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Il cuore di Sarah
Il cuore di Sarah
Il cuore di Sarah
E-book450 pagine7 ore

Il cuore di Sarah

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Info su questo ebook

«Distolse subito lo sguardo, non era ancora in grado di dare una risposta all’interrogativo che continuava a tormentargli il cervello: a chi apparteneva il cuore che batteva nel petto di Sarah Jones?»

Washington D. C., durante una pausa di lavoro Alex Kilar, giovane chirurgo in carriera, scopre accidentalmente un traffico di organi a livello internazionale. Richmond (Virginia), Robert Tremont, professore universitario di chirurgia toracica in pensione, viene trovato assassinato nella sua casa di campagna insieme alla governante. Per Peter O'Brien, tenente di polizia del distretto di Washington, inizia una delle indagini più complicate della sua carriera. Dai tabulati telefonici e da una serie di impronte rilevate in casa della vittima, Kilar risulta essere l'unico indiziato. Costretto a difendersi da un'accusa infamante Kilar fugge. Supportato dall'amicizia con la giovane paziente Sarah Jones e da una giornalista del Washington Post, tra mille peripezie, Kilar conduce la sua indagine che lo porterà a scoprire una verità sconvolgente. Un thriller di grande attualità dai risvolti inquietanti.

LinguaItaliano
Data di uscita24 ago 2012
ISBN9781476089140
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    Anteprima del libro

    Il cuore di Sarah - Maria Pia Trozzi

    Capitolo primo

    Alex Kilar chiuse lentamente la porta alle sue spalle. Lo scatto secco della serratura lo colse di sorpresa, facendolo sussultare. La mano corse istintivamente verso l’interruttore e subito si ritrasse. Si appoggiò allo stipite ansimando in rantoli serrati, le pupille dilatate scandagliarono il buio alla ricerca di un punto di riferimento, aspettò che i sensi cogliessero un movimento insolito, un frammento di respiro: non accadde nulla.

    Attese prima di muovere qualche passo incerto in direzione della lama di luce sottile che disegnava un minuscolo rettangolo ai piedi del tavolo del soggiorno. Le mani, protese in avanti come due sensori, gli davano la sensazione di poter tenere sotto controllo l’ambiente circostante.

    Gli occhi continuarono a spostarsi rapidamente da una parte all’altra della stanza mentre si avvicinava alla finestra che dava sulla strada. Guardò in entrambe le direzioni l’ampio viale alberato che divideva in due la zona residenziale nei pressi di Stanton Park senza scorgere anima viva, si udiva solo in sottofondo il motore di una macchina in lontananza. Rimase a fissare la casa con la luce accesa sotto il portico dall’altra parte della strada, per un attimo si illuse che niente fosse cambiato.

    Serve a tenere lontano i ladri. Henry Freeman, il dirimpettaio, aveva le sue opinioni in proposito, ma anche una serie di manie fuori dal comune. Accostò le tende e rimase in ascolto, dall’esterno non giungeva altro rumore se non il fruscio delle foglie degli alberi solleticate dalla lieve brezza notturna. Si avvicinò alla portafinestra che si affacciava sul giardino, l’aprì e ispezionò ogni angolo, soffermandosi nei punti in ombra vicino ai cespugli. Richiuse, fece scorrere i tendaggi e passò in rassegna le finestre al pianterreno, una dopo l’altra.

    L’interruttore della lampada in soggiorno era vicino al camino, lo cercò tentoni. La luce fioca disegnò i contorni degli oggetti proiettando ombre spettrali sulle pareti. Il cuore ebbe un sussulto, la mano destra corse istintivamente alla mensola; vi si appoggiò con forza e serrò le palpebre, poi si lasciò cadere esausto sulla poltrona.

    Verificò ogni dettaglio: nessun cassetto divelto, le sedie erano al loro posto e il tavolo accostato alla parete, così come la cassapanca vicino al camino, erano ricoperti da un sottile strato di polvere.

    Le adorate begonie di Karol, disposte ai lati delle finestre, e le felci, abbarbicate sulle mensole accanto ai suoi libri, erano irrimediabilmente appassite; solo il fusto del ficus resisteva indomito, come a voler sfidare l’arsura, mostrando con orgoglio qualche rara foglia scampata per miracolo.

    Allungò la mano e la tenne sospesa sopra una delle cornici d’argento sulla mensola prima di decidersi a prenderla. Lo sguardo rimase inchiodato all’immagine, sentì un nodo serrargli la gola. Le dita tremanti sfiorarono con estrema dolcezza i contorni del viso di Karol, poi quelli dei due ragazzi seduti al centro. Era una foto dell’anno precedente, li ritraeva felici e spensierati durante le vacanze estive. Si lasciò sfuggire un sospiro gutturale, lamentoso, come di animale ferito, strinse con forza i braccioli della poltrona, le nocche sbiancarono e la pelle si tese fino allo spasimo, rivelando una fitta rete di vene violacee. Avrebbe voluto piangere e urlare, invece si limitò a serrare le mascelle in una smorfia dolorosa. La casa era un guscio senza vita. Tornò a fissare la foto. La sensazione di aver perso la memoria della loro immagine gli arrivava nei momenti più impensati; ne soffriva, anche se sapeva che era solo uno scherzo crudele prodotto dalla mente. I ricordi presero forma, dapprima come immagini sfuocate, poi sempre più nitidi, sommergendolo come una marea. Chiuse gli occhi e si lasciò andare contro la spalliera della poltrona, lasciando che lo avvolgessero come un manto pietoso.

    Nel mese di luglio le coste della Florida brulicavano di turisti; la brezza marina attutiva la sensazione di afa, la superficie dell’oceano appena increspata era un richiamo irresistibile.

    Avevano preso in affitto una piccola costruzione intonacata di bianco. Sorgeva isolata a nord della baia, incastonata come un diamante tra le rocce e la vegetazione.

    — Venite a vedere cosa ho trovato! — La voce di Karol sovrastava lo sciabordio della risacca, si rifletteva sugli scogli e risuonava limpida e amplificata, come se arrivasse dal punto più alto della scogliera.

    — Chi arriva primo ha doppia razione di gelato.

    — Non vale, hai due metri di vantaggio.

    Le voci si rincorrevano e si disperdevano nei meandri delle grotte disseminate lungo la baia.

    — E io? — Pam si fece sentire con tutto il fiato che aveva in corpo.

    — Le femmine non possono gareggiare con i maschi.

    — Non dirle così, le farai venire i complessi.

    Alex tornò indietro con due falcate e recuperò Pam al volo insieme al salvagente. Karol sventolò sotto i loro occhi una minuscola stella marina.

    — Possiamo tenerla?

    Si fecero avanti e sfiorarono la superficie ruvida con le mani gocciolanti.

    — Nemmeno per sogno, lei se ne torna sul fondo del mare.

    — Perché? — Pam aveva le lacrime agli occhi.

    — Se la portiamo sulla spiaggia muore, ha bisogno di stare dov’è per sopravvivere.

    L’abitudine di svegliarsi alle sette di mattina non lo abbandonava neanche durante le vacanze. Era una faccenda che lo faceva infuriare. Cercava inutilmente di riprendere sonno continuando a rigirarsi nel letto. Karol, distesa su un fianco, dormiva, ignara del suo sguardo concupiscente. Osservava con voluttà la curva dei fianchi disegnata sotto il lenzuolo, il seno coperto per metà e i capezzoli rosei che spuntavano come germogli tra le pieghe del tessuto leggero. Il primo impulso era quello di svegliarla. Poi ci ripensava. Conosceva già il ritornello: — Alex ti prego, non adesso, non riesco a connettere.

    Fingeva sempre di non aver sentito e continuava a far scorrere le mani sulla pelle levigata, lei correva a rintanarsi dall’altra parte del letto. — Non ho ancora lavato i denti. Devo correre in bagno, ho la bocca tutta impastata. — Erano le frasi tipiche con cui tentava di difendersi dagli assalti mattutini. Alla fine, i desideri erotici finivano per dissolversi sotto la doccia.

    — Non eri tu quella che diceva sempre che le vacanze risvegliano i sensi?

    — Ho detto questo?

    — Devo rinfrescarti la memoria?

    — Sono cose che si dicono senza pensarci.

    — Me ne ricorderò al momento opportuno. A proposito, hai visto ieri quella biondona in topless?

    — Era impossibile non vederla. I bambini, però…!

    — Oh, i bambini! Ma andiamo, ci sono immagini dappertutto di donne con i seni all’aria, si abituano facilmente i bambini, poi non ci fanno più caso.

    — Appunto. Lasciamo perdere. Che dicevi a proposito della biondona?

    — Niente. Ogni tanto mi lancia uno sguardo…

    — Anche il bagnino.

    — Il bagnino cosa?

    — Mi guarda.

    Facevano l’amore durante la siesta pomeridiana. Il rischio c’era. I bambini avrebbero potuto svegliarsi e piombare in camera, ma questo rendeva tutto più eccitante.

    — Daniel lo scorso anno ha preso un luccio di due chili.

    — Balle.

    — Ha giurato.

    — Il luccio è un pesce d’acqua dolce.

    Se ne stavano seduti sugli scogli con i piedi immersi nell’acqua tiepida e le canne da pesca perfettamente allineate.

    Nicholas aveva mostrato fin dai primi anni di vita la passione per la pesca: tale padre, tale figlio. Era Alex a svegliarlo appena spuntava il giorno, lottando per tenere a bada i sensi di colpa, bisbigliava per non disturbare il sonno di Pam. Nicholas trovava mille pretesti per non lasciare il letto.

    — Non possiamo andare più tardi? — La testa andava a rifugiarsi sotto al cuscino fino a quando, vinto dalle lusinghe del padre, sgusciava lentamente fuori e si metteva a sedere stropicciandosi gli occhi assonnati.

    — Mi lascerai usare la tua canna da pesca?

    Alex prometteva sotto giuramento.

    Non appena il sole si alzava e inondava il mare di luce tornavano a casa. Le ceste vuote e il cuore appagato.

    Ebbe la sensazione di sentire le loro voci, quasi che da un momento all’altro potessero sbucare in cima alle scale e poi scendere a precipizio per gettarsi tra le sue braccia.

    Sentì le lacrime salire prepotentemente e scivolare tra le ciglia dischiuse. Le lasciò scorrere senza ritegno. Quando si sentì svuotato di ogni energia rimase inerte, con la testa reclinata da un lato e gli occhi chiusi.

    Finalmente uscì dal torpore, si avviò verso le scale con passo malfermo, la stanchezza accumulata da troppe notti insonni si faceva sentire a ogni passo, si aggrappò saldamente alla ringhiera e prese a salire piano.

    La polvere gli si era appiccicata su tutto il corpo fin dentro le narici, sentiva il bisogno di infilarsi sotto la doccia. Evitò di accendere la luce, un gradino, un altro ancora, ne contò sette, a quel punto il pianerottolo, poi la scala girava, altri sette. Conosceva la sua casa, avrebbe potuto percorrerla a occhi chiusi da cima a fondo.

    La collinetta era situata dietro la casa dei Freeman, un centinaio di metri in linea d’aria; sulla sommità c’era uno spiazzo e al centro un salice rigoglioso circondato da cespugli di biancospino. Il posto di Karol. Ci andava spesso quando aveva voglia di stare da sola. Glielo aveva mostrato una mattina durante una breve escursione.

    — Mi piace, ci vengo ogni volta che mi sento oppressa dai brutti pensieri. Adoro poter guardare la nostra casa da quassù.

    Era notte fonda, dopo una breve perlustrazione aveva deciso che il posto andava bene e consentiva un’ampia visuale.

    Era un binocolo vecchio modello, lo aveva comprato in una bancarella lungo la strada. Regolò la messa a fuoco e strisciò dalla parte opposta dello spiazzo. I lampioni creavano un gioco di luci e ombre che rendeva tutto confuso. Avvistò la casa dei Freeman e poi risalì fino al giardino in ombra.

    Si spostò di lato e ispezionò ogni anfratto nelle vicinanze. Poi la vide: una berlina nera. Sporgeva solo il muso, riuscì a mettere a fuoco la targa: Philadelphia 62835. Aspettò che facesse giorno concedendosi solo brevi intervalli per riposare. Alle prime luci dell’alba sonnecchiava, rannicchiato in posizione fetale e mezzo assiderato. Recuperò tentoni il binocolo e regolò di nuovo la messa a fuoco. Stranamente non si erano mossi, la berlina scura era nella medesima posizione, uno dei due era sveglio e teneva il binocolo puntato in direzione della sua casa, l’altro sonnecchiava con la testa reclinata.

    Un paio di minuti dopo si mossero, riusciva a distinguerli a malapena tra la vegetazione fitta. Professionisti, senza dubbio.

    Si concesse una pausa, recuperò uno dei sandwich dal fondo dello zaino, lo addentò senza convinzione: aveva un sapore stantio.

    Rimase disteso sull’erba, gli occhi chiusi e il respiro regolare davano l’idea che dormisse. I primi raggi del sole filtrarono fra i cespugli, si sollevò di scatto e guardò l’orologio: le sette.

    Si erano spostati. Fu il primo pensiero che gli attraversò la mente. Continuò a perlustrare i dintorni, la luce del sole faceva male agli occhi, il riverbero rendeva tutto confuso. Faceva fatica a crederci. Si era convinto solo più tardi, azzardando una breve escursione su entrambi i lati della collina. Non c’era traccia della berlina nera. Sentiva le membra intorpidite, gli dolevano gli occhi e aveva una gran voglia di dormire. Il giorno passò con una lentezza esasperante.

    Mancava un quarto alla mezzanotte, ancora cinque minuti e avrebbe tentato una sortita. Magari fino alla casa dei Freeman, poi sarebbe tornato indietro.

    Si spostò a zig zag tra i cespugli e uscì allo scoperto solo per un breve tratto, camminando curvo in avanti. Arrivato nelle vicinanze della prima di una serie di villette a schiera con il tetto spiovente, si fermò per riprendere fiato. Sporgendosi poteva intravedere la recinzione del giardino della sua casa. Il sudore gli colava in rivoletti lungo la schiena, rovistò nello zaino e tirò fuori una bottiglia di acqua minerale, bevve lunghe sorsate, recuperò il binocolo e perlustrò per intero il giardino.

    Attese un paio di minuti prima di scattare in avanti e scendere correndo a perdifiato lungo il pendio scosceso. A un passo dal margine si fermò al riparo di un tronco, spiò i dintorni, poi la strada. Infine si convinse a uscire allo scoperto, con un balzo raggiunse la siepe che correva lungo l’argine.

    Venti metri più avanti s’intravedevano i due pilastri di cemento del cancello. La siepe e poi la strada. E poi finalmente la sua casa. Questo pensiero gli diede la forza di scavalcare la siepe e procedere carponi fino al cancello. Rimase acquattato a ridosso del pilastro di cemento fino a quando non ebbe la certezza che non ci fosse anima viva nei paraggi, poi, con un ultimo sforzo disperato, si alzò in piedi di scatto, superò il cancello e scavalcò la recinzione.

    Raggiunse il bagno saltando di proposito la stanza dei ragazzi. Si accostò alla finestra e tornò a spiare il buio. La luce dei lampioni illuminava l’asfalto a intervalli di dieci metri, la strada appariva deserta. Accostò le tende e accese la luce. Finalmente fu sotto la doccia, assaporando la sensazione di piacere dell’acqua sulla pelle. La lasciò scorrere a lungo.

    Lo specchio rifletteva un’immagine che stentava a riconoscere. Gli occhi. Quel roteare fulmineo delle pupille come schegge impazzite, quell’espressione guardinga di chi è abituato a convivere con la paura. Si toccò i capelli inariditi dal vento. Anche quella mattina lo aveva fatto, dopo che la sveglia lo aveva strappato da un sonno agitato. Aveva sognato.

    Nel sogno era con Nicholas, il luogo era tetro, una foresta di alberi contorti dove la vegetazione fitta e intricata non lasciava spazio alla luce. Procedevano su di un sentiero tortuoso e d’un tratto la faccia di Nicholas si era trasformata in una maschera di terrore. Arretrava, fissando con occhi sbarrati un punto lontano nella boscaglia.

    Aveva guardato nella stessa direzione ma era riuscito a scorgere solo alberi e cespugli intricati che ostruivano completamente il sentiero. Mentre continuava a guardare in lontananza, Nicholas aveva fatto dietro front, iniziando una folle corsa attraverso gli alberi. Lo aveva seguito incespicando tra i rovi, le gambe si rifiutavano di sostenerlo, come se una mano invisibile cercasse di trattenerlo, non riusciva a raggiungerlo, suo figlio si allontanava sempre più.

    Aveva urlato il suo nome con tutto il fiato ma dalla gola inaridita non era uscito alcun suono. Il sogno gli era rimasto a lungo impresso nella mente, come una sorta di presagio oscuro.

    Karol dormiva rannicchiata sotto il lenzuolo, aveva raggiunto il tasto della radiosveglia scavalcandola senza sfiorarla.

    Dopo la doccia si era vestito in fretta ed era sceso in cucina. Karol era girata verso il ripiano e sbatteva energicamente le uova con la forchetta; la pancetta sfrigolava nella padella sul fuoco. Si era voltata sentendo i suoi passi: aveva ancora l’aria assonnata. L’azzurro della vestaglia creava un piacevole contrasto con i lunghi capelli neri che le ricadevano morbidi sulle spalle.

    — Fai colazione?

    Lo sguardo gli era caduto sull’orologio appeso alla parete. Era tremendamente in ritardo. Avrebbe fatto colazione al bar dell’ospedale. Una fetta biscottata afferrata al volo dal vassoio, un bacio veloce sulla guancia di Karol e aveva infilato velocemente la porta. Mentre attraversava di corsa l’atrio inondato di sole si era girato, aveva fatto dietro front, solo il tempo per dire: — Ricordami di raccontarti il sogno di questa notte.

    Non lo aveva più fatto, il sogno sarebbe rimasto a lungo sepolto nei recessi più remoti della sua mente.

    Si avvicinò all’armadio, fece scorrere l’anta e aprì uno dei cassetti. Prese alcuni capi di biancheria e li gettò alla rinfusa nella sacca. Alex le tue camicie sono a destra dell’armadio, giù in fondo. Non capisco perché vai a cercarle sempre nel mio scomparto.

    Lo sguardo gli cadde sulla foto di gruppo scattata davanti alla chiesa il giorno del suo matrimonio. Un sorriso appena accennato gli increspò le labbra arse dal vento.

    Il cappello di zia Bessie, con quel buffo ornamento di fragole, aveva attirato l’attenzione del fotografo. Alex ricordava quanto ne avessero riso durante il viaggio di nozze. Era durato soltanto sei giorni. Passeggiavano mano nella mano sugli Champs Elysées, il sole splendeva alto nel cielo sgombro di nubi.

    Karol si era fermata all’improvviso e aveva esordito candidamente: — Tesoro che ne diresti di tornarcene a casa?

    Alex si era allontanato di qualche passo e l’aveva fissata per accertarsi che stesse bene.

    — Karol, ma si tratta della nostra luna di miele!

    — Non mi fraintendere, non è che non mi piaccia stare qui a Parigi, è che abbiamo lasciato tante cose in sospeso, prima che il lavoro ci sommerga ancora vorrei finire di sistemare la casa.

    La casa, sempre la casa, la sua era una vera e propria mania. Si incantava davanti alle vetrine che esponevano mobili di antiquariato e non c’era verso di smuoverla. Entrava con il pretesto di chiedere il prezzo di un oggetto esposto, poi usciva trionfante con una lampada a stelo o un soprammobile.

    Quella sera avevano cenato da Maxim’s al lume di candela. Ostriche e champagne. La mattina dopo, alle nove in punto, erano sull’aereo diretti verso casa.

    Non erano più andati in vacanza da soli: un anno dopo era arrivato Nicholas, tre anni dopo era nata Pamela.

    La foto di Karol ammiccava dal ripiano del comodino. Era distesa sul prato, la testa appoggiata sul palmo della mano, gli occhi leggermente socchiusi. Sembrava lontana, persa nel tempo.

    Era stata scattata l’anno prima del loro matrimonio; dietro di lei, in lontananza, si distingueva la sagoma degli edifici che ospitavano la facoltà di giurisprudenza.

    Un incontro casuale, in un pomeriggio piovoso, nel parcheggio del supermercato. Lei era bagnata dalla testa ai piedi, la maglietta completamente inzuppata le aderiva al corpo come una seconda pelle. Era alle prese con la serratura della sua auto, un vecchio Maggiolino di cui andava fiera.

    Si era avvicinato e aveva dato un’occhiata alla chiave incastrata nella serratura. Le manovre di lei erano goffe: le mani bagnate non consentivano una presa decisa e ogni tentativo non faceva che peggiorare la situazione.

    — Lasci che le dia una mano.

    Sollevata per l’aiuto inaspettato, si era fatta da parte e aveva seguito attentamente i movimenti rapidi delle mani che armeggiavano con la serratura. Alex aveva una certa dimestichezza con le auto. Quando si era voltato con le chiavi in mano, lei aveva sollevato lo sguardo e aveva sorriso, mettendo in mostra una fila di denti perfettamente allineati.

    Deliziosa era stato il suo primo pensiero, mentre lo sguardo indugiava sui tratti regolari del viso, per poi perdersi nel profondo di due occhi color smeraldo. I lunghi capelli neri, fradici di pioggia, le ricadevano in ciocche scomposte fin sulle spalle. In un primo momento aveva pensato a un problema delle corde vocali, visto il modo in cui continuava a fissarlo senza dire una parola.

    Dopo il primo istante di smarrimento era riuscita a mormorare un grazie sottovoce, come se avesse avuto timore di dissolvere l’incanto. Aveva subito distolto lo sguardo e mimato un fischio di ammirazione volgendo la testa dall’altra parte. Fu il primo di una serie di incontri più o meno casuali.

    Karol viveva una storia sentimentale con un compagno di corso, una storia con molti problemi. La relazione di Alex con un’infermiera del reparto di pediatria, era naufragata dopo un litigio cruento.

    Una sera sul tardi lei era entrata nel bar affollato che frequentavano abitualmente con addosso un paio di jeans sbiaditi e ai piedi le vecchie scarpe da ginnastica che usava per fare jogging, la t-shirt di due taglie più grandi, gli occhi gonfi e la faccia stravolta. Alex l’aveva osservata attentamente mentre prendeva posto sullo sgabello di fianco al suo. Era scoppiata a piangere all’improvviso, incurante degli sguardi dei presenti.

    — Ho rotto con Bob, — aveva mormorato fra un singhiozzo e l’altro.

    L’aveva trascinata di peso fuori dal locale e si erano incamminati per le strade del centro tenendosi per mano.

    — Stronzo.

    — Chi, io?

    — Ma figurati, intendevo il bastardo ipocrita. Non so da quanto tempo andasse avanti la tresca, è stato per puro caso che me ne sono accorta.

    Aveva parlato per più di un’ora. Alex aveva raccolto in silenzio la testimonianza di quel che restava di un amore in agonia. Alla fine aveva insistito per offrirle una pizza e un gelato.

    Karol completò gli studi di giurisprudenza con il massimo dei voti. Il prestigioso studio legale Ryner & Cabot accolse la sua domanda per un periodo di praticantato. Alex, dopo la specializzazione in cardiochirurgia, venne assunto a pieno titolo presso il Memorial Hospital di Washington D.C.

    — Passami il plaid, è dietro la sdraio.

    Il giorno di riposo settimanale prevedeva un’intera giornata di ozio all’aria aperta.

    Karol dispose a terra la tovaglia a scacchi rossi e bianchi e tirò fuori dal cesto i panini imbottiti e le bevande. Mangiarono accovacciati uno accanto all’altro, poi riposero gli avanzi nella cesta e scorrazzarono in lungo e in largo per la campagna; alla fine, vinti dalla stanchezza, si addormentarono all’ombra di un albero.

    Era pomeriggio inoltrato quando decisero di rientrare. Superarono un tratto di campagna e si immersero nella frescura di un viale alberato. Un vecchio cancello divelto attirò la loro attenzione. Alex fermò la macchina sul ciglio della strada e percorsero a piedi un viottolo sterrato fino al cancello. L’abitazione s’intravedeva a malapena in mezzo alla vegetazione incolta. Superarono il cancello e si addentrarono facendosi strada tra rovi intricati e alberi di sambuco. Imboccarono un sentiero piastrellato con minuscoli mattoni rossi, disposti in diagonale e ricoperti di muschio. Raggiunsero l’ingresso e si fermarono a guardare estasiati quello che restava della vecchia casa vittoriana.

    — Chissà se è in vendita! — La casa che avevano sempre sognato era lì davanti ai loro occhi.

    Alzando lo sguardo sulla finestra del secondo piano, Alex notò un cartello sbiadito dal tempo. Il numero di telefono era praticamente illeggibile. Scovarono una vecchia scala abbandonata sul retro della casa e la trasportarono fin sotto la finestra. Il legno era consunto, i tarli avevano fatto un lavoro di tutto rispetto. Alex cominciò l’arrampicata lentamente, saggiando la resistenza dei pioli, ogni tanto si voltava a guardare Karol che non stava più nella pelle. Alla fine riuscì a issarsi fino all’altezza del secondo piano senza incidenti.

    — Prendi una penna e scrivi in fretta il numero, la scala non reggerà ancora per molto.

    Trascorse un intero anno tra imbianchini e falegnami, il tempo libero era dedicato alla ristrutturazione della casa. I risparmi finirono prima del previsto, furono costretti a chiedere un mutuo ipotecario. La facciata e il tetto furono ultimati a tempo di record, poi fu la volta degli interni. Le stanze vennero invase dai bidoni di vernice, rotoli di carta da parati, scale e pennelli.

    Ci furono giorni in cui il lavoro li stremava a tal punto che andavano a dormire senza avere neanche la forza di mettersi sotto la doccia. Lavorarono sodo e il risultato li riempì di soddisfazione.

    La cassapanca stile Impero, dono della madre di Karol, venne sistemata sulla parete di fianco al camino. Una scrivania di ciliegio venne recapitata un pomeriggio da un furgone. Era il dono di Emil, il padre di Alex. Adorava quel mobile, gli ricordava la sua infanzia e le lunghe sere d’inverno nel Vermont.

    Si rivide seduto, in quel caldo pomeriggio di fine aprile, con la schiena appoggiata al tronco della grande quercia al centro del giardino. I raggi del sole al tramonto si infrangevano sulle ampie vetrate del soggiorno. L’aria era satura dell’odore di erba tagliata. Karol scendeva lungo il sentiero e poi andava a sedergli accanto.

    Capitolo secondo

    Sarah Jones era distesa sul lettino, gli occhi socchiusi dietro i grandi occhiali da sole. Respirava a fatica.

    Sul monitor accanto al letto apparivano in sequenza costante i diagrammi che registravano l’attività cardiaca. L’infermiera, una donna sulla trentina originaria del Canada, non staccava gli occhi dal monitor.

    Quella mattina Sarah aveva espresso il desiderio di uscire all’aria aperta. Il letto, provvisto di ruote, era stato subito spostato sul terrazzo insieme alle apparecchiature.

    La donna seduta al suo capezzale le accarezzava con tenerezza struggente la mano esile, di tanto in tanto voltava la testa per asciugarsi gli occhi.

    Fin dai primi giorni di vita la piccola era stata affidata alle sue cure. La malattia di Sarah era sopraggiunta all’improvviso e aveva completamente sconvolto la vita della povera donna che aveva fatto proprio il dolore dell’intera famiglia, precipitando in un incubo senza fine.

    Il calvario durava da più di un anno, dal giorno della consegna dei diplomi.

    Sarah era apparsa sul palco insieme ai compagni di corso, tra gli applausi dei presenti. Gerard, suo padre, e Nelly erano seduti in prima fila e seguivano con trepidazione la cerimonia. Ogni tanto una lacrima sgusciava fuori prepotente e Nelly si affrettava ad asciugarla, senza staccare lo sguardo dalla figura esile al centro del gruppo. Per l’occasione aveva indossato l’abito di seta blu e la collana di perle che le aveva regalato il signor Jones.

    Il preside aveva appena concluso il suo discorso, Gerard riprendeva la scena con la minuscola telecamera Sony. Sui volti degli studenti si leggeva tutta l’emozione del momento. Si muovevano a disagio, incespicando nelle lunghe toghe nere. Quando cominciarono a sfilare uno alla volta il brusio si fece più intenso: era arrivato il grande momento.

    Sarah attese di sentir pronunciare il suo nome, si staccò dal gruppo e si avviò lentamente.

    Tutto accadde nel giro di pochi secondi, come in una scena al rallentatore: lo scroscio degli applausi, la mano del preside che si tendeva verso la ragazza, Sarah che avanzava per prendere il diploma, si voltava per tornare indietro e improvvisamente si accasciava a terra, svenuta.

    Gerard con un balzo le fu subito accanto.

    L’ambulanza arrivò nel giro di pochi minuti, la folle corsa fino all’ospedale, poi il terribile verdetto: cardiomiopatia dilatativa. Gerard si affidò ai migliori specialisti, Sarah venne trasportata da un ospedale all’altro, fu una guerra contro il tempo, la diagnosi non lasciava speranze.

    — Oggi hai un aspetto decisamente migliore.

    Sarah accennò un debole sorriso.

    — Sei tanto cara, mia povera Nelly, ma non sai mentire. — La voce era poco più di un sussurro.

    La donna lasciò andare la mano e si allontanò in fretta con una scusa, Sarah non doveva vederla piangere.

    Il grande terrazzo adibito a giardino pensile occupava una vasta area dell’attico al ventesimo piano; il diciottesimo e il diciannovesimo erano riservati agli uffici amministrativi della Jones Enterprises. Piante ornamentali erano disposte tutt’intorno al perimetro esterno. Sul lato che guardava a occidente, Gerard Jones aveva fatto realizzare una piscina coperta. Pannelli grigliati ricoperti da rampicanti di glicine dividevano il terrazzo in scomparti; al centro erano disposti tavoli finemente intarsiati in marmo di Carrara e candide poltrone. Una pista di atterraggio per elicotteri era celata da una siepe alta tre metri.

    Il grattacielo era situato su Park Avenue. Dalla terrazza si godeva una visuale splendida di Central Park.

    Gerard superò la porta scorrevole al centro dell’ampia vetrata, aveva l’andatura disinvolta dell’uomo di successo. Le vicissitudini degli ultimi anni gli avevano disegnato minuscole rughe intorno agli occhi e agli angoli della bocca.

    Si avvicinò al letto e sfiorò la fronte di Sarah con un bacio. Si era fatto strada da solo nel mondo dell’imprenditoria incoraggiato dalla madre, da cui aveva ereditato oltre ai tratti somatici anche una forte determinazione.

    Nato e cresciuto nei sobborghi di Washington da una famiglia di operai, era rimasto orfano a quindici anni. Il fratello maggiore, Philiph, invaghito di una donna molto più vecchia di lui, era scappato di casa proprio nel momento in cui Gerard e la madre avevano maggior bisogno di sostegno.

    Non si era mai arreso davanti alle difficoltà della vita, a sedici anni si era rimboccato le maniche e aveva trovato lavoro presso un’officina. Il denaro che guadagnava serviva ad arrotondare il misero stipendio della madre, cassiera in un grande magazzino. Nonostante i disagi economici, lei era riuscita a convincerlo a iscriversi alle scuole serali. Studiava fino a notte inoltrata e al mattino faceva fatica ad alzarsi per andare al lavoro.

    — Gerard, il successo è per quelli che non si arrendono, devi guardare avanti, sempre, ricordalo. — Aveva continuato a sentire le sue parole anche quando se n’era andata stroncata da un infarto, lasciandolo solo. Prima di morire aveva fatto in tempo a iscriverlo al concorso per una borsa di studio. Gerard si presentò al concorso senza convinzione, lo fece solo per onorare la memoria e i sacrifici della madre. Superò l’esame con successo e si iscrisse alla facoltà di ingegneria presso la Howard University. L’assegno gli consentiva di proseguire gli studi, non era più costretto a lavorare presso l’officina. A soli venticinque anni conseguì la laurea in ingegneria aerea.

    Grazie ai risultati ottenuti venne contattato da una grossa multinazionale che progettava nuovi motori in grado di ridurre il tasso di inquinamento, mantenendo nello stesso tempo una resa di volo elevata; era sempre stato il suo sogno. Ma Gerard non si accontentava di essere un semplice dipendente, mirava molto più in alto. Era provvisto di un intuito straordinario e seguiva con estrema attenzione le varie fasi di assemblaggio dei motori.

    Seguiva le riunioni del Consiglio di Amministrazione e sedeva insieme ai soci al grande tavolo della sala assemblee, il presidente gli aveva assegnato il compito di riorganizzare i vari settori e di coordinare le trattative con le altre società con cui operavano e chiedeva spesso la sua opinione sui programmi all’ordine del giorno. Stava diventando insostituibile, abilissimo nelle trattative di mercato; a soli trentadue anni era pronto per spiccare il volo.

    Due anni dopo realizzava il suo progetto di avviare una piccola attività in proprio. Gli affari, anche se tra mille difficoltà, cominciarono a prosperare. Gerard vide l’azienda progredire sotto le sue direttive giorno dopo giorno.

    Non aveva mai pensato di farsi una famiglia. Divenne presto la preda ambita di molte donne ambiziose che facevano parte della cosiddetta società bene. Frequentava i circoli più esclusivi, le donne entravano e uscivano dalla sua vita con la stessa facilità con cui cambiava abito. La sua fama di scapolo d’oro lo precedeva insieme a quella della fortuna che aveva accumulato.

    Conobbe Anna Valli una sera a cena in casa di amici. Lei sedeva in disparte sul divano, aveva l’aria smarrita e si guardava intorno aspettando di vedere una faccia conosciuta. Gerard l’aveva notata subito, incantevole nell’abito nero lungo che lasciava scoperte le spalle e sottolineava la vita snella. Voleva conoscerla a ogni costo. Si mise alla ricerca del padrone di casa, lo vide in lontananza, circondato da una cerchia di ospiti mentre teneva una specie di conferenza sulla difficile arte della seduzione. Le donne, in particolare, sembravano molto interessate all’argomento.

    — Seth, mi devi un favore, — disse, lo prese a braccetto e lo trascinò di peso fuori dalla mischia. Si levò un coro di proteste, ma Gerard le ignorò. Era fermamente deciso a conoscere la ragazza.

    — Ho la memoria labile ma non credo di doverti niente.

    — Allora diciamo che mi serve il tuo aiuto.

    — Preferisco… — Seth seguì la direzione del suo sguardo, poi, senza fare commenti lo scortò al divano dove era seduta la bella sconosciuta.

    — Ti presento il mio migliore amico, Gerard Jones, ha espresso il desiderio di poterti conoscere. Gerard, questa splendida creatura è Anna Valli.

    Gerard avrebbe voluto fulminarlo, ma si limitò a rifilargli una gomitata nel fianco. Anna non poté fare a meno di sorridere, Gerard pensò che aveva una dentatura perfetta.

    — Prego, Gerard, si accomodi, mi scusi se non parlo bene la sua lingua. Sono italiana e devo fare ancora molta pratica…

    Il ghiaccio era rotto. Conversarono per tutta la sera e scoprirono di avere molte cose in comune. Gerard si offrì subito di farle da accompagnatore. Anna gli parlò dell’Italia e della sua famiglia: si trovava in America per un master di studi che si sarebbe concluso il mese successivo.

    Nei giorni che seguirono presero a frequentarsi assiduamente. Una sera, tornando da un concerto, Anna gli comunicò che sarebbe tornata in Italia.

    — Non voglio perderti.

    Forse stava precipitando gli eventi. Smise di fissare Anna e rivolse la sua attenzione al marciapiede. Non avrebbe potuto sopportare un rifiuto guardandola negli occhi. Era la donna della sua vita, se n’era reso conto nel momento stesso in cui l’aveva vista per la prima volta.

    — Non credo che riuscirai a liberarti tanto facilmente di me! — Anna si fece più vicina e depose un dolcissimo bacio sulle sue labbra.

    Il mese successivo lei fece ritorno in Italia per conseguire la laurea in biologia. Gerard la raggiungeva a Roma, dove viveva con la famiglia, ogni volta che gli impegni di lavoro glielo consentivano. Anna finì gli studi e sei mesi dopo lo raggiunse a New York. Si sposarono l’anno seguente. Si stabilirono nell’attico in Central Park.

    Tutto era splendido nella vita di Anna, tranne un piccolo dettaglio che non le consentiva di sentirsi pienamente realizzata. Tutti i sacrifici fatti per conseguire la laurea non erano serviti a niente se non avesse trovato la possibilità di mettere a frutto le sue competenze; il suo diploma sarebbe stato solo un pezzo di carta dimenticato in fondo a un cassetto. Decise di parlarne con Gerard quella sera a cena.

    — Non hai bisogno di cercarti un lavoro. Potresti pensarci tra qualche mese quando ti sarai ambientata. Avevi espresso il desiderio di imparare a giocare a tennis, ricordi? Conosco giusto un insegnante che potrebbe darti qualche lezione, — disse di slancio.

    Lei scosse la testa con decisione.

    — Tutto questo potrei farlo ugualmente durante il tempo libero.

    — Non ti resterebbe nemmeno un istante da dedicare a me.

    Gerard sembrava determinato ad averla vinta. Seguì una discussione piuttosto accesa. Alla fine, anche se di malavoglia, fu costretto a cedere.

    — Consentimi almeno di aiutarti, conosco molte persone che sarebbero ben disposte a darti una mano…

    Anna troncò il discorso senza mezzi termini.

    — Ti

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