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Fino al primo respiro
Fino al primo respiro
Fino al primo respiro
E-book329 pagine4 ore

Fino al primo respiro

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Info su questo ebook

Quando per la prima volta vennero alla luce i Vuoti – bambini vivi, ma senza alcuna traccia di respiro – l’evento seminò sgomento e una pioggia di domande a cui nessun esperto era riuscito a dare risposta. Successivamente erano comparsi i Freddi, il cui respiro, seppur presente, era però gelido e destinato – secondo il parere della comunità scientifica – a spegnersi progressivamente. I Caldi, una stretta minoranza che conservava la nomale funzione polmonare, nel breve volgere di pochi anni erano riusciti a trarre profitto dalla situazione, relegando Vuoti e Freddi ai margini della società e mettendoli gli uni contro gli altri, sotto la minaccia di una malattia contagiosa e degenerativa. In questo scenario la scoperta di una donna – Nemesi – in grado di donare di nuovo il respiro a Vuoti e Freddi desta subito l’attenzione di un’organizzazione segreta dedita a ristabilire la giustizia e intenzionata a reclutarla tra le sue fila; di contro questo suo speciale dono non passa inosservato neanche agli occhi di quei poteri oscuri che, nutritisi per anni dell’odio e della paura, scorgono in lei una minaccia alla propria sussistenza… Primo capitolo di una saga fantascientifica, Fino al primo respiro affronta con grande capacità narrativa un argomento di stringente attualità – la manipolazione delle masse attraverso la paura – intrecciando i fili di una trama che, attraverso una rete di riferimenti simbolici, tocca una serie di temi cari al genere, non ultimo quello amoroso, lasciando il lettore con il fiato sospeso fino all’ultima pagina.

Lucia Maraldi nasce nel 1993 a Forlì, ma studia Lettere a Bologna, dove si laurea nel 2019. Dopo una formazione in campo editoriale e scolastico, si dedica all’insegnamento mentre coltiva la sua passione di sempre: la scrittura. Fino al primo respiro è il suo romanzo d’esordio.
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2023
ISBN9788830676282
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    Anteprima del libro

    Fino al primo respiro - Lucia Maraldi

    Alpha 

    Capì di essere giunta ad una svolta: le era bastato credere nelle sue stesse parole per liberarsi dalle catene di Mimesis.

    Era bastato credere nelle parole di quell’ordinata fila di microcosmi che la fissavano dall’altra parte della stanza, era bastato trarre forza dai volumi che coprivano ormai quasi completamente lo schermo della televisione.

    Era bastato credere di essere libera, e sbattersi una porta di legno massello alle spalle.

    Quel nome che aveva sempre detestato non sarebbe potuto calzarle meglio: da quel momento, per lui, sarebbe stata Nemesi.

    I palazzi la abbracciavano togliendole il respiro; in quella limpida sera, l’altezza dei muri graffitati la soffocava, rubandole il cielo. Un refolo di gennaio – sì, doveva essere proprio gennaio – si sostituì al suo sangue: il vento le correva nelle vene, sospinto dalla potenza di quel muscolo che deteneva la chiave della sua passione, quel cuore inerziale che la definiva viva.

    Nemesi era tornata a respirare. Nel suo sospiro non c’era traccia di condensa, né di calore: eppure respirava, come se i polmoni non avessero mai smesso di farlo. Era un sistema completamente inerziale, il corpo della donna: sottile affinamento di un’incubatrice futura.

    Nemesi inalava il degrado della strada, avida di odori e sapori, ridisegnando i graffiti col polpastrello, in punta di tacco, giocosa. Fumò quella sigaretta come fosse la prima, osservando il fumo stagliarsi contro la fredda illuminazione pubblica, ficcanaso indiscreta. Non seppe mai come, se delirio onirico o effimera realtà, si ritrovò avvolta nella seta delle lenzuola, e sorrise.

    «Non ti permetto di chiudermi fuori, non posso lasciartelo fare».

    «Dio» si svegliò con un rantolo, accaldata e furiosa «non di nuovo Mimesis, non di nuovo».

    Poteva solo scorgere i suoi denti nel buio, e sentire il suo viso gelido adagiato nell’incavo del collo.

    «Non puoi fuggire».

    «E non lo sto facendo, questa è casa mia, sei tra le mie lenzuola».

    «Ma sanno di me».

    Colpita: credeva di potersi concedere almeno quel lusso. Si sedette, negandogli i suoi occhi nudi.

    «Prendile allora, non mi opporrò».

    Le immobilizzò le braccia lungo i fianchi e si fece vicino, con una lentezza propria della sua indole sapientemente calcolata per farle perdere ogni barlume di lucidità. Il contatto con la realtà si faceva più labile mentre percorrendo con le labbra l’incavo del collo la marchiava con ogni sillaba:

    «Non chiedo altro».

    Sarebbe stato incredibilmente facile arrendersi e farsi vivificare da quel tocco familiare, ma gelido: si irrigidì, sforzandosi di adeguare il battito alla risoluzione presa, senza tradire un singolo cedimento, mentre l’integrità strutturale di quel magnifico corpo cominciava dolcemente a vacillare.

    «Nemesi».

    Una parola, e la caduta delle fondamenta: Mimesis le sfiorò il polso, costringendola a voltarsi e vedendola così scostare i capelli dal viso, suo gesto tipico. Si chiese da quale agente chimico dipendesse quell’elettricità tra loro, doveva essere qualcosa nella pelle: nonostante il dolore annunciasse il pericolo, ogni tocco chiamava il successivo e le mani si rincorrevano avide di scoprire fin dove si sarebbero potute spingere. Nemesi lo osservò, quieta: avrebbe voluto scalare la parete inviolata di quella schiena, e conquistarne la vetta; avrebbe voluto costruire un piccolo cottage su quelle spalle e sedersi in veranda ad osservare il panorama.

    «E vorrei anche poterti cambiare la pelle».

    Non c’era alcuna domanda nello sguardo del giovane, alcuna confusione:

    «Lo senti ancora» affermò, certo. «Mi senti ancora».

    Qualcosa gli si agitò dentro: un mostro di egoismo e solitudine ruggiva trionfante entro il suo petto, aprendogli in due la gabbia toracica. Il respiro che emise era inaspettatamente caldo, subito rincorso da un sorriso stupito e dal corpo della donna. Nemesi lo circondò: il mento e la guancia sui morbidi capelli corvini, i palmi sulla schiena, le gambe incrociate sui reni. Mimesis pianse tra le sue braccia, scaldandole il seno con quel respiro ancora da collaudare e accelerando le note del cuore che esso celava. Con suo disappunto, Nemesi percepiva che il suo fiato, dapprima gelido, ora si era semplicemente dileguato; il sangue fluiva lento, dandole i brividi man mano che si faceva strada per i condotti periferici: le sarebbe piaciuto piangere, ma le lacrime ebbero timore di quello sguardo, e mentre Mimesis si avvicinava i loro destini parevano ineluttabilmente intrecciati.

    «Posso farlo accadere. Non ho idea di come tu ci sia riuscita, ma so di poter ricambiare. Posso scaldarti».

    Chiuse gli occhi: le perturbazioni che sarebbero dovute scaturire dall’incontro di quei sospiri si arresero di fronte alla presenza di sola condensa, calore salato che le stuzzicava le labbra, già dischiuse in un estremo tentativo di fuga:

    «No, non puoi».

    Le lacrime questa volta furono inevitabili, scesero copiose a bagnare i visi di entrambi, mentre si baciavano con tutto il trasporto di cui il ragazzo era capace: non l’avrebbe ascoltata, l’avrebbe salvata, a qualsiasi costo. La mano tra i lunghi ricci tremava nel tentativo di rapirla, mentre le labbra restavano inerti, rassegnate e insieme troppo fiaccate per ritrarsi.

    Forse avrebbe potuto vivere del suo calore riflesso.

    Forse avrebbe potuto respirare dalla sua bocca.

    Forse avrebbe semplicemente continuato a camminare, con il sangue ghiacciato.

    Forse.

    «Baciami, baciami, baciami».

    La voce di Mimesis si faceva sempre più un sussurro, la sua illusione era resa dal movimento delle labbra, imploranti le sue. Sentiva le catene tornare lentamente a circondarla, le giunture metalliche riprendere il posto che spettava loro, la pelle candida stridere di dolore: la stava intrappolando. Tutto quel dolore in circolo era l’ultima volontà di una condannata a morte.

    «Ti amo».

    Mimesis si bloccò: gli occhi improvvisamente vitrei, anche se inchiodati in lei. Sembrava non comprendere perché le lettere fossero disposte proprio in quell’ordine, puro significante di ciò che non aveva mai vissuto. Per Nemesi fu il secondo atto di una notte umida e senza applausi: il sipario pareva voler alimentare quell’agonia tardando la sua discesa. E fu in quel momento che vide il suo dramma dirompere, mentre urlava l’astio degli ultimi mesi fino ad infrangere la quarta parete, qualora ce ne fosse stata una: quel silenzio la soffocava e la rabbia accendeva nel suo sguardo la speranza di un cenno, non dico un applauso: sarebbe bastato un colpo di tosse.

    Era ancora più bella, con gli occhi infuocati inchiodati nei suoi, e Mimesis non poté discernere pensiero e voce finché non sentì una mano stampata con forza sul viso:

    «Ti desidero Nemesi, ti voglio».

    «Io ti dico che ti amo e tu che mi vuoi?» divenne improvvisamente calma, parlò così, con dolce fermezza, come ci si rivolge a un bambino restio a comprendere le parole dei grandi:

    «Credevo di essermi liberata di te. Mi sentivo nuova, respiravo. Certo, ero gelida, ma respiravo. E adesso, adesso il mio respiro si è precipitato a riscaldare il tuo, ma quando imparerò?».

    La voce cedette per un istante provvidenziale:

    «Dimmi solo cosa vuoi sentirti dire; dimmi cosa vuoi che faccia e io lo farò».

    «Vattene».

    «Nemesi, te ne prego, non…».

    «Oh, non devi affatto preoccuparti: non ti serve la mia presenza per restare caldo, basta il mio amore. E non ti ho mai amato più di oggi. Ma un giorno il tuo respiro tornerà glaciale, sarai nuovamente vuoto, e nemmeno io potrò più fare nulla».

    Fece un passo alle sue spalle, assordato dalla delicatezza della sua voce, e la lasciò indietro per un attimo: impossibile sopportarlo per la vita. Voltandosi di scatto la abbracciò, il petto premuto contro la schiena sinuosa, non l’avrebbe mai lasciata andare.

    Sulle note di quella minacciosa promessa mai pronunciata, Nemesi si arrese.

    ***

    Si svegliò incredibilmente pesante, come reduce da un incontro di pugilato: nel dormiveglia diede la colpa alla stanchezza, ma spalancò le ciglia quando sentì di non avere il controllo delle braccia, trattenute da qualcosa di pesante. Dunque non era stato un incubo.

    Mimesis le dormiva accanto, ma sarebbe più esatto dire sopra: il peso degli avambracci la inchiodava in una stretta divenuta improvvisamente soffocante.

    «Non sei mai stata così bella».

    «Come? Sfinita e nuda su un letto?».

    «Come dopo l’amore».

    Scosse la testa, era riuscito ancora una volta a travisare le sue parole: nella flebile luce del mattino, Mimesis aveva trasfigurato l’amore in nudità intrecciate su una bara di seta bianca.

    Le alitò dietro l’orecchio col fiato di entrambi:

    «È davvero incredibile che tu ci sia riuscita».

    D’un tratto la nudità la mise a disagio, come di fronte ad un estraneo: si liberò di lui e si avvolse nella vestaglia, fortuitamente abbandonata ai piedi del letto. A Mimesis la cosa non sfuggì: se c’era una cosa che Nemesi amava, questa era giacere nuda per ore su quel letto a parlare, senza alcun accenno di vergogna sulla pelle, mentre l’uomo adorava fingere di ascoltarla per scoprire in realtà ogni piega del ventre, ogni curva del seno e movimento del collo. E soprattutto contarle le vertebre con la punta dei polpastrelli, anzi, contarne i brividi.

    «Rivoglio la mia Nemesi» disse alzatosi, con gli occhi a terra, stringendole la piccola manina diafana e attirandola verso il torace perfettamente scolpito. Gli appoggiò entrambi i palmi sul petto, e il capo tra essi: Mimesis la inghiottiva completamente in quel calore, facendole perdere lucidità.

    «Ma da quanto non sono più tua?».

    Il ragazzo si trovò a drenare una lacrima con la pressione della sua pelle, nel tentativo di capire se lei si trovasse o meno lì:

    «Non ti ho immaginata, le mie fantasie non hanno mai sperato tanto per me, sei assolutamente reale, devi esserlo».

    Tremava, ricordo degli psicofarmaci che gli avevano rubato l’anima, anni prima di lei, turbato dall’idea di essere ancora tra le mura a scacchi di quell’ospedale, di essere solo.

    «Respira. Esisto, so che è quello che direbbe un’allucinazione, ma sono reale». Lasciò scivolare la vestaglia. «Toccami, convincitene».

    La allontanò da sé per poterla osservare meglio: timidamente percorse con il dorso della mano le dita, la linea dell’avambraccio, la spalla, il collo, dolcemente inclinato ed esposto, per poi accordare la schiena, e sentire i suoi deboli gemiti. Le posò un dito sulle labbra e, solleticandole il viso con il tocco della barba, la baciò così teneramente da illuderla che fosse possibile anche per lei, da ridarle speranza.

    Così lo ridisse:

    «Ti amo».

    E ancora una volta ricevette in cambio un amplesso.

    ***

    Talvolta Mimesis tornava ad osservare dall’esterno la sua terribile casa degli ultimi due anni: il dolore che si era inferto, complici i farmaci scioccamente assunti, gli impediva di ricordare se ce ne fosse mai stata un’altra.

    Invochiamo l’infermità mentale, credimi, è la cosa migliore.

    Avrebbe preferito di gran lunga la galera, anche la morte; invece quel legale d’ufficio aveva finito per condannarlo all’alienazione, all’oblio. Li chiamavano ospedali psichiatrici credendoli case di cura, di riabilitazione, ma vi si eseguivano piuttosto esperimenti sugli animali, portando anche il più savio degli uomini sull’orlo della bestialità. Aveva immaginato terapie di gruppo, era preparato a cliché su come l’assenza di una figura paterna lo avesse portato a compiere gesti estremi per richiamare l’attenzione; avrebbe sopportato i piromani, i depressi, gli autolesionisti. Tutto, meno lo Xanax. E il Valium, con una spolverata di Prozac. Tutto un alfabeto di pillole in un bicchierino di plastica da svuotare, pena qualche scossa elettrica, che non fa mai male. Distruggersi i neuroni, giorno dopo giorno, e non sentire le urla dentro sé, il sapore delle lacrime, il tocco della pelle di una donna.

    Nemesi. E se non avesse più potuto percepirla? Portò una sigaretta alle labbra per accertarsi di non perdere il contatto con la realtà, ma non funzionò come avrebbe voluto; prese tra le mani il ciondolo che la sera aveva portato via da quel corpo esausto e disperato, stringendolo come per farlo entrare in circolo, e non potersene separare. Doveva esserci qualcosa di reale, e poteva essere solo Nemesi, l’unica certezza, l’unica in grado di farlo respirare, Caldo. Per la prima volta si rese conto di poter sentire la puzza del luogo che aveva distrutto la sua vita: sapeva della vernice dei graffiti, di alcol scadente e disperazione, come il resto della città. Anche se tutto quello che riusciva a sentire lo disgustava, si ritrovò a sorridere tra sé, grato di quella possibilità che gli era sempre stata negata. Mimesis era nato Vuoto, senza una singola traccia di respiro, insieme a tanti bambini della sua generazione, provocando sgomento e scompiglio nelle menti scientifiche di ormai trent’anni prima: proprio in quel periodo la questione era diventata di pubblico dominio, producendo più domande che risposte, nonostante gli innumerevoli esami condotti su questa nuova stirpe di bambini. Nessuno era stato in grado di additare una causa precisa, nonostante la miriade di presunti colpevoli: prima tra tutti era stata l’eccessiva concentrazione di monossido di carbonio nell’aria, ritenuta responsabile di aver accelerato il processo di evoluzione, liberando l’umanità da una sostanza sempre più nociva. Eppure nessuno aveva mai visto i Vuoti come un miglioramento, un avanzamento della razza, ma come tutte le novità erano considerati pericolosi, inevitabilmente guardati con sospetto e isolati. Poco dopo erano comparsi i Freddi, un gradino più basso in questa scala evolutiva e dunque notevolmente meno temibili, anch’essi insoddisfatti e reietti, ma in misura decisamente minore: il sangue che si faceva largo nelle loro vene, denso al punto da sembrare compatto, era gelido, così come l’unico respiro che erano in grado di emettere. Si diceva che rappresentassero un debole tentativo della genetica di restaurare il perduto respiro, tentativo da considerarsi fallimentare, pallida approssimazione di un passato ormai remoto. Col passare del tempo la società era andata stratificandosi di pari passo alle abilità respiratorie, e i ruoli di comando, le possibilità migliori, erano misteriosamente stati riservati ai Caldi, mentre ai Vuoti, come sempre, era toccata la pagliuzza più corta e in troppi erano finiti come Mimesis, in strada, parte di quel tanfo che ora gli riempiva i polmoni. Il dono che aveva ricevuto era senza precedenti e, in qualche modo, avrebbe trovato il modo di ripagarla.

    Si svegliò senza di lui, senza tracce di una qualche presenza, se non in cicatrici brucianti. La capacità di vivere in armonia con i propri errori: sapeva che era questo a mancarle, insieme all’autoconservazione. Stava dissipandosi lentamente come muta abbandonata alle proprie spalle: pesante e inutile. Rimase raggomitolata ai piedi della doccia, l’acqua che le incollava le folte ciglia, i pesanti capelli corvini sulle spalle, baciando le ginocchia come per convincerle a sostenerla.

    «Calore».

    Ogni lettera con un suo peso specifico, una sua densità: la durezza iniziale, l’apertura all’infinito, la gravità dopo un breve schiocco di lingua, l’arricciarsi per poi morire su due labbra parallele. Nemesi aveva sempre creduto che l’articolazione delle parole fosse il preludio all’atto sessuale: un precario quanto naturale gioco di incastri transeunte.

    Fu allora, cercando istintivamente con le labbra la catenina d’argento che era solita stringere tra gli incisivi, che notò il volatilizzarsi del fiocco di neve che portava al collo, come si fosse sciolto. Impossibile, data la natura gelida del suo sangue, mugugnò tra sé, ma questo non ne spiegava la mancanza, che divenne improvvisamente pesante. Non si curò delle gocce che la solcavano e imbrattavano l’appartamento e cominciò a cercare, senza tracce né apparenti ragioni: consapevole del fatto che i suoi occhi miopi non le sarebbero stati molto utili si affidò al tatto, quasi invasata, disperata per tutt’altro.

    Aveva sentito un numero imprecisato di folli domande e lamentele riguardo a questa strana questione del respiro, e a suo parere lasciavano il tempo che trovavano. Probabilmente perché Nemesi in questo stato ci era nata, Fredda e diafana, con un respiro da sempre sottile e rarefatto che mal si conciliava con il vigoroso cuore. Ricordava però di quando le raccontavano che il mondo non era sempre stato così, che il fiato era caldo e umido, e che non si poteva vivere senza ossigeno; per questo persisteva anche in coloro che ormai non respiravano più il riflesso del moto della gabbia toracica. Perché così sarebbe dovuto essere: erano come cani affamati, in una crisi di astinenza tanto più difficile da sopportare dal momento che l’intangibile droga era ovunque, così fruibile ma al contempo ineffabile.

    La domanda che aleggiava nell’aria – mai questa frase fu più appropriata, si disse – era perfettamente sensata e inutile, come spesso accade: cosa ha decretato la separazione dei sistemi circolatorio e respiratorio, perché i polmoni sono improvvisamente diventati obsoleti e come è possibile che persone come Nemesi sopravvivano?

    «Sono viva».

    Si disse guardandosi allo specchio, e sapeva che non importava affatto come né perché, contava solo il suo voler tornare a respirare, ed essere finalmente Calda.

    Uscì e come ogni giorno si sedette al bancone del bar ai piedi del suo palazzo, chiedendo una spremuta di pompelmo e un caffè, che ormai non meravigliavano più Cornelia, la mora barista che cercava quotidianamente di strapparle più di due parole.

    «Eccoti il solito» le disse sorridendo, e non contenta incalzò: «come va la giornata?».

    «Fredda: come sempre».

    Cornelia era Calda e meravigliosa, con un colorito acceso sulle gote che Nemesi invidiava più del bell’aspetto e dell’ostentata felicità:

    «Ma non direi, c’è un sole tiepido fuori».

    «Non mi riferivo affatto al tempo» rispose penetrandola con quei due buchi neri che recava sul viso, un’immensa forza gravitazionale in grado di schiacciare chiunque si fosse avvicinato troppo: armi di una bellezza terrificante. La ragazza indietreggiò istintivamente e si disse che con una così forse era meglio lasciar perdere; Nemesi dal canto suo bevve velocemente i due liquidi, abbandonò qualche moneta di fronte a sé e si incamminò, il cappotto nero che danzava con lei.

    Percorrendo la consueta strada fino all’ufficio fu pervasa da una strana sensazione, come se qualcosa alle sue spalle fendesse rapidamente l’aria, ma tentò di non farvi caso, concentrandosi sul rumore prodotto dai tacchi sull’asfalto consunto: funzionò bene, fino a che una mano afferrò la sua alle spalle. Si voltò, e il viso che aveva di fronte recava il sudore di una corsa disperata, ma neppure l’ombra di un respiro affannoso.

    Beta

    Scissa tra istinto, che le tendeva i muscoli delle gambe, e curiosità, Nemesi allontanò il busto dall’uomo che aveva di fronte e sfoderò uno dei suoi sguardi più accusatori:

    «Cosa vuoi da me?».

    «Giustizia. A chi chiederla se non a te, Nemesi?».

    Nemmeno lo sconosciuto respirava, ora poteva dirlo con certezza, ma restava il dubbio su chi fosse: «Mi conosci?».

    «Non ufficialmente, ma ti abbiamo cercata molto a lungo. Credevamo di averti identificata, ma l’uomo che mi sono trovato di fronte era solo un’Imitazione».

    «Mimesis? Cosa volete da noi?».

    «Non c’è alcun noi: abbiamo bisogno solamente di te, e, anche se non lo sai ancora, è reciproco».

    Era una frase detta senza alcuna presunzione, semplicemente sicura, come se in un mondo in cui persino le leggi che regolavano la vita umana stavano lentamente sgretolandosi potesse esserci qualcosa in cui credere.

    «Mi devi seguire adesso» disse accompagnando le parole con una carezza leggera del pollice sul dorso della mano e provocando una frattura nella natura diffidente della donna, che lentamente si mosse.

    «Devi almeno dirmi chi sei».

    «Mi chiamo Kedemòn, sono qui per proteggerti, lo hanno deciso prima ancora delle nostre nascite. La Giustizia ha sempre nemici potenti Nemesi, non devi mai dimenticare chi sei, né i tuoi obblighi: è una fortuna che io ti abbia trovata in tempo, irresponsabile come sei».

    «I soli obblighi che sento sono verso me stessa e chiunque tu sia non vedo che diritto hai di parlarmi così. Chi siete voi, e per l’ennesima volta, cosa volete da me?».

    «Quel che ti serve sapere è che predichiamo la verità e cerchiamo giustizia».

    «Non dirmelo, siete una sorta di confraternita segreta alla ricerca di un misterioso manufatto in grado di salvarci tutti dall’imminente distruzione? Dovrai inventarti qualcosa di meglio perché ti segua» e con uno strattone si liberò da quella mano così stranamente simile alla sua.

    «Sei anche perspicace e spiritosa oltre che bella, l’apparenza inganna. So che ora ti piacerebbe poter arrossire, farmi sentire il tuo fiato corto, e so anche che non puoi affatto invece. Io sono come te Nemesi, nato Freddo, e poi condannato all’astinenza, sempre alla ricerca di qualcosa da proteggere. Adesso ti ho trovata, e tu devi ascoltarmi, per quanto tutto questo sembri incredibile: ci sono dei motivi se ci troviamo in questa situazione, e c’è anche un modo per uscirne. Nessuna setta segreta, non siamo invasi dagli alieni, ma devi credere di essere la nostra Giustizia, la sola risolutrice di cui disponiamo: Nemesi, te ne prego» tese nuovamente la mano verso di lei «fidati di me».

    Come poco prima vinse la curiosità, e la donna affidò il suo destino a quello di Kedemòn: dopotutto seguire richiede tanta forza quanto condurre.

    Camminavano circospetti, presi dal silenzio; la mente di Nemesi era come sempre libera da futili domande, ma le parole di Kedemòn rimbalzavano portate da un’eco impietosa: non c’è alcun noi aveva detto, ed era maledettamente vero. C’era edera avvinta al suo epicardio, veleno in circolo e catene sulla pelle, poteva quasi vedersi: una donna piena di dipendenze, mai appagate. Strinse più forte la mano del protettore, quasi lusingata del fatto che fosse lì unicamente per lei, quando vide un furgone bianco come mille altri fermarsi al loro cospetto.

    «Calma, siamo noi».

    Le porte posteriori si aprirono, senza lasciarla l’uomo salì a bordo e la invitò a raggiungerlo con decisione: Nemesi sentiva che completare quel passo avrebbe potuto dare senso alla sua vita e spalancò gli occhi mentre si accingeva ad andare incontro al suo destino. Ma ancora una volta percepì l’aria fendersi alle sue spalle e una mano più forte strapparla dalle risposte che desiderava; il furgone partì, mentre le voci di due uomini gridavano all’unisono il suo nome.

    «Cosa pensavi di fare? Sei impazzita? Stavi seguendo uno sconosciuto Nemesi, te ne stavi andando, tu mi stavi lasciando!». Mimesis boccheggiava, livido di rabbia. «Devo calmarmi, devo respirare».

    Senza tradire la benché minima emozione Nemesi alzò un sopracciglio, contrariata dall’infelice scelta di parole, e sentì il sangue andarle alla testa.

    «Te lo chiederò con gentilezza: cosa ci fai qui?».

    «Ti seguo. Non è la prima volta».

    Per una frazione di secondo tutto tacque, mentre la relazione giungeva al limite della sua morbosità: «Figuriamoci oggi, dopo che quello si è presentato da me chiedendomi del mio respiro, cercando te. Tu sei MIA!», non lo aveva mai sentito gridare.

    «Il fatto che io ti ami non significa che tu mi possieda Mimesis, e c’è qualcuno là fuori che può spiegarmi chi sono, aiutarmi ad appartenermi davvero. Qualcuno il cui scopo è proteggermi, non derubarmi mentre giaccio distrutta su un letto sfatto».

    «Come puoi fidarti di un estraneo e non di me? Cerco di proteggerti».

    «Cerchi di legarmi, credo ti piacerebbe anche farlo fisicamente, ma non ne hai il coraggio. Cerchi di saziare il mostro di egoismo che vive nel tuo petto, ma non vuoi certo il mio bene. Avresti dovuto lasciarmi andare, darmi la possibilità di scelta che mi è sempre stata negata».

    «Non mentirmi».

    «Non ho scelto io di amarti», la frase fu come un pugno nello stomaco e rimase a bruciare sulla pelle, mentre Nemesi lentamente si scioglieva da ogni vincolo «e se avessi potuto non…», ma fu interrotta da un tonfo sordo. Mimesis era caduto sulle ginocchia, le negava gli occhi, celati dalla cortina di capelli corvini, e respirava a malapena: Tutto è perduto. Lei è perduta per sempre.

    «Finisci la frase Nemesi, e con essa finisci anche me».

    «Non mi sarei innamorata di qualcuno che non sa amare». Lo disse mesta, ogni suono le pesava sul cuore e le salava il viso di lacrime, non poteva prevedere cosa aveva scatenato.

    Mimesis si alzò, lo sguardo puntato sull’asfalto, e vomitò quel fiume di pensieri che la droga aveva tenuto saldamente incatenato:

    «Tu sei convinta che io lo faccia intenzionalmente, che non

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