La collera della Regina
Di Nicola Testa
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La collera della Regina - Nicola Testa
Nicola Testa
LA COLLERA DELLA REGINA
Prima Edizione Ebook 2020 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868104214
Immagine di copertina su licenza
Adobestock.com
Damster Edizioni è un marchio editoriale
Edizioni del Loggione S.r.l.
Via Piave, 60 – 41121 Modena
http://www.damster.it e–mail: damster@damster.it
Al mio piccolo Patato, pirata visionario,
aspirante progettista di lego e colonna sonora dei miei giorni.
Nicola Testa
LA COLLERA DELLA REGINA
Fritto mystery alla piemontese con note digestive dell'autore
Indice
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
Filastrocca popolare, 1948
La poetica del doppio, esperienze e riflessioni
Un pomeriggio a Daròla
Dal diario di Chiara (uomini prima di Pista)
Parere vincolante sul reperto classificato come R-TGF-56 analizzato in data 17 giugno 2001, presso la Centrale Termoelettrica Galileo Ferraris di Trino Vercellese, redatto dall'ufficio Lapidei
del CNR
Arduino al telefono col Cliente (deliri notturni)
L’AUTORE
CATALOGO I GIALLI DAMSTER
I
Incipit
Ovvero il preantipasto, ma non si pensi a un appetizer delicato, tutto fronzoli e colori, da ristorante di pretesa. Qui siamo di fronte più a un tomino elettrico o a un peperone in bagna caoda, tanto per preparare lo stomaco al lauto pasto che sarà.
Per un attimo si sentì portare via da un vortice di nausea che rischiò di fargli perdere l'equilibrio. Dovette socchiudere gli occhi e ricordare a se stesso il motivo che lo aveva spinto fino a quel punto.
Riaprì gli occhi, ripose la pistola nella tasca interna del cappotto, fece un respiro profondo e rimase per qualche secondo in piedi in mezzo al prato, mentre l'acqua gli inzuppava i mocassini.
La pioggia attraversava in diagonale il fascio di luce della torcia. La puntò verso il basso per dare un'occhiata alla ragazza che giaceva a terra, rannicchiata tra l'erba fradicia del prato, le labbra socchiuse, lo sguardo fattosi opaco, i capelli lisci che le accarezzavano una guancia. Le passò due dita sulle palpebre, raccolse l'altra torcia, che era caduta a terra, e si diresse verso il bordo della strada, dove ad attenderlo c'era la sua Citroën.
Dopo averla raggiunta controllò che non vi fossero luci in avvicinamento, poi aprì il portellone posteriore e vi puntò il fascio di luce della torcia. Nel secchiello di legno c'era tutto l'occorrente: un seghetto giapponese ancora nella sua confezione di plastica trasparente, una mantella impermeabile, un paio di guanti di lattice e un trinciapollo. Raccolse il secchiello e la croce di legno che aveva sistemato sul fondo del bagagliaio, richiuse il portellone e tornò dalla ragazza.
II
I piani del professore
Primo carrello di antipasti: un professore di storia un po' tocco, una studentessa molto concentrata sui suoi studi e un'altra totalmente svampita, una Regina in collera e la sua vittima, due fratelli che più diversi non si potrebbero immaginare e un conte. Due centrali e un'abbazia. Una leggenda. Per cominciare uno direbbe che basta così. E invece, inquietante, un altro carrello già occhieggia dal fondo della sala.
L'aula prescelta era una delle ultime del piano seminterrato, quadrata e disadorna. Il professor Lantero vi era arrivato per primo, e, avendola trovata ancora vuota, si era seduto su una delle seggiole disposte intorno al tavolo che ne occupava il centro. Poi a piccoli gruppi erano sopraggiunti tutti gli altri che, accomodatisi a debita distanza da lui, attendevano l'inizio della riunione parlottando sommessamente.
Il vicerettore entrò nell'aula sistemandosi il foulard di seta con fare teatrale, tirò fuori da una valigetta di pelle alcuni fogli dattiloscritti, si appoggiò al tavolo e cominciò a leggere i punti all'ordine del giorno: «Volete per favore fare silenzio?» disse sollevando il capo.
Lantero non ebbe bisogno di fare nulla, dal momento che era uno dei pochi a tacere. Il vicerettore elencò in tono sbrigativo le misure che la Direzione intendeva adottare in merito alla didattica dei corsi del biennio: i programmi andavano amalgamati, disse, le esercitazioni ampliate, i laboratori rivisti alla luce dei nuovi orientamenti.
Finito che ebbe di parlare invitò tutti a votare l'approvazione per alzata di mano e nessuno osò tenere abbassata la propria. Lantero tenne la mano alzata per intervenire, prese la parola ed espose le proprie ragioni, mettendo in evidenza un paio di manchevolezze che a suo avviso affliggevano i programmi del nuovo ordinamento messi a punto dal Ministero. A parte il vicerettore, intento a digitare freneticamente sui tasti del cellulare, lo guardavano tutti con un misto di disprezzo e disapprovazione.
«Non è d'accordo con me?» disse dopo aver concluso, rivolto verso il vicerettore.
«Qualcuno di voi è d'accordo col professor Lantero?» rispose il vicerettore senza staccare gli occhi dal display del cellulare.
Un dottorando coi capelli brizzolati gli voltò la schiena facendo stridere la sedia sul pavimento mentre tutti riprendevano a parlare dei fatti loro. A quel punto Lantero si alzò in piedi, salutò con fare dignitoso e uscì sbattendo la porta.
Per qualche secondo fu silenzio, poi qualcuno dal fondo dell'aula disse: «Avrà un appuntamento con la Regina...»
La aspettava fin dalle prime fitte del mattino, che l'avevano colpita proprio sopra gli occhi. Li dovette chiudere serrando le ciglia perché mille schegge di cristallo le si stavano aprendo dentro. Riuscì a stento a spegnere il monitor e si prese il volto tra le mani, mentre la Regina cominciava la sua invettiva:
...Non Vi inquietate, Vi prego, non lo posso sopportare...
La voce della Regina andava e veniva, come se ogni volta avesse bisogno di riprendere fiato per parlare,
...C'è qualcosa che Vi toglie le energie, me lo avete già detto, qualcosa che non vi permette...
Sapeva già ciò che la attendeva per non essere riuscita a venire a capo di nulla, ancora una volta, ma il fatto era che non poteva. Tentò di spiegare le proprie ragioni mentre la Regina proseguiva coi suoi strali. Infuriata in quel modo non l'aveva mai sentita. A tratti faticava a cogliere il senso delle frasi tanto le parole erano accavallate e alterato il tono con cui venivano pronunciate ma intanto tentava di rimanere concentrata, come cercando la sintonia con una radiofrequenza disturbata, perché ogni monosillabo poteva avere la sua importanza.
...Devo capire di cosa si tratta, certamente, farò il possibile...
Mentre tentava di inserirsi in quel fiume in piena di accuse e di richieste, la Regina urlò più forte, tanto da costringerla a buttarsi a terra e a rannicchiasi come un cane che si proteggesse da una scarica di sassi.
...Le Vostre condizioni non Vi permettono in alcun modo... faremo in fretta, non dubitate...
Cercò di rassicurarla come poteva e promise di raddoppiare l'impegno, sebbene non sapesse davvero più che cosa inventarsi. Già troppe volte l'aveva delusa coi propri fallimenti. Quando smise di parlare per controllare che le sue parole fossero state udite, la Regina era ormai sparita. Attorno era rimasto solo un lontano vociare di persone, forse i colleghi che rientravano dalla pausa pranzo. Con un enorme sforzo ricominciò a muoversi, prima il collo, poi un braccio, poi le gambe. Riaprì gli occhi senza scorgere che ombre sottosopra, si sollevò lentamente e si mise a sedere sulla poltroncina a rotelle. Una volta appoggiato il dorso allo schienale, lentamente le figure che aveva intorno ripresero forma. L'ombra scura che si muoveva al di là del bancone era una coppia di immigrati, che la guardavano stralunati. Premette il tasto per riaccendere il monitor, schiarì la voce e disse: «Sono qui da molto?»
Già, quanto tempo era passato? Dieci anni, pensò. Dieci anni esatti da quando il suo destino aveva incrociato quello della Regina.
Dopo la riunione in Facoltà, Lantero era rincasato a piedi infagottato nel suo cappotto di vigogna, rimuginando tra sé per tutto il tempo e gesticolando, tanto da suscitare più di uno sguardo preoccupato tra i passanti che lo incrociavano lungo le vie di Vercelli. Dopo un giro più lungo di quello che sarebbe stato necessario per raggiungere il palazzo ottocentesco dove abitava, si trovò quasi per caso di fronte al portoncino di casa. Lo aprì litigando con la serratura, entrò nell'androne senza accendere le luci e, nella penombra, notò che la sua buca delle lettere, buona ultimamente solo per bollette e volantini del pronto-pizza, era intasata da un incarto ingombrante. Lo estrasse senza bisogno di aprire lo sportellino e ne lesse il mittente. Sembrava che la questura avesse urgenza di comunicare con lui.
Lantero aveva salito le scale facendo i gradini a tre alla volta, era entrato in casa e si era immediatamente infilato nel suo studiolo. Poi, dopo essersi concesso qualche respiro per togliersi il fiatone, si era seduto alla scrivania e aveva aperto la busta strappandone senza troppi riguardi il bordo superiore.
Dentro c'erano diverse fotografie in grande formato, che esaminò con una voracità in cui faticò a riconoscersi. Le prime immagini che gli capitarono sotto gli occhi mostravano un terreno costellato da segni di bruciature e simboli disegnati con la cenere. Poi fu la volta delle fotografie che ritraevano un cadavere senza testa adagiato su un prato zuppo d'acqua. La testa della vittima, una ragazza coi capelli biondi, faceva capolino da un secchio di legno a poca distanza. Si vedevano anche una croce di legno piantata storta nel terreno e, sullo sfondo, un muro coperto di rampicanti.
Lasciò trascorrere qualche secondo per lasciare che le immagini di ciò che aveva davanti gli si depositassero sulle cornee, poi accese la lampada da tavolo e vagliò tutto il materiale che aveva rovesciato sul tavolo. Fu a quel punto che notò il foglio dattiloscritto marchiato col timbro INSOLUTO. Si trattava di un referto di polizia scritto a macchina e pieno di correzioni. Secondo il medico legale la ragazza delle immagini era stata prima strangolata e poi decapitata da una mano ignota. Lantero riprese in mano le fotografie per verificare i segni lasciati dalle mani dell'omicida sul collo della vittima, sia per la parte rimasta attaccata al corpo, sia per quella solidale alla testa. Poi cominciò a sollevare le fotografie e a rigirarle, per cercare ovunque un messaggio, una nota o un commento che lo potessero indirizzare nel cogliere il senso della situazione. Mentre armeggiava freneticamente con tutte quelle scartoffie, si trovò in mano un secondo incarto, ancora sigillato. Una busta gialla in formato più piccolo, su cui qualcuno aveva scritto a penna una data.
12 ottobre 1998. Erano passati dieci anni esatti.
Anche la busta gialla conteneva delle fotografie. Dopo averle esaminate una a una, Lantero aveva sferrato un sonoro pugno sul piano della scrivania e si era immobilizzato senza riuscire a organizzare i propri pensieri. Infine aveva trovato la forza di alzarsi in piedi e avviarsi verso il soggiorno. Entratovi, si diresse verso il comò, ne estrasse il primo cassetto e lo posò sul pavimento.
Il cassetto conteneva vari oggetti conservati nel corso degli anni: nastri colorati, matite senza punta, agende con le pagine strappate, pezzi di cose rotte, una vecchia Polaroid grande come una scatola per biscotti che ogni volta impediva di richiuderlo. Levata di mezzo quella massa di cianfrusaglie, Lantero arrivò alle fotografie che ne occupavano il fondo e iniziò ad analizzarle. Ogni volta osservava l'immagine che aveva estratto dal mucchio, tratteneva il fiato, poi sbuffava contrariato e, dopo aver gettato la fotografia dietro le spalle, passava alla successiva.
Andò avanti così per diverso tempo fino a che, con lo strato di fotografie fattosi ormai tanto sottile da lasciar intravedere il fondo scuro del cassetto, il respiro gli si aprì. La figura di cui era in cerca era lì, seminascosta tra un'immagine ingiallita di uno scolaretto col grembiule a quadri e una premiazione di un torneo di bocce. La scena che gli si parava davanti era in effetti abbastanza diversa da quella che ricordava. Appoggiò la fotografia sul piano della scrivania e cominciò a riordinare il cassetto.
Dopo aver confrontato l'immagine stampata nella propria memoria con quella fissata dalla sua vecchia fotocamera, si trattava ora di far cozzare quest'ultima con la cruda realtà. Lantero trascorse i giorni successivi tentando ostinatamente di riportare in vita un passato che credeva sepolto per sempre, dubitando spesso di non potervi riuscire.
Viceversa, quando erano passate poco più di due settimane da quell'invio misterioso da parte della polizia, finalmente sembrò che le sue ricerche portassero a qualcosa di concreto. Era una tersa mattina di inizio Novembre e lui stazionava su quel marciapiedi da almeno due ore. La figura corpulenta che aveva attratto la sua attenzione era appena scivolata dentro al bar Marisa, uno di quei locali di una volta con all'ingresso una tenda di lamelle di plastica che d'estate serviva a tener lontane le mosche e d'inverno gli scocciatori. Lantero varcò la soglia del bar scostando la tenda di plastica, salutò il barista con una voce che gli parve di un altro e ordinò un caffè macchiato mentre osservava la propria immagine riflessa dal grande specchio dietro il bancone.
A parte lui e il barista, il locale era deserto. Si guardò attorno nervosamente fino a che il tintinnare della tazzina sul piattino lo fece sobbalzare. Mentre beveva il caffè si chiese come avesse fatto a non vederla prima: c'era un'apertura nel muro che dava su una seconda sala, indicata da una targa verde come Sala giocatori
. Pagò il caffè con gli spiccioli che aveva in tasca e disse: «Vado solo di là un attimo» mentre il barista alzava un sopracciglio con aria desolata.
La sala giocatori, debolmente illuminata dalla luce di una porta a vetri affacciata sul cortile, conteneva un biliardo, alcuni tavoli da gioco e pochi altri arredi. All'unico tavolo occupato della stanza erano seduti quattro giocatori impegnati in una mano di scopa. L'uomo di cui era in cerca aveva appena appoggiato il suo cappotto blu sull'appendiabiti a parete e fumava, in piedi, forse attendendo che si liberasse un posto al tavolo da gioco.
I giocatori, dopo aver lanciato uno sguardo distratto verso il nuovo arrivato, tornarono a concentrarsi sulle carte che avevano in mano e sulle loro combinazioni. Solo l'uomo in piedi, levatasi la sigaretta di bocca, rimase a fissarlo.
Lantero si avvicinò al tavolo da gioco e rivolto all'uomo in piedi disse: «Le posso parlare?»
L'uomo prese il cappotto blu dall'appendiabiti, fece un cenno ai giocatori di carte, indicò l'apertura verso la sala principale e vi si avviò. Uscito dal bar, gettò a terra la sigaretta fumata a metà e, chiudendosi tutti i bottoni del cappotto, attraversò la strada per raggiungere Lantero che nel frattempo aveva riguadagnato la sua posizione sul lato al sole della via.
«La faccio breve, — disse Lantero mentre l'uomo col cappotto blu saliva sul marciapiedi, — so che è stato lei.»
«Non la seguo» disse l'altro muovendo di scatto le labbra dietro i baffoni ingialliti dalla nicotina.
«Quella povera ragazza, dieci anni fa» disse Lantero.
Poi, siccome l'uomo col cappotto blu non dava segni di aver inteso, estrasse di tasca due fotografie in diverso formato. La più grande, scovata quindici giorni prima sul fondo del cassetto del comò, ritraeva i lavoratori di un cantiere, in posa per una foto ricordo. Guardavano tutti la fotocamera con fare impettito, cercando di sembrare più alti di quello che erano.
La più piccola invece proveniva dalla busta gialla della polizia. Quella su cui qualcuno aveva scritto una data. Leggere quei numeri scritti a matita era stato come veder sbattere una finestra riaperta da un'improvvisa folata di vento. Un vento antico che pensava di aver chiuso fuori per sempre e che viceversa ora si ripresentava all'uscio. Era ben deciso a lasciarla spalancata quella finestra, fino a che il vento si calmasse una buona volta o fino a che lui stesso ne fosse trascinato via per sempre.
«Si riconosce, ingegnere?» disse sventolando la foto più grande e tenendo il pollice premuto sulla figura defilata sulla destra, un omone con dei giganteschi stivali da pesca ai piedi.
L'uomo col cappotto blu prese entrambe le fotografie con le sue manone, le osservò senza mostrare particolare interesse e fece per restituirle al professore.
«Le tenga pure, sono solo delle copie» disse Lantero.
L'uomo col cappotto blu infilò le fotografie in tasca, ne estrasse un accendino e un pacchetto di Muratti Ambassador, si accese una sigaretta e disse: «Tutto quello che sapevo l'ho già detto alla polizia.»
«Non creda di cavarsela in quel modo. Mi basterebbe fare visita alla questura per procurarle dei grossi fastidi.»
L'uomo col cappotto blu si limitò a fissarlo coi suoi occhietti sottili come due fessure mentre con le guance spingeva fuori il fumo dell'ultima boccata.
«A meno che...» disse Lantero fermandosi per una pausa.
L'uomo col cappotto blu buttò a terra la sigaretta appena cominciata, la spense schiacciandola sotto la suola di una scarpa e infilò le mani in tasca, apparendo ancora più massiccio.
«...A meno che — riprese Lantero scandendo le parole, — lei non mi spieghi per filo e per segno come diavolo avete fatto a domare quella bestiaccia.»
Bestiaccia l'aveva chiamata, sperando con quel termine di creare una sorta di complicità con l'ingegnere. E invece nulla. L'altro non aveva più aperto bocca, tanto che lo si sarebbe potuto credere di granito, se solo non fosse stato per le nuvolette che ogni tanto gli uscivano dalle narici. A Lantero non era rimasto altro che fare dietro-front accompagnando il commiato con una lagna di vaghe minacce pronunciate con l'indice puntato e a voce alta, tanto per non dare l'impressione che fosse finita lì.
Poi aveva trascorso il resto della giornata passeggiando inquieto per le vie di Vercelli ed era andato a dormire appena fattosi buio, senza peraltro riuscire ad addormentarsi. Per tutta la nottata non aveva potuto far altro