviluppo integrale per i nostri concittadini. Questa meta ci ha sorretti e conservati uniti in questo sforzo, e il metodo della democrazia deliberativa usato all’interno della ricerca ci ha aiutati e fatti crescere nello scambio reciproco.
Prima di aprire le pagine di questa pubblicazione desideriamo ricordare ancora una volta, innanzitutto a noi stessi, quei valori di base di cui abbiamo citato la profonda radice culturale presente fra noi.
Il primo fondamentale fra questi è la centralità della persona intesa come autrice, nucleo e fine dell’attività sociale.
Come tutelare questa singolarità assoluta della persona? Qui sta, forse, la nostra originalità. La nostra società è stretta tra Mercato e Stato e trova a fatica il posto fondamentale che le compete. Abbiamo perciò posto a fondamento la persona invitando, fra l’altro, a superare le categorie economiche anguste del mercato inteso come profit
o non profit
.
Ci ricorda, infatti, la Caritas in Veritate che «la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non è più in grado di dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro» [CV n. 46].
La nostra visione si colloca in quel solco dove il mercato economicistico è superato di fatto da un’ampia e multiforme realtà di imprese. Anche chi fra noi opera mirando al profitto ha riconosciuto la necessità di valutarlo sotto il profilo di strumento e non di fine assoluto a cui sacrificare ogni valore morale che sostiene la convivenza.
L’orizzonte verso il quale abbiamo teso i nostri sguardi e dal quale sono derivate le nostre valutazioni è l’umanizzazione del nostro territorio e del mercato. Certo che, essendo la nostra una trama composita, i soggetti più centrati sull’economia hanno dovuto svestirsi di una visione economicistica per orientarsi verso una valutazione del cosiddetto capitale umano
.
Esso infatti è presente all’interno delle aziende produttrici, tra i portatori di interesse che sostengono le loro imprese e anche nel consumatore inteso come protagonista di un consumo sobrio ed equilibrato da gestire con spirito di iniziativa e capacità di vera libertà nelle scelte quotidiane.
Un altro principio ha fatto poi da spinta promotrice dei nostri incontri, quello di sussidiarietà-partecipazione. Ci sembrava fin dall’inizio necessario mettere questo presupposto poiché il nostro non voleva essere un luogo di incontro per innalzare inutili geremiadi accusatorie verso questo o quel soggetto per le relative supposte inadempienze. Anche quando sembrava si trattasse di questo, il tono non è mai stato segnato dal lamento, ma dalla proposta costruttiva e soprattutto dal tentativo di capire in che modo noi, come singoli soggetti o come insieme, potevamo farci carico dei problemi che via via emergevano.
Ci ha sempre sostenuti la logica dell’assunzione di responsabilità per cui, lì dove i singoli soggetti possono contribuire al bene comune, lo devono fare per primi e in prima persona. Chiediamo solamente che questo principio venga riconosciuto e migliorato anche con l’aggiunta di eventuali risorse, lì dove fossero necessarie, per uno sviluppo solido e duraturo.
Senza quest’orizzonte il nostro lavoro non avrebbe potuto essere attuato: crediamo infatti fermamente che dobbiamo essere protagonisti responsabili del cambiamento.
Appare evidente che la crisi ha messo a nudo i limiti di un modello economico e sociale basato sull’assoluta deresponsabilizzazione sociale del singolo individuo, inteso sia come creatore di ricchezza sia come consumatore. L’homo economicus
che massimizza con scelte di razionalità economicistica il proprio profitto senza temere alcun giudizio, se non il raggiungimento o meno del suo tornaconto individuale, sembra non essere più sufficiente a chi vuole cambiare rotta e non vuole misconoscere e tradire il cambiamento epocale in positivo che questa crisi può generare.
Infine, la crisi ci ha messo davanti anche il limite intrinseco di una rappresentanza politica a tutti i livelli, spesso incapace di assumersi compiti e responsabilità che abbiano una visione a lungo raggio e a lungo termine. Noi vorremmo essere d’aiuto alle istituzioni perché crediamo negli uomini che le compongono, e nel loro ruolo fondamentale, rileggendolo però non più come «fattore unificante sovraordinato alla molteplicità di individui concepiti come atomi isolati, bensì come fattore al servizio sussidiario del libero gioco associativo di persone e comunità» [Scola].
Contribuire alla crescita di reti di partecipazione vissute con uno stile di sussidiarietà testimonia la centralità di una logica in cui la reciprocità supera e nello stesso tempo integra una nuova concezione di giustizia rispetto a quella sottostante allo Stato hobbesiano: questo è la nostra speranza e il nostro augurio. Come scriveva sempre il cardinale Scola commentando la sussidiarietà nella Caritas in Veritate: «Questa impostazione si traduce necessariamente in una profonda rilettura delle politiche sociali. Sono chiamate a sperimentare formule di partnership tra pubblico e privato in cui alla modalità regolativa di tipo gerarchico viene sostituita una regolazione reticolare capace di rispettare i differenti codici simbolici presenti nella società così come le diverse forme organizzative. In questa configurazione delle politiche sociali lo Stato e le pubbliche amministrazioni locali perdono il ruolo di gestori diretti dei servizi