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Eutanasia
Eutanasia
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E-book335 pagine4 ore

Eutanasia

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Info su questo ebook

Merate, cittadina della Brianza. È una mattina fredda e carica di neve quando Andrea Orfei, capitano dei Carabinieri, decide di separarsi dalla famiglia e dall’Arma per affrontare in solitudine il calvario della malattia che lo ha colpito. I propositi dell’ufficiale si complicano dopo che due omicidi sconvolgono la tranquillità del territorio meratese. Si sviluppano due differenti filoni d'indagine: il primo segue la pista di Eutanasia, serial killer di malati terminali; il secondo è una caccia all'uomo. Orfei è costretto ad affrontare le complicate inchieste tenendo testa a uno stato di salute che peggiora di giorno in giorno. È l’inizio di serie di delitti, ma mentre l’opinione pubblica, gli studiosi, i vertici politici aumentano la pressione, Orfei segue il proprio istinto e analizza i dettagli.
LinguaItaliano
Data di uscita4 set 2023
ISBN9791222444000
Eutanasia

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    Anteprima del libro

    Eutanasia - Michele Pelosi

    Capitolo 1

    Giorno 1 ore 03:57

    Il reparto rianimazione era immerso in un buio denso e privo di rumori. Alcuni pazienti dormivano sedati, altri erano sospesi nel sonno letargico del coma. Anche gli infermieri e i medici di turno riposavano inconsapevoli della presenza nella camera numero tredici.

    All’interno della stanza la piccola Anna era addormentata ma non sognava. Il respiro seguiva una cadenza lenta e regolare, appena percettibile dal movimento del lenzuolo sul petto. Al suo apice il cotone sfiorò la punta luccicante del pugnale.

    Fallo! Diamine, fallo. Fallo ora.

    La mano che stringeva l’impugnatura sbiancò per lo sforzo, ma l’arma parve opporre una volontà propria e contraria: tremò appena, senza calare. La lama di damasco restò ferma sopra lo sterno della bambina.

    Attraverso l’unica finestra, il riverbero lunare cadeva sul pavimento dividendo la camera in due mondi contigui e opposti. Sul fondo, l’oscurità aveva inghiottito le attrezzature mediche, le sedie dei visitatori, il piccolo tavolo e la porta d’ingresso. Davanti al letto, invece, la pallida impronta rettangolare dal pavimento di marmo risaliva il lenzuolo fino al viso della piccola.

    Al confine di quei due mondi, lungo la linea che divideva l’oscurità dal chiarore, l’ombra cercò la determinazione nel passato.

    È come le altre volte. Proprio perché è una bambina, fallo ora.

    Subito.

    La mano non si mosse.

    Un punto verde singhiozzava un tic su un monitor, era l’unico suono percepibile nel silenzio.

    La presenza spostò lo sguardo dal pugnale al viso della bimba: le palpebre abbassate, l’accenno delle occhiaie, la pelle emaciata, i lineamenti innocenti; ogni tratto testimoniava la malattia e l’ingiustizia da riparare.

    La mano tremò ancora, incontrollata.

    No, non guardarla, pensa solo a liberarla.

    Respirò a fondo e si concentrò sul pugnale. Chiuse gli occhi e allungò la mano libera verso il capo fasciato della piccola, sfiorandolo. Sotto i polpastrelli avvertì il ruvido delle bende, i sensori dell’encefalogramma e le ciocche di capelli sfuggite alla fasciatura. Non meriti questo, piccola mia. Nessuno lo meriterebbe. Nessuno.

    Una lacrima cadde sul lenzuolo e divenne una minuscola macchia livida. Lontano, una campana batté quattro rintocchi e la luna, spaventata, andò a nascondersi dietro una coltre di nubi.

    Dalla finestra non entrò più la luce.

    Capitolo 2

    Giorno 1 ore 05:23

    Era buio quando Andrea Orfei si svegliò e il primo pensiero fu molesto: sarebbe stata una pessima giornata, la prima di molte. Lasciò abituare gli occhi all’oscurità, poi si alzò attento a non svegliare la moglie e la piccola Elsa. Si lavò e si sbarbò con cura. Guardandosi allo specchio passò una mano sul capo, sfiorando la cute liscia, priva di capelli. Si soffermò sulla tempia destra, accarezzandola come per cercare qualcosa sottopelle, un indizio che non trovò. Scosse la testa deluso, regalò un insulto al destino e andò a prepararsi il caffè.

    Quando fu pronto per uscire si bloccò in bilico dinanzi alla porta della camera da letto, incerto se varcarla o andare via. Non resistette ed entrò. Elsa dormiva nella culla posta accanto al letto, dalla parte di Federica, sua moglie. Lo spiraglio di luce proveniente dalla sala si era posato sulla neonata, rivelandola a pancia in su, le manine strette a pugno e vicine alle guance rosate. Orfei pensò che rinunciare a loro sarebbe stata la più difficile delle imprese. Con un palmo sfiorò il viso di Elsa, attento a non svegliarla.

    «Resta ancora un po’.»

    Il sussurro di Federica lo colse alla sprovvista: era sveglia e lo stava osservando. La mano di lei, calda e vellutata, lo raggiunse accarezzandogli il braccio.

    «Per favore, resta» ripeté.

    Orfei si irrigidì e arretrò. Non guardò la moglie, non ci sarebbe riuscito. Pronunciò solo: «Addio.»

    Cinque minuti dopo era sul marciapiede, dinanzi alla macchina ricoperta di neve e all’inizio di una pessima giornata.

    Capitolo 3

    Giorno 1 ore 06:30

    La piccola sveglia digitale di Claudio Locatelli suonò il motivetto di Una splendida giornata e per risposta ottenne uno schiaffo che la fece volare contro la parete, mandandola in pezzi. L’uomo sbuffò e con un colpo di reni si mise seduto a bordo letto. Il tepore del parquet riscaldato risalì dalle piante dei piedi alla schiena come un piacevole massaggio. Si stirò allungando le braccia, godendo con un mugolio dell’effetto distensivo. Batté le mani e le due applique poste sulla testata del letto si accesero. La luce calda delle lampade si diffuse nella camera ampia e accogliente.

    Aveva riposato bene, ma qualcosa non andava. Si voltò verso la metà del letto vuota: il lenzuolo stirato gli rammentò l’assenza di lei. Scacciò l’immagine e si alzò dirigendosi alla finestra. Fuori era buio. Spinse lo sguardo nel cono di luce dei lampioni ed ebbe una sorpresa: stava nevicando.

    Cristo, mi tocca spalare il vialetto.

    L’appartamento si affacciava sul lungofiume dell’Adda, fronteggiando la lunga passeggiata pedonale. Nella luce dei lampioni tutto appariva bianco e sepolto da una spessa coltre. Erano bianchi gli alberi, sentinelle a guardia della strada, anch’essa bianca. E bianche le panchine, e i prati e le piccole barche ormeggiate alla riva. Solo il fiume procedeva nero e senza distrazioni verso valle. Era febbraio e la nevicata era giunta all’improvviso, inaspettata.

    Claudio Locatelli, osservando le forme camuffate sotto il manto, si accigliò: Neve e donne: candide e ingannevoli. Dannatamente ingannevoli.

    Si girò per dirigersi in cucina, ma si fermò dinanzi al grande specchio dell’armadio. Si avvicinò di qualche passo, sorridendo all’immagine riflessa, alla perfetta forma fisica del corpo nudo: cento chili distribuiti su due metri di altezza. Si passò le mani tra i capelli, neri e ricci, con il vezzo di un fotomodello. Ammirò lo sviluppo degli addominali, la perfezione delle gambe, e il sesso, suo orgoglio e vanità.

    Sei un gran bel maschio, amico mio. Un gran pezzo di maschio.

    Rise con gusto, senza smettere di guardarsi. Quando fu soddisfatto uscì dalla camera. Attraversò il disimpegno sul quale si affacciavano due stanze vuote e superò l’ampio salone. Una volta in cucina accese la macchina del caffè accanto alla quale un vaso di vetro colmo di capsule colorate offriva un assortimento di miscele. Ne prelevò una a caso e la caricò. Dopo qualche secondo di attesa l’apparecchio iniziò a gorgogliare e a gemere, sottoposto all’invisibile sforzo di dover spingere l’acqua attraverso la macina. Il lamentoso concerto interruppe la quiete dell’appartamento. Fu tentato di colpire la macchinetta con un pugno, ma scorse il cellulare collegato al carica batterie e si trattenne avvertendo l’improvviso pulsare delle tempie. Ebbe la sensazione di avvampare. Afferrò il telefono, ne sfiorò la superficie e lesse sul display l’assenza di notifiche.

    Nulla. Non c’era nulla.

    Perché non mi vuoi rispondere?

    L’indice fece scorrere i messaggi, quelli che aveva scritto la sera precedente, il giorno prima e quello prima ancora.

    Nessuna risposta.

    L’odore del caffè si sparse nell’ambiente.

    Quando alzò il capo si vide riflesso nella finestra, incastrato tra lo scuro e la gabbia vetrata; senza colore, i contorni annegati nella profondità. Si avvicinò e toccò il prigioniero. Il dito seguì il profilo del viso.

    «Non devi lasciarla andare. Devi proteggerla. Anche da sé stessa.»

    Capitolo 4

    Giorno 1 ore 06:33

    Era nella natura di Orfei non lasciarsi mai andare a pensieri frivoli. Era un pragmatico, eppure quella mattina considerò che se fosse morto in un incidente stradale si sarebbe ritenuto fortunato. L’abitudine però lo costringeva a guidare con prudenza, mantenendo l’attenzione sulla strada. Procedeva vigile e preoccupato dalla neve che scendeva copiosa. A complicare le cose c’era il vento che spirava dal nord e creava giostre di fiocchi. La danza vorticosa saturava l’aria riducendo la visibilità: lo spazio davanti al parabrezza era quasi impenetrabile allo sguardo. Orfei seguì il limitare esterno della carreggiata, impresa tutt’altro che semplice: il confine tra l’asfalto e la campagna si era compattato in un chiarore uniforme.

    Il trillo del telefono interruppe la sua concentrazione.

    No, non adesso.

    Lo squillò si rinnovò.

    Orfei spostò l’attenzione alla consolle: il nome Federica stava lampeggiando. La tempesta perfetta: fuori e dentro l’auto. In fondo era consapevole che non si sarebbe arresa facilmente. Cliccò il pulsante verde avviando la conversazione in vivavoce.

    «Federica, perché mi chiami?»

    Non ci fu risposta, ma solo un leggero ronzio di fondo.

    «Federica, per favore. È già difficile così…»

    «No, Andrea» la voce femminile riempì l’abitacolo.

    «No cosa?»

    «No, non è difficile come dici, la parola giusta è terribile. Sì, terribile è la parola che dovresti utilizzare. Difficile è qualcosa che si può affrontare, forse a fatica, forse fallendo, ma è possibile. Invece terribile è qualcosa che nessuno vorrebbe affrontare. Capisci la differenza? La tua decisione è terribile e io non voglio accettarla.»

    Orfei ebbe la sensazione di perdere consistenza, come se i muscoli fossero divenuti gelatina.

    «Federica, ne abbiamo già parlato…»

    «Non è vero. Tu nei hai parlato, io non ho potuto ribattere. Per te, la mia opinione non ha valore in questa faccenda.»

    Seguì qualche istante di silenzio, interrotto dal rumore dei tergicristalli.

    «Sta nevicando, Federica. La strada è pessima e non c’è nulla da aggiungere.»

    «Andrea, ti prego, rifletti. È coinvolta anche Elsa.»

    Il nome della figlia gli evocò immediatamente il profumo di talco, il corpicino stretto tra le braccia, lo sgambettare sul fasciatoio, gli occhi azzurri e quei quattro capelli sempre dritti.

    «Elsa è piccola. Saprà solo ciò che tu vorrai dirle.»

    «E cosa dovrei dirle? Andiamo, potresti decidere anche questo.

    Mi sembra un dettaglio importante, no?»

    «Non essere sciocca, Federica.»

    «Io sarei sciocca? Sei suo padre! Andrea, non vuoi…»

    «Basta!» la interruppe alzando la voce. Respirò e riprese a parlare con un tono più basso: «Non stiamo negoziando una decisione, non c’è un margine di manovra o la possibilità di tornare indietro. Le cose sono andate così, dobbiamo farcene una ragione. Parlarne ancora non servirà.»

    La spia del carburante si accese segnalando l’inizio della riserva. Nel chiarore della nevicata, oltre i tergicristalli che tentavano invano di pulire il parabrezza, Orfei distinse l’insegna di un distributore. Almeno in questo era stato fortunato.

    «Ho bisogno di fare benzina. Mi farò sentire io. Va bene?»

    «No, Andrea, non va bene. Nulla va bene. Ascoltami: abbiamo sempre una scelta, anche tu ce l’hai. Anche adesso. Per favore, riparliamone. Hai bisogno di noi e noi abbiamo bisogno di te. Lo sai quanto ti amo, lo sai che io, io… non trovo nemmeno le parole per…» la frase restò sospesa nel suono sommesso di un singhiozzo.

    Le mani di Orfei si strinsero sul volante. Le falangi si accesero di rosso mentre una fitta alla tempia inaugurava la prima emicrania della giornata. Azionò la freccia per entrare nel distributore.

    «Ti sbagli, Federica. Non abbiamo una scelta. Nessuno di noi due l’ha. E io non ti voglio più con me.»

    Allungò una mano e spinse il tasto rosso: la telefonata si interruppe e nell’abitacolo fu di nuovo silenzio. Nella testa, invece, non ti voglio più con me continuò a risuonare.

    Capitolo 5

    Giorno 1 ore 06:35

    L’autovettura di Andrea Orfei percorse a passo d’uomo il piazzale che si interponeva tra la strada provinciale e le colonne distributrici di carburante, andando ad arrestarsi accanto a una di esse.

    Sotto la grande tettoia trovavano posto sei pompe di erogazione e un gabbiotto dipinto di verde smeraldo, una specie di minuscola casetta, con due porte e una finestra. Era il rifugio-cassa-negozio-cesso del gestore e fu dal bagno che Orfei vide uscire il benzinaio. Attraverso il finestrino, lo notò indugiare davanti la porticina, grattarsi la nuca vigorosamente e allungare un po’ il collo: forse non si aspettava un cliente con quel tempo. Poi l’omino alzò un braccio per salutarlo e gli andò incontro.

    Orfei scese dell’auto e l’aria frizzante lo scosse. Si tirò su il bavero e guardò meglio il benzinaio: era un uomo basso, grassoccio e vestiva una divisa rossa bordata di giallo. Gli ricordò la caricatura di un meccanico della scuderia Ferrari, quelli del cambio gomme, in attesa ai box durante i Gran Premi. Un meccanico ben pasciuto, con un’enorme pancia da birra. Mentre l’uomo si avvicinava all’auto, notò anche la coppola calata sul capo e due baffoni enormi; questo gli bastò a correggere la prima impressione: l’uomo baffuto era il fratello gemello di Super Mario, il personaggio dei video games.

    Il benzinaio lo salutò garbatamente: «Buongiorno. Facciamo benzina?»

    «No, shampoo e barba» rispose serio.

    L’uomo si bloccò interdetto.

    «Certo che voglio far benzina. Venti euro di verde. Grazie.» Super Mario sorrise e indicò lo sportello del guidatore.

    «Torni pure in macchina, signore. Visto che tempo oggi? Nevica.»

    Orfei si guardò attorno. «Eh già, nevica. Comunque, grazie ma preferisco sgranchirmi le gambe.»

    Il benzinaio annuì. «Ha ragione e fa bene. Dicono che troppe ore di auto rovinano le ginocchia. Lei sta tutto il giorno seduto in macchina, non è così? Scommetto che è un agente commerciale. Ho un istinto per queste cose, sono allenato. Sa quanti ne passano da qui ogni giorno? Io li osservo e capisco che mestiere fanno. Il mio istinto mi dice che lei è un rappresentante di un’azienda alimentare. Ho indovinato? Su, forza, me lo dica» e rise.

    Il mal di testa morse la tempia Orfei con più ferocia, tuttavia si sforzò di rispondere. «No, non sono un agente di commercio.»

    Super Mario mutò espressione diventando serio e puntandogli un dito. «Lei non è un agente di commercio? Davvero?»

    «Lo saprei se lo fossi, non crede?»

    «Penso di sì. Cioè, ovvio che lo saprebbe» concordò l’ometto. Poi fissò le iridi grigie di Orfei, seguì il profilo del cranio lucido che sfidava il freddo della campagna e osservò i tratti duri del viso sbarbato di fresco. Intanto, svitò il tappo del serbatoio, sganciò la pistola erogatrice della benzina dalla colonna e la infilò nel manicotto dell’automobile. A quel punto, sbuffando una nuvola di aria gelida, tornò alla carica.

    «Lei veste un giaccone e sotto indossa un bell’abito blu, quindi se non è un rappresentante alimentare significa che…»

    Una Toyota nera piombò nel piazzale a gran velocità, interrompendoli.

    Orfei, che era in piedi accanto al benzinaio, lo udì imprecare sommessamente, ma non decifrò le parole: era impegnato a comprendere le intenzioni dell’idiota al volante della Toyota. L’auto puntò prima verso le colonne distributrici e poi, con un mezzo testa coda, indirizzò il muso verso i due presenti. Accelerò, intenzionata a travolgerli, ma all’ultimo istante le ruote si inchiodarono lasciando due lunghe strisce sul fondo fangoso.

    La vettura si arrestò a pochi metri dalle loro gambe.

    La portiera del conducente si spalancò e una persona uscì con indosso un passamontagna, brandendo un lungo coltello.

    A differenza del benzinaio che aveva già alzato le mani in alto, la prima reazione di Orfei fu osservare l’arma del rapinatore: un coltello del tipo Chef da trenta centimetri di lama; ne aveva uno simile nel ceppo di legno posto sul piano della cucina. Immaginò che quell’uomo l’avesse portato da casa, prendendolo prima di uscire insieme alle chiavi, al cellulare e al portafoglio.

    Il bandito si guardò intorno come se fosse indeciso sul da farsi, o preoccupato dal sopraggiungere di qualcuno, poi squadrò i due e si rivolse al benzinaio, minacciandolo con l’arma all’altezza del volto.

    «I soldi! Cazzo, dammi i soldi! Sbrigati» urlò.

    Dai buchi sfilacciati del cappuccio si scorgevano gli occhi. Erano giovani, color marrone, due pupille che correvano da destra a sinistra in sincronia con il coltello: prima verso il benzinaio e poi verso Orfei. Rivolse la punta acuminata a quest’ultimo. «Tu stai fermo o t’ammazzo.» Orfei annuì appena.

    «Certo che mi ammazzi… con un coltello da cucina» rispose con calma.

    La lama tagliò l’aria e si arrestò a un palmo dalla faccia del benzinaio.

    «I soldi! Ti ho detto di tirare fuori i soldi!»

    Orfei colse il vibrare della voce, una incrinatura, una crepa. L’uomo era rigido, nervoso, le spalle bloccate, le gambe piantate a terra. Il capo voltava a destra e a sinistra. Tra gli animali la bestia che ringhia più forte è la più spaventata. Vale anche per gli uomini.

    «I soldi!» ripeté allungandosi in avanti.

    Super Mario farfugliò qualcosa. Gli tremavano le mani e le braccia. Con fatica aprì il marsupio legato in vita e ne estrasse le banconote. Pezzi da cinquanta e da dieci euro. Il bandito si avvicinò di un passo: in una mano il coltello e l’altra mano aperta con il palmo rivolto verso l’alto, pronta a ricevere i soldi.

    Il mondo si era ridotto alle dimensioni del piazzale: un guscio di coltre bianca, tre persone e il denaro. Nessuno li avrebbe notati.

    «Dammeli, cazzo! Muoviti!» ringhiò indicando la mano.

    Il benzinaio allungò i soldi al rapinatore.

    Orfei sapeva che il passaggio del denaro è quello che cattura l’attenzione e distrae chiunque: la massaia quando paga il panettiere, la pensionata alla cassa del supermercato, il dirigente che aspetta il resto al bar e il rapinatore allo sportello della banca. Quando le mani si scambiano le banconote, gli occhi non vedono altro: esistono solo quelle.

    E sapeva anche che una lama di trenta centimetri può attraversare il torace di uomo, frantumare le coste, perforare il cuore, entrare in un polmone. Sapeva che Federica aveva ragione: c’è sempre una scelta, anche su come morire.

    Con un gesto veloce afferrò l’estintore posto accanto alla pompa di benzina. La bombola divenne una clava, disegnò un ampio raggio nell’aria, e finì per schiantarsi sulla testa del rapinatore. Lo colpì sul lato destro del volto, tra l’occhio, la mascella e l’orecchio. Il bandito barcollò sul posto ma rimase in piedi, con il cappuccio spostato da una parte e gli occhi spariti dietro la lana.

    «Cosa credi di fare?» urlò Orfei lasciando cadere in terra l’estintore. Allargò le braccia, gonfiando il petto e gridò ancora. «Avanti, fammi vedere, forza!»

    Ma il bandito vacillò, fece un passo indietro, il coltello gli scivolò dalle mani e le gambe cedettero.

    Crollò a terra.

    Orfei abbassò il capo: non sempre si può scegliere come morire. Si chinò sul giovane afferrandolo per un braccio e lo rivoltò a pancia in giù. Il bandito non oppose nessuna resistenza, nemmeno quando Orfei gli piazzò un ginocchio sulla schiena bloccandolo.

    Intanto, le banconote si erano sollevate da terra volando tra la neve e lo sporco. Super Mario iniziò a gridare e a saltare.

    «Tenetelo fermo, signore, tenetelo fermo. Corro dentro a chiamare i Carabinieri. Tenetelo fermo, per carità.»

    Orfei non gli diede retta. Con una mano tastò il ragazzo: le tasche, i fianchi e la cintura. Era disarmato. Infine, gli sfilò il passamontagna e l’osservò. Aveva vent’anni o poco più. La faccia schiacciata nella neve, un rivolo di sangue sotto l’orecchio e negli occhi la paura della preda catturata. Bofonchiava parole incomprensibili, ma non erano insulti, erano lemmi di una preghiera.

    Dall’altra parte del piazzale, Super Mario era in preda a una crisi isterica. Inseguiva una banconota più veloce di lui e allo stesso tempo ripeteva: «Oddio, oddio. Proprio a me.»

    Orfei lo richiamò. «Lasci stare. Ci penso io ai carabinieri.»

    Infilò una mano nella tasca del giaccone e tirò fuori il cellulare. Compose un numero e attese; qualcuno rispose.

    «Pronto, Esposito? Sì, appuntato, sono io. Sono al distributore Agip di viale Bulgaria. Mi serve subito una pattuglia e un’ambulanza. C’è stata una tentata rapina e c’è un giovane da scortare al Pronto Soccorso. Sbrigatevi.»

    Capitolo 6

    Giorno 1 ore 07:43

    Eleonora era in piedi nel bagno, aggrappata al lavandino con entrambe le mani. Per un attimo, stentò a sorreggersi e le braccia tremarono per lo sforzo. Lo specchio le rimandava il viso di una sconosciuta. Una donna con la mascella serrata, la fronte e le guance imperlate di gocce d’acqua e sudore. Gli occhi gonfi di chi ha pianto troppo.

    Abbassò lo sguardo al lavabo, al rubinetto aperto, agli schizzi, all’acqua che scivolava lungo i bordi fino a raccogliersi sul fondo, al gorgo dalla forma finita: una spirale veloce, un mulinello perpetuo che svaniva nello scarico. Un modo perfetto per sparire. Trascinata via in silenzio. Senza lasciare traccia. Senza immaginare cosa ci sia dopo.

    E se un dopo c’è.

    Il cellulare, appoggiato sul piano del lavabo, s’illuminò. Un’intermittenza senza suoni. Un ronzio basso e incessante. Vibrò diffondendo il tremore a ogni cosa: al pavimento, alla vasca, alla doccia, alle gambe, alla testa.

    Eleonora vide le pareti piegarsi, curvandosi fino a schiacciarla.

    Riducendole lo spazio e l’ossigeno.

    Il bagno divenne una cella soffocante, una gabbia senza vie d’uscita; come la sua vita.

    Respirò a fondo. Si bagnò il viso e lasciò trascorrere un altro minuto.

    Il cellulare non smise di lampeggiare. Lei lo sapeva: non si sarebbe fermato. Tirò su con il naso e riportò gli occhi all’immagine nello specchio, alla donna riflessa. Una giovane nascosta dietro un lungo ciuffo di capelli color biondo, sottili e leggeri. Lui le aveva detto tante volte che quel ciuffo era un fragile scudo, insufficiente a celare la riga delle lacrime. E aveva ragione. La conosceva bene, meglio di chiunque altro.

    Qualcosa andò a sbattere contro la finestra del bagno: un passerotto aveva urtato il vetro. Eleonora si avvicinò per guardare meglio.

    Fuori stava nevicando.

    Nel grigiore dell’alba, l’uccellino si mosse a saltelli sulla neve del davanzale. Era incerto, stordito. Un’ala batté, quasi volesse spiccare il volo, ma l’altra rimase immobile, bloccata nell’innaturale posizione della frattura. Il passerotto saltellò ancora due volte sino al ciglio, restò un attimo fermo nell’indecisione fin quando il dolore lo spinse oltre.

    Saltò e sparì precipitando.

    Un alone di vapore prese forma sul vetro, dinanzi alla sua bocca.

    Non ci sottrae al proprio destino, pensò, non accade mai. Certe cose non possono cambiare, sono inevitabili. Per quanto ci si sforzi di eluderle non c’è scampo. E poco importa se sei colpevole o innocente, se sei nel giusto o nell’errore. L’unica certezza è che il destino si compirà.

    Siamo acqua e non possiamo scegliere di salire, dobbiamo adeguarci e scendere a incontrare la nostra sorte. La sua era là fuori.

    Capitolo 7

    Giorno 1 ore 09:30

    «Chi l’avrebbe mai detto che il mio destino sarebbe stato quello di imbattermi ancora nelle sue imprese, capitano. Allora, da dove diavolo salta fuori la storia che racconta il benzinaio? Lei che provoca il rapinatore, lo atterra, poi grida, lo insulta. Cosa mi significa?»

    Una

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