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Le stanze delle ombre
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Le stanze delle ombre
E-book218 pagine3 ore

Le stanze delle ombre

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Info su questo ebook

Horror - racconti (191 pagine) - Le camere d’albergo sono piene di fantasmi...


Undici racconti ambientati nelle stanze di un albergo… Incontrerete corpi trasformati, opere d’arte oscure, creature antiche, supplizi di carne e sangue ma anche storie di solitudini e ricordi. Un nuovo modo di raccontare l’orrore esistenziale, che spalanca le stanze dell’uomo, quelle chiuse a chiave, senza luce.


Stefano Cucinotta è nato a Como nel 1985. Vive e lavora a Milano come Direttore Creativo di un’agenzia pubblicitaria. È da sempre avido consumatore di storie di paura, in qualunque forma. Le Stanze delle Ombre è la sua seconda raccolta di racconti.

LinguaItaliano
Data di uscita10 ott 2023
ISBN9788825426366
Le stanze delle ombre

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    Anteprima del libro

    Le stanze delle ombre - Stefano Cucinotta

    Dietro i vetri, nella sera d’inverno,

    probabilmente noi rimarremo muti,

    io perdendomi nelle favole morte,

    tu in altre cure a me ignote.

    Io chiederei Ti ricordi?, ma tu non ricorderesti.

    Dino Buzzati, Inviti superflui

    Così so

    come si sentono i morti

    pensati dai vivi.

    Michele Mari, Cento poesie d’amore per Ladyhawke

    Tutte le prossime camere

    Fu sera.

    La donna e la ragazzina si fermarono davanti all’albergo. L’avevano visto tante volte da fuori: una misera facciata sopravvissuta a troppe vite, i colori dell’insegna che non erano più neanche colori, il nome difficile da pronunciare. La donna lo ripeté a bassa voce come se dovesse prepararsi per un esame. Sua figlia non alzò neanche lo sguardo. L’intero edificio era incastrato tra due palazzi, come se ci fosse cresciuto in mezzo, una specie di parassita di cemento e intonaco grigio di smog. Era difficile immaginarne un’età dell’oro: sembrava essere stato progettato così, come contenitore di tristezze di una notte. Com’era quella parola, in italiano? Disperazione. Era una parola che non le piaceva, la scacciò, spinse la porta.

    Dentro: la moquette che era stata rossa, stinta vicino al bancone di finto marmo, la luce cruda, niente ombre, i quadri brutti e le pareti gialle. Forse una radio accesa, o una tv nascosta.

    Non c’era nessuno al banco. Si passò una mano sulla fronte lucida, preparò un sorriso. La ragazzina di fianco a lei si guardava le mani in silenzio. Attesero nel ronzio delle luci e nella musica venuta fuori da chissà quale tempo di quel Paese. Come se capitasse di lì per caso, un uomo spuntò da una porta e si avvicinò al banco strisciando i piedi. Era di mezz’età, piuttosto basso e grasso, con pochissimi capelli incollati all’indietro sulla testa sudata. Aveva un odore forte di fritto. Non rispose al sorriso.

    – Una camera per una notte – disse lei, forzando l’italiano.

    L’uomo fece una smorfia e annuì, guardandole troppo a lungo. Prima la donna, dalla pelle scura e l’espressione stanca, poi l’enorme zaino Invicta che portava su una spalla, poi la ragazzina che stava con lei, che poteva essere la figlia e non aveva neanche alzato lo sguardo. Era sudata, i capelli raccolti in due trecce che ormai erano ridotte a poco più di un’idea, e si massaggiava la pancia come se le facesse male.

    – Cos’ha sua figlia?

    La donna si sistemò lo zaino passando i pollici sotto le bretelle consumate. – Niente, sta bene – disse e sorrise di nuovo. L’uomo la squadrò. Lei conosceva bene quello sguardo: a volte era la premessa per commenti o insulti, più spesso si esauriva così, carico di giudizi. Questa era una di quelle volte. L’uomo non parve soddisfatto. Si mise a cercare dei fogli con una lentezza esasperante. Fuori era quasi buio. La donna guardò l’orologio sulla parete. Sentì la ragazzina soffocare un gemito e si affrettò a fare rumore con i piedi.

    L’uomo però la stava guardando di nuovo, i fogli fermi a mezz’aria. – Non voglio problemi. Capisci cosa intendo? Non è che siete drogate o quelle cose lì.

    Lei si prodigò in un sorriso e una scrollata di spalle. – No, no – si affrettò a dire, arrossendo a nascondere la rabbia e l’imbarazzo. Poi fu il momento dei documenti e della penna che non scriveva bene. Lui ne trovò un’altra in un cassetto, con il Duomo stampato sopra. Lesse il suo nome, lei lo corresse, lui lo lesse di nuovo, sbagliato. Lei non disse più nulla. Sulla parete dietro alla reception c’era un quadro con una veduta di una città di notte. Poteva essere quella stessa città, ma la donna non la riconobbe: tutta l’immagine era sfocata, le figure indistinte sulla strada come spettri, la luna alta nel cielo color pece, l’idea grossolana di palazzi e lampioni. D’improvviso seppe di non aver più molto tempo.

    Pagò con le uniche due banconote rimaste nel portafoglio di tela, e lui se ne accorse. Non fece neanche lo sforzo di nascondere il fastidio mentre le allungava le chiavi della stanza. Le appoggiò sul banco, ignorando la sua mano protesa.

    La donna sfiorò il braccio della ragazza, mormorò un grazie e la condusse verso una rampa di scale che aveva già adocchiato. Sentì lo sguardo dell’uomo sulla schiena e – ne era sicura – sul corpo della ragazza. Si affrettarono su per le scale, seguendo la moquette rossa fissata dalle barre di ottone. L’edificio sembrava vuoto: tre piani identici di porte chiuse e macchie di umidità sulle pareti, con un odore pungente di disinfettante che si mischiava a quello peggiore delle cose che escono dagli uomini. Ma andava bene. Da quant’era che non dormivano in una camera tutta per loro? Al centro di accoglienza l’ultima volta erano state in stanza con altre quattro ragazze, ed era andata avanti così per due settimane. Non era semplice, non lo era mai stato. In effetti la donna non ricordava l’ultima cosa semplice che le fosse capitata nella vita. Anche i ricordi felici dell’infanzia fatta di sole e di polvere a un milione di chilometri da lì erano ormai un terreno che sconfinava dal mondo dei ricordi a quello dei sogni, come se quella vita non le appartenesse più. Quando aveva avuto la sua bambina, tredici anni prima, era già in quel Paese, e le cose sembravano finalmente andare meglio. Aveva appena trovato un lavoro e un uomo, o almeno credeva… prima di scoprire di essere incinta. Come per magia proprio in quel momento lui si era accorto che quella specie di relazione non era una vera relazione, e tutto sommato sua moglie non era poi così male. Da allora lei se l’era cavata da sola. Era una solitudine diversa: ne aveva sperimentate parecchie in trentadue anni, tutte quelle che una donna come lei doveva mettere in conto. La solitudine della pelle. La solitudine della lingua. Quella di città o di nazione. La solitudine del dolore, persino quella della gioia, per poco, pochissimo tempo. Quella dell’abbandono. Infine, la profonda solitudine della gravidanza. Aveva pensato di abortire, era stata a un passo dal farlo. Poteva andare in ospedale, un lusso che qualche anno prima sarebbe stato pura fantasia, o evitare medici e scartoffie e fare come aveva visto fare tante volte al villaggio, quando era piccola, con i ferri e con il fuoco. Se ci fosse stata qualche complicazione, al massimo avrebbe messo la parola fine a tutta quella brutta storia che era la sua esistenza. Ma come diceva sempre sua nonna? Vince la vita. Che era un modo saggio di dire: se vuoi sopravvivere muovi il culo, perché nessuno lo farà per te. Aveva imparato a farlo, e poi aveva provato a insegnarlo a sua figlia. Un pezzetto alla volta, come il cibo quand’è buono. Quella sera avrebbero avuto un tetto sopra la testa e sarebbero state al sicuro. Inspirò l’aria stantia del pianerottolo come se fosse arrivata in cima a una vetta e per un istante fu felice, o qualcosa del genere. Poi si ricordò dell’ora.

    Quando girò la chiave nella serratura della stanza, si accorse che sua figlia era rimasta qualche passo indietro nel corridoio. Si era irrigidita ed era un po’ curva in avanti. Le sembrò bellissima e fragile, troppo magra e alta per la sua età, come un puledro ancora incerto sulle gambe, i lineamenti da animale selvaggio, gli occhi scuri, enormi e profondi come i suoi.

    – Siamo arrivate – le disse.

    La fece entrare nella camera e cercò l’interruttore della luce. La stanza era un buco di moquette e fòrmica. C’era un letto con un lenzuolo ingiallito e una coperta cenciosa ripiegata di lato, un paio di comodini, una piccola scrivania e un braccio metallico a cui era aggrappata una vecchia tv che minacciava di crollare a terra alla prima vibrazione. La ragazzina si sedette subito sul letto, che le rispose con un cigolio, poi chiuse gli occhi e si distese, mentre la donna accendeva tutte le luci, anche nel bagno minuscolo. Si fermò a fissare la doccia con il piatto di ceramica sbeccata, e le sembrò la cosa più bella del mondo. Diede solo un’occhiata fugace al proprio riflesso nello specchio. Quello che vide non le piacque.

    Sua figlia sembrava addormentata, ma lei sapeva che non era così. Dalla finestrella intravedeva la facciata di palazzo slavata di grigi, gli angoli di tetti incastrati e sovrapposti, un solo spicchio di cielo. Non era ancora notte, ma non mancava molto. Tirò la tenda e gli oscuranti.

    – Come stai? – chiese alla ragazza. Le rispose con una specie di grugnito e si voltò su un fianco.

    La donna aprì lo zaino. Quante volte era successo prima di allora? Quante volte sarebbe successo di nuovo, prima che la ragazza, quella creatura che aveva visto minuscola affacciarsi al mondo, decidesse che fosse giunto il tempo di andare per la sua strada, lasciandola sola? Sarebbe stato un nuovo grado di solitudine, dopo tutti gli anni, e tutto quell’amore speso. Si sentì di colpo svuotata e stanca e debole. Avrebbe voluto solo sdraiarsi lì con lei e dormire per tutta la notte e il giorno successivo, senza preoccuparsi di essere aggredita o rapinata, completamente abbandonata agli ultimi brandelli di sogno di un Paese che forse non esisteva neanche più.

    Invece frugò nello zaino ed estrasse la corda, le pinze e una confezione di rasoi usa e getta, che aprì, gettando la scatola a terra. Li dispose tutti e dieci sulla piccola scrivania, come nella versione di plastica di una sala operatoria. La ragazza si era messa in piedi, malferma sulle gambe. Si stava slacciando i jeans e se li abbassò fino a metà coscia, insieme agli slip. Per un attimo, entrambe guardarono il sangue scuro sull’assorbente. Dalle pareti venivano suoni di risate e chiacchiere, probabilmente da una tv accesa. Qualcuno urlò qualcosa, ancora più lontano, forse fuori, poi fu di nuovo silenzio.

    La ragazza finì di spogliarsi e gettò i vestiti su una sedia, mentre sua madre preparava la corda. Ne osservò il corpo sottile e perfetto con un misto di orgoglio e paura. Sua figlia evitò il suo sguardo, il viso imbronciato lucido di sudore, le occhiaie profonde da insonne. Le tese i polsi congiunti, e si fece legare. Poi fece lo stesso con i piedi. Erano nodi laschi, inesperti. Sua madre si sedette di fianco a lei, e iniziò a sfilare un cuscino da una federa.

    – Farà ancora male?

    La voce della ragazza, seppur ridotta a un sussurro, la fece voltare. La guardava negli occhi, ora, uno di quegli sguardi che non lasciavano spazio alle bugie, e seccavano le parole in gola. Le accarezzò il viso e di nuovo tutta la fatica degli ultimi anni sembrò crollarle addosso come un manto troppo pesante da indossare. Le si riempirono gli occhi di lacrime ma si sforzò di sorridere. Chissà che spettacolo grottesco doveva essere per sua figlia. Annuì appena, niente bugie, ma la ragazza aveva già capito e aveva distolto lo sguardo. Non stava piangendo, non lo faceva mai. – Almeno raccontami qualcosa – le disse.

    La donna la coprì con il lenzuolo fino alle spalle. Non sarebbe servito, come d’altronde neanche le corde e i doppi nodi, ma non voleva lasciarla così scoperta. Prese la federa, la piegò, la arrotolò e gliela appoggiò sulle labbra. La ragazza le aprì, in un gesto quasi automatico, e la donna le infilò il panno in bocca. Infine si sedette a terra, sulla moquette ruvida.

    – Quando ero piccola – disse, scegliendo le parole con cura – mia nonna mi raccontava sempre una storia. Ero molto più piccola di te e… forse te l’ho già raccontata, no?

    La ragazza non rispose, d’altronde non avrebbe potuto, e si mosse appena. Aveva preso a respirare in modo più profondo, come se stesse per addormentarsi.

    – Ero molto più piccola di te ora. Vivevamo tutti insieme, io, i miei fratelli, mamma, papà e nonna. Spesso la sera mi raccontava le storie… non le fiabe vere: se le inventava lei. A volte non sapeva come andare avanti, o si addormentava prima del finale. La mia storia preferita era quella della lepre e della Luna.

    Qualcosa sembrò cambiare nell’aria calda della stanza, come l’elettricità che carica prima di un temporale. I muri vibravano di passi scalzi e di voci. La donna spense la luce, e accese quella molto più fioca e calda della lampada sul comodino. Sfiorò con la punta delle dita un fianco della ragazza, che si ritrasse come scottata. Il respiro stava crescendo d’intensità. Era madida di sudore e il suo odore speziato stava riempiendo l’aria già satura.

    – È una storia successa molto tempo fa. La Terra era ancora giovane, e gli uomini e le donne dovevano ancora imparare tutto sulla vita. La Luna, che muore e nasce ogni quattro settimane, una notte si mise a parlare con una lepre. Devi dire una cosa agli uomini, le disse. Come io nasco, muoio e rinasco, così devono fare loro. Moriranno e rinasceranno e saranno nuovi.

    La ragazza si contrasse di scatto, soffocando un grido nella federa appallottolata. Prese a scuotersi, cercando di strapparsi di dosso il lenzuolo. Il corpo era scosso dai brividi e così sudato da riflettere la luce della lampada. La schiena si arcuò all’indietro e poi scattò in avanti, in posizione fetale. Perdeva sangue tra le gambe, e il coprimaterasso si era già sporcato. Sua madre la guardava, immobile, rannicchiata a terra. Da quel momento in poi, lo sapeva, non poteva fare più nulla per lei. Alzò un po’ la voce, per coprire i gemiti e i gorgoglii e le parole soffocate.

    – Ma la lepre era distratta, e aveva una cattiva memoria. Quando andò tra gli uomini si confuse e disse loro Come io muoio e non torno più in vita, così farete anche voi: morirete da uomini e non rinascerete.

    Iniziarono le convulsioni. La ragazza si scosse talmente forte da girarsi verso di lei. Aveva gli occhi rivoltati all’indietro, a mostrare il bianco della sclera. I muscoli delle gambe si stesero e si contrassero, si sentì chiaramente lo schiocco delle ossa, come quello di legni spezzati. La donna si impose di continuare a guardare, mentre i lineamenti del viso di sua figlia si deformavano, il teschio si allungava tendendo la carne, il naso si ritraeva in un grumo scuro e umido. Doveva guardare. Doveva farlo per lei. Sapeva che se si fosse scostata per il disgusto, sua figlia lo avrebbe saputo e si sarebbe sentita ancora più sola, si sarebbe smarrita nel dolore delle nuove forme, forse sarebbe addirittura impazzita e non sarebbe più tornata da lei. La bocca che non era più una bocca si spalancò in un grido stridulo, e la federa macchiata di sangue e saliva scivolò sulla moquette alla base del letto, insieme a qualcos’altro che rimbalzò poco lontano. La donna si affrettò a raccogliere i denti, che avvolse nel tessuto, mentre quelli nuovi scavavano il loro spazio nelle gengive viola, protese in avanti. Erano più numerosi, più bianchi, affilati, zanne che non avevano ancora conosciuto l’usura dei morsi e degli strappi, il rito meccanico del masticare prima di inghiottire. Le fauci schioccarono un paio di volte, schizzando perle di saliva. I muscoli si gonfiarono di sangue sotto la pelle spessa delle spalle, divaricando le scapole, tendendo la spina dorsale che si curvava a reggere la struttura nuova. La cassa toracica si spalancò e un verso smorzato ne rotolò su fino alla gola. Come previsto la corda cedette e la cosa che era stata una ragazza si mise a quattro zampe sul letto, scalciando con gli arti posteriori, liberandosi infine, incompleta ma già fiera, mentre gli organi trovavano nuovi spazi nel ventre, le dita di mani e piedi si atrofizzavano e le unghie venivano scalzate dagli artigli.

    La donna si alzò in piedi. Il materasso era fradicio di fluidi e sangue, il bianco dei tessuti inzuppato di macchie vischiose. La creatura si scrollò, spruzzando saliva dal muso prognato, mentre il pelo era già spuntato quasi ovunque, scuro e spesso, così fitto sulla schiena che in pochi secondi la pelle scomparve. Tossì fuori un grumo nero, mentre le ultime cartilagini si tendevano e lo scheletro finiva di assemblarsi in nuove geometrie. Infine ristette, respirando rumorosamente nell’atmosfera torrida e densa, e si voltò verso la madre, gli occhi screziati di giallo in quelli neri di lei. La donna controllò l’orologio. C’era un po’ di tempo. Lasciò che si muovesse negli spazi squallidi della stanza, urtando i mobili scadenti, annusando e strofinando il muso negli angoli, schizzando la moquette di urina. Pensò di aprire la porta e farla correre fuori, farla finita una volta per tutte con quel misero squarcio di libertà chiusa tra pareti di cartone. Le avrebbe fatto seguire il suo istinto, come la nonna tanto tempo prima. Proprio lì, però, l’immaginazione fermava di colpo la sua cavalcata. Ricordava sua nonna, la prima volta che l’aveva vista nutrirsi. Qualcuno le aveva portato uno dei bambini di strada, quelli che sembravano spuntare in mezzo alla polvere e non appartenevano a nessuno. La donna a quel tempo era ancora una bambina, forse solo di un paio d’anni più grande di quel poveretto che avevano legato a una radice in cortile. La nonna – la cosa che era diventata – lo aveva raggiunto in due salti, si era sentito uno schiocco, poi più nulla, se non lo strappare e il masticare. La mattina dopo aveva aiutato a lavare via il sangue con un secchio. Non ne aveva mai visto così tanto. Poi però le cose si erano messe male. I bambini e gli animali sparivano ogni

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