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Zibaldone Norvegico
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E-book351 pagine4 ore

Zibaldone Norvegico

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Info su questo ebook

Prefazione di Angelo Ferracuti
Nota di Mauro F. Minervino

«Scelsi la poesia lasciando perdere tutto il resto, vivo in Norvegia dal 1957, la mia lingua quotidiana è il norvegese, la lingua italiana l’ho adoperata completamente per scrivere. Il vangelo adoperato come poetica. Mia moglie ha avuto quattro figli avendo una vagina particolarmente esplosiva, dopo lavorato in fabbrica mi rinchiudevo in una cameretta e mi preoccupavo solo della scrittura ... il sottoscritto poeta è tanto delinquente che se la ride di tutto il nostro male ... Corpi di reato reperibili: Poesie blasferiche e tutte sgraffigniate».


Se c’è una cosa che più di tutte è riuscita a Luigi Di Ruscio è mettere in difficoltà non solo i suoi lettori, ma anche i critici, persino gli studiosi che più di altri lo hanno sostenuto e apprezzato ... Come capita in tutti gli autori classici ha continuato a scrivere sempre lo stesso libro approfondendo gli identici temi.
ANGELO FERRACUTI


Di Ruscio è stato il poeta ruzzante di un corpo titanico mai separato dalla vertigine dell’anima e dalla materiale quotidianità dell’esserci per la vita, fino alla morte. La sua ostinazione etico-politica, il suo comunismo fragorosamente poe- tico, unito alla sua olimpica trascuratezza per le strategie letterarie, hanno fatto il resto.
MAURO F. MINERVINO
LinguaItaliano
Data di uscita8 apr 2014
ISBN9788868221782
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    Anteprima del libro

    Zibaldone Norvegico - Luigi di Ruscio

    Collana

    Itaca Itaca

    diretta da Mauro F. Minervino

    Luigi Di Ruscio

    ZIBALDONE NORVEGICO

    Prefazione di

    Angelo Ferracuti

    Nota di

    Mauro F. Minervino

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2014

    ISBN: 978-88-6822-178-2

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. 0984/795065 - Fax 0984/792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Prefazione

    Le realtà scatenate

    Luigi Di Ruscio è sicuramente una delle figure di scrittore italiano di fine novecento più affascinanti e autentiche. Nato nel 1930 da una famiglia proletaria, cresciuto nel ventre dei vicoli lumpen di Fermo, nelle Marche più claustrofobicamente papaline, militante di base nel PCI di Palmiro Togliatti, muratore, fotografo di matrimoni, dopo una prima esperienza lavorativa in Francia emigra nel 1953 a Oslo dove va a fare l’operaio metallurgico in una fabbrica che produce chiodi, la Christiania Spigerverk. Nella fabbrica fordista, quella del Chaplin di Tempi moderni, ci resterà per 37 anni lavorando sempre nello stesso reparto, e una volta dismessa la tuta da lavoro, tutti i giorni, domeniche comprese, prenderà servizio come scrittore in una piccola stanza d’appartamento di un palazzo delle case popolari della capitale norvegese, in via Aasengata 4c. Partendo porta con sé in Scandinavia il suo primo libro di versi, prefato dal giovane critico Franco Fortini, e le antologie più importanti dell’epoca dove hanno trovato posto anche le sue prime prove, come La giovane poesia di Enrico Falqui: "Quando sono emigrato avevo nello scatolone tre libri: la Divina Commedia, la grossa Antologia della poesia italiana del dopoguerra edita nel 1956 dove erano raccolte anche le mie poesie e avevo con me anche Non possiamo abituarci a morire la mia prima raccolta del 1953. (Ultime pagine dedicate a mia moglie").

    Continuo caso letterario, apprezzato da Salvatore Quasimodo, Majorino, Porta, ripescato da ogni nuova generazione di scrittori ma mai scoperto veramente, continuò a scrivere nonostante i continui rifiuti editoriali, che furono moltissimi (Einaudi, Feltrinelli, persino Adelphi) affidando raccolte di versi e libri di prosa soprattutto a piccoli editori. Di sé, di questa sua condotta solitaria di Scriba assoluto, scrisse: Ho letto in qualche parte che gli intellettuali si dividono in due parti, in talpa e lepre. La talpa scava il suo buco imperterrita, la lepre vola da tutte le parti. La talpa nel suo buco e con pazienza lo scava, scava sempre lo stesso buco cerca le ultime conseguenze, va verso lo sprofondo (…). Io veramente vorrei essere sempre più talpa. Joyce è la talpa quasi perfetta, la lepre quasi perfetta è D’Annunzio o Petrarca, la talpa perfetta è Dante. Per le lepri ho avuto sempre un grande schifo.

    In tutte le sue opere cita sempre gli stessi libri, che ha letto e continuato a rileggere per anni: "La mia formazione coincise con la prima edizione delle Lettere dal carcere di Gramsci e affabulavo sull’antologia di Anceschi chiamata Lirici nuovi e comperavo Il mestiere di vivere e il Lavorare stanca nelle prime edizioni e vedevo i Ladri di biciclette e Roma città aperta per la prima volta (in La formazione), un frammento del romanzo Palmiro inserito anche in questo zibaldone che esce postumo come autocitazione, e poi, confessa nel breve appunto intitolato Volponi, dove sviscera il suo da sempre difficile rapporto conflittuale con il grande scrittore urbinate: "Ho amato la Divina Commedia, le grandi poesie di Leopardi, I sepolcri di Foscolo e i sonetti del Belli, dei contemporanei le prime raccolte di Montale, la prima di Ungaretti (…). Gli ultimi libri italiani che ho comperato sono i libri di Sbarbaro editi da Garzanti, le opere italiane di Giordano Bruno e la biografia di Zangrandi."

    Dal 1953, anno del suo esordio poco più che ventenne con Non possiamo abituarci a morire (Schwarz), fino alla quarta ristampa del Palmiro (Ediesse, 2011, con una nota di Massimo Raffaeli, il critico che lo ha sostenuto da sempre studiandolo in maniera profonda), molto probabilmente il suo capolavoro, avvenuta a un anno dalla morte, la sua macchina macina-parole, come la definì un suo recensore, produsse dieci opere in poesia, cinque in prosa, alcune traduzioni, soprattutto da Ibsen, lasciando non pochi inediti. Come questo Zibaldone norvegese, che non è una raccolta di racconti, come non è un diario, oppure un romanzo di appunti, ma è fatto di blocchi narrativi chiusi in se stessi, autosufficienti, frammenti eccentrici che l’autore ha continuato a spostare e innestare da un libro all’altro della sua prosa lavica per tutta la vita in una sorta di continuo depistaggio. Riscrivendoli, cancellandone parti, riciclandoli di continuo e giustapponendoli al modo dei surrealisti. Se c’è una cosa che più di tutte è riuscita a Luigi Di Ruscio è mettere in difficoltà non solo i suoi lettori, ma anche i critici, persino gli studiosi che più di altri lo hanno sostenuto e apprezzato. In lui la nozione di inedito, infatti, è una pura convenzione, in quanto come capita in tutti gli autori classici ha continuato a scrivere sempre lo stesso libro approfondendo gli identici temi. Anzi, due grandi libri, uno di versi e l’altro di prosa. La spiegazione di queste due diverse opzioni la esprimeva così: «La poesia va per le corte e la prosa per le lunghe (…). Rispetto alla poesia, nella prosa si può passare più facilmente dal tragico al comico, si possono fare dei salti; nella poesia, invece, è tutto quanto più raffreddato. Oppure è cosi: quando una cosa viene molto bene, resiste da sola, è autosufficiente, quella è poesia; quando una cosa invece non resiste da sola e c’è bisogno di una discussione, di una spiegazione, quella invece e prosa».

    Ma anche in questi blocchi, come in ogni piccola scheggia narrativa, un bit, un atomo, una minuscola porzione di dna, persino negli scarti di altri libri e altre scritture, c’è tutta la sua letteratura in vitro, la potenza espressiva e la continua accelerazione verbale che somiglia all’ingranaggio di una macchina, un congegno che non si arresta mai e continua a stressare un moto verbale anche negli stati d’inerzia, e in questo continuo lavorio c’è l’ossessività alienata che spesso dalla fabbrica si trasferisce nella vita.

    La prosa di Di Ruscio è anche molto materica, corporale, eversiva. Combatte persino se stessa, le proprie ovvietà, le regole che si è data. Come spiega benissimo lui stesso in Brodo comico: Ero proprio disposto a credere all’incredibile nonostante tutta la mia miscredenza e continuavo a sbagliare non chiarire ma chiarore, non consumismo ma comunismo, non trapanò ma trasformò, non strusciammo ma uscimmo, non al dente ma ardente, non sfociate ma sfasciate, non le bozze ma le botte, non errore ma orrore, non io ma Iddio, non parodia ma poesia, non sbaglio ma bavaglio, non la fine del mimmennio ma del millennio, non cassate ma cazzate, non la processione del porco d’Iddio ma del corpo d’Iddio.

    Il flusso di coscienza che usa ha una sua evidente discendenza joyceana, ma in quello che scrive non manca neppure una parentela linguistica con Céline, colta anche da Italo Calvino, il quale in una lettera del 1968, scrive che gli ricorda lo scrittore francese per la volontà di scaricare nel flusso delle parole una cupa aggressività; una fratellanza con la lingua spericolata del praghese Blumir Hrabal, e col suo conterraneo Jaroslav Hašek autore dell’irriverente e comico Il buon soldato Sc’vèik e, contrariamente a tanta prosa della neoavangurdia, sterilmente e cripticamente intellettualistica, i verbali di questo scrittore marchigiano hanno un effetto di verità travolgente e grondano di realismo. Sicuramente anche certi procedimenti delle avanguardie storiche, soprattutto del surrealismo, se non altro come tecnica espressiva, possono averlo influenzato, quel meccanismo dell’ispirazione di cui parlava Max Ernst, o il metodo spontaneo di conoscenza irrazionale, fondato sull’oggettivazione critica e sistematica delle associazioni ed interpretazioni deliranti di cui scrive Salvator Dalì. Fatto sta che la prosa di Luigi Di Ruscio, quella del Palmiro, di Cristi polverizzati, Le mitologie di Mary e La neve nera di Oslo avanza e cambia passo, cioè deraglia quando un vocabolo cardine di una frase casualmente apre a una nuova visione e porzione di senso, spiazzando continuamente il lettore. Si tratta proprio di quella letteratura jazzata di cui parla Andrea Cortellessa nell’introduzione a Cristi polverizzati. E il meccanismo di visioni, apparizioni, nuove digressioni, è fortissimo e sembra quasi autoalimentarsi. Così questa massa esuberante di parole sempre sul punto di esplodere, un organismo verbale dinamico, dinamitardo, incarnano alla perfezione tutti i temi che lo scrittore sviscera: la lotta per la sopravvivenza nel duro lavoro della fabbrica, quelli con i fantasmi della religione cristiana, l’assurdità di essere al mondo, la scrittura, la letteratura come condizione assoluta ed esistenziale, l’autobiografia che diventa biografia di classe, la sua condizione un privilegio di una epoca e di una epica, quella operaia: La mia poesia non è un momento privilegiato, è tutto il mio scrivere che è un momento privilegiato. È un privilegio anche nel senso storico, senza la settimana corta, senza la mia paga oraria che mi fa comperare libri, non avrei potuto scrivere, come se dicessi che senza gli scioperi a oltranza che ha fatto la classe operaia norvegese negli anni trenta non avrei potuto avere questo privilegio. Senza l’avanzata della classe operaia occidentale non avrei potuto scrivere".

    La lingua che adopera è anche quella ibridata, gergale, usa il dialetto e gioca a creare malintesi col refuso o l’errore ortografico, miscela il dialettale all’aulico, e proprio quando sembra avere una caduta rinasce dalle sue ceneri con una invenzione lessicale che la riporta miracolosamente in quota.

    La Storia entra anche quella prepotentemente dentro il periodiare, soprattutto l’eroicomica piccista, già ampiamente esplorata in Palmiro, così come improvvisamente, mentre il farsi della scrittura avviene, l’autore batte i tasti della sua Olivetti lettera 32 meccanica con virulenza, le presenze interne alla casa, i rimproveri della moglie Mary o il pianto di un figlio appena nato, i ricordi che vengono dalle stanze e dalle voci intorno si mischiano in una presa diretta assoluta con un effetto di verosimiglianza travolgente. Uno degli aspetti della Storia che più interessano Di Ruscio è il tramontare di tutti i comunismi guardati da una prospettiva cimiteriale, dai funerali di Togliatti ai finerali di Berlinguer: Mi credevo specialista in marxistologia e anche in stalinologia, però essendo emigrato, avevo solo vaghe notizie dello svolgersi dei più grandi funerali mondiali (in Finerale - Comunista stellare).

    Ma il lavoro della scrittura diventa anche autoanalisi e discorso metaletterario: In tutte le ore che ho avuto a disposizione non ho fatto che scrivere, cancellare e riscrivere creando un garbuglio un labirinto da cui non riuscirò mai ad uscirne fuori (in Confessione). Oppure Uno sta a casa lontano da tutto scrive tutto quello che gli passa in testa e poi quando la cosa riesce stranamente a diventare pubblica uno si mette paura (L’ultima raccolta). E ancora in Punto fisso: Credevo che lo stile dipendesse anche da scelte morali, pensavo ad uno che voleva scrivere come volevo scrivere io non poteva far altro che lavorare in fabbrica, persino il mio essere bilingue influirà sullo stile sciagurato, non guasta neppure la mia intelligenza dinamica, intuitiva che capisce immediatamente le cose oppure non capisce più niente anche se me lo spiegano per mille anni, uno stile formato da una complessità di eventi imprevedibili.

    A volte in alcuni racconti del quotidiano, mentre parla dei figli, oppure della moglie Mary all’improvviso arrivano alcune considerazioni sullo scrivere fulminanti: Una volta mio figlio mi chiese cosa fosse per me la poesia, non ho potuto dare risposta, gli dissi che per correre velocemente non è necessario conoscere la fisiologia della gamba, anzi senza sapere niente si corre meglio (in Mi fu chiesto).

    Un altro aspetto importante nella condotta letteraria di Luigi Di Ruscio è la condizione più che del migrante dell’esule, lo spatriato di cui spesso scrive. Nel brevissimo frammento intitolato L’erba chiarisce questo spaesamento, ma nello Zibaldone molte sono le considerazioni, gli appunti, le annotazioni dove lo scrittore emigrato in Norvegia si mette in relazione con gli extracomunitari italiani, il razzismo della Lega nord, i rigurgiti fascistoidi nella politica nazionale.

    Spesso riscrive cronache quotidiane, riadatta le narrazioni fasulle dei telegiornali, e il tentativo è quello di trasformare la notizia, il giornalismo di superficie, in una esperienza estetica. Sono le storie più trucide quelle che gli interessano, la cronaca nera, i morti ammazzati, le scene cruente, il marcio della nazione, con una particolare sensibilità e vicinanza per i disgraziati, i matti, gli spostati, oppure quelle che comunque contengono un humor sempre tragico di ritorno. In Internet precisa: Seguo gli avvenimenti italiani leggendo assiduamente i giornali, da queste letture ne ricavo una immagine spaventosa, soprattutto nella lettura delle cronache locali, certamente vedendo le cose da un altro punto di vista le cose potrebbero sembrare non così catastrofiche.

    Numerose sono le invettive contro la società letteraria del suo tempo, quasi un libro nel libro. La sua condizione assolutamente diversa di scrittore, cioè di uno che ha appena fatto le scuole elementari e ha studiato da autodidatta, fa diventare i suoi rapporti con i contemporanei, o anche con gli scrittori più giovani, soprattutto i poeti, sempre molto ambigui. Da una parte c’è ammirazione per effetto di una mancanza, da un’altra una distanza autistica, perché non li legge per paura di esserne condizionato, e da un’altra ancora una specie di rigurgito di classe che comunque gli conferma il suo essere diverso, nel senso di condizione esistenziale e di condizione sociale profonda. Esemplare e molto divertente la querelle raccontata nel capitoletto Einaudi editore: "Tutto a un tratto anche Einaudi si commuove per le pene poetiche del sottoscritto e quattro docenti di belle lettere voleva pubblicarmi, li nomino coraggiosamente tutti e quattro: Fortini, Siti, Berardinelli e Mengaldo mi fanno firmare il contratto, d’accordo per il titolo Firmum però non ero d’accordo con la scelta fatta dal professore di belle lettere Walter Siti. La scelta delle mie poesie da pubblicare devo farla io e non il Walter Siti, mi ero gonfiato, figuratevi un poeta da quattro soldi come il sottoscritto che rifiuta di pubblicare all’Einaudi".

    Come per quelli leopardiani, questi lacerti conservano un elemento di provvisorietà, e cioè sono momenti della vita personale dell’autore, cose viste o sentite, commenti lirici di notizie di cronaca nera o giornalistica di vita politica della nazione, rivisitazioni inclementi di tv spazzatura, tutto ciò che da sempre nutre dal di dentro la prosa visionaria del suo autore. Che Di Ruscio parli di ratti, una ossessione anche letteraria, che giustapponga gli animali agli uomini, gli animali a dio, con un tono abilmente dissacratorio, quello che non cambia è l’estrema eccentricità del dettato e la fedeltà a una lingua che non è mai pacificata.

    In Pascal, citando un brano da Le lettere provinciali, scrive un po’ il suo epitaffio: "Ho lavorato sulle infernali trafilatrici per anni 37 e tutto il mio tempo libero è stato sacrificato per scrivere. La mia poesia è stata per decine d’anni nella emarginazione totale. Anche ora la mia poesia vive in una situazione di semi clandestinità. La poesia mi ha dato il dono della diversità e cosa posso dire a certa gente? Solo questo: non occupatevi della poesia del sottoscritto. Tutto il credito di cui possiate godere è inutile nei miei confronti, non sapevo nulla dal mondo, non temo nulla, non voglio nulla, non ho bisogno grazie a Dio, né alla ricchezza né all’autorità di nessuno. Quindi, padre, sfuggo ai vostri lacci. Non riuscirete a prendermi, da qualunque parte tentaste di farlo".

    Ma come per ogni vero scrittore valgono le parole profondissime che Sebastiano Vassalli scrisse per un altro irregolare misteriosissimo, Dino Campana: Ma forse è proprio vero che i poeti appartengono ad una specie diversa, «primitiva», «barbara», da sempre estinta eppure sempre in grado di rinascere come quella dell’araba fenice. I poeti autentici, dico: non i letterati o gli scrittori di poesie, ma proprio quelli per mezzo dei quali la poesia parla. Gli unicorni, i mostri. Quei mostri di cui parlava Ibsen, tradotto e più volte citato da questo straordinario picaro marchigiano vissuto mezzo secolo tra i ghiacci polari: Vivere è la lotta con i mostri/nel profondo del cuore e del cervello/scrivere è tenere/ giudizio finale contro se stessi.

    Angelo Ferracuti

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    Bibliografia

    Non possiamo abituarci a morire, prefazione di Franco Fortini, Schwarz, Milano, 1953.

    Le streghe s’arrotano le dentiere, prefazione di Salvatore Quasimodo, Marotta, Napoli, 1966.

    Apprendistati, Bagaloni, Ancona, 1978.

    Istruzioni per l’uso della repressione, presentazione di Giancarlo Majorino, Savelli, Roma, 1980.

    Epigramma, Valore d’uso, Roma, 1982.

    Enunciati, presentazione di Eugenio De Signoribus, Stampa dell’arancio, Grottammare, 1993.

    Palmiro, presentazione di Antonio Porta, Lavoro Editoriale, Ancona, 1986; poi Baldini&Castoldi, Milano, 1996.

    Firmum, Pequod, Ancona, 1999.

    L’ultima raccolta, prefazione di Francesco Leonetti, Manni, Lecce, 2002.

    Le mitologie di Mary, LietoColle, Foloppio (CO), 2004.

    Poesie Operaie, prefazione di Angelo Ferracuti e Massimo Raffaeli, Ediesse, Roma, 2007.

    15 epigrafi con dedica, Battello Stampatore, Trieste, 2007.

    L’Allucinazione, Cattedrale, Ancona, 2007.

    L’Iddio ridente, prefazione di Stefano Verdino, editrice Zona, Arezzo, 2008.

    Cristi Polverizzati, prefazione di Andrea Cortellessa e Angelo Ferracuti, Le Lettere, Roma, 2009.

    La neve nera di Oslo, prefazione di Angelo Ferracuti, Ediesse, Roma, 2010.

    50/80 (con Angelo Ferracuti), presentazione di Massimo Raffaeli, Transeuropa, 2011.

    Memorie immaginarie e ultime volontà, Senzapatria, 2011.

    Palmiro, a cura di Massimo Raffaeli, Ediesse, Roma, 2011.

    Le sue poesie compaiono anche nelle antologie:

    Poesia e Realtà, a cura di Giancarlo Majorino, Savelli, Roma, 1977; poi Marco Tropea Editore, Milano, 2000.

    Poesia degli anni settanta, a cura di Antonio Porta, Feltrinelli, Milano, 1979-1980.

    Centanni di letteratura, a cura di Giancarlo Majorino, Liviana, Padova, 1984.

    Confessione

    Non ho mai giocato a pallone, a biliardo, poker, a tennis, golf, polo. Non ho giocato con i ferri di cavallo, guidato una macchina o la motocicletta, non ho mai assistito a un terremoto, ad un allagamento, ad un incendio o ad un tornado. Non ho mai subito disgrazie, non ho mai visto una corsa, raramente entrato in un Bar o Ristorante, ho assistito a cerimonie religiose solo nell’infanzia perché costretto dai genitori, mai sono stato derubato, non ho mai toccato una arma da fuoco e ho adoperato solo semplici coltelli da cucina e quasi sempre per affettare il pane, non ho mai subito aggressioni e mai sono stato morsicato da cani e mai punto da api o vespe, mai sono stato derubato e mai truffato o graffiato, mai sono stato avvelenato o assassinato, contagiato o impestato, non sono mai stato in una nave o in un aerostato o mongolfiera e non sono mai stato operato, non ho mai muggito una vacca, una pecora o una cagna. Non ho mai visto una corrida, un duello, ho parlato solo in italiano e in norvegese e letto sempre lo stesso tipo di libri, mai stato in un mulino, in una segheria e sono entrato in tribunale una sola volta e solo per pisciare, non sono mai svenuto o caduto da rompermi le ossa, non sono calvo e neppure zoppo e tanto meno cieco, da sessanta anni ho fatto l’amore sempre con la stessa donna, non sono mai stato carcerato o ricoverato in ospedale o in manicomio. In tutte le ore che ho avuto a disposizione non ho fatto che scrivere, cancellare e riscrivere creando un garbuglio un labirinto da cui non riuscirò mai ad uscirne fuori.

    L’INIZIO

    Tutto ebbe inizio con L’Avventuroso, poi non ci fu carta che non fosse letta, passaporti, carte annonarie e il lardo non mancò mai nonostante le carestie belliche, gli orchi rifabbricati, gatti e galli graziosamente armonici, sotto casa nelle ore più notturne dispute politiche ed etico calcistiche, sommosse improvvise con urla e stiramenti di nasi, essendo tutti responsabili della crocifissione di Cristo Re anche se non dovrei essere incolpato di delitti avvenuti tutti prima che io nascessi essendo io concepito sotto furiose libidini primaverili, un poeta dovrebbe battersi con tutta la classe e con tutti i denti anche se fortemente cariati, solidali con voi concentrati nei manicomi, sotto i lacci della camicia di forza o istupiditi dalla catena dei psicofarmaci, io che rifiutavo perfino le aspirine verrò cremato. Fummo sinistri e molto destri con la mano morta nelle resse metropolitane e dovetti scusarmi per tutto lo stupido istaurato dopo la mia nascita, avevo paura di proclamarlo morto perché se fosse ancora vivo si sarebbe incazzato, alla fine si scoperse che ero per la liberazione solo delle donne altrui, non esiste pavimento che mia moglie non abbia lavato, i pasti furono sempre mezzo bruciacchiati soprattutto quelli delle grandi festività religiose mentre il poeta riceveva rifiuti editoriali da tutte le parti del mondo, ogni scopo veniva clandestinamente sconsacrato. Scrivere tutto non avendo coscienza degli orrori ortografici disseminati ovunque, niente di più spudorato delle scritture nostre tutte stupidamente sottoscritte, mi terrorizzava però la fabbrica di soda caustica, per resistere avrei dovuto essere di ferro, io fatto di carne crollavo, ed ogni giorno prima di iniziare una qualsiasi scrittura ammiravo i cassetti pieni di coltellini, forbicine tascabili. Ogni pagina va sfatta ed oggi che è domenica per tutta una giornata intera sarebbe particolarmente scemo proclamare l’esistenza dell’inesistente e sarebbe ancora più terrificante rimanere solo davanti all’ignoto definitivo, la testa sfondata da un colpo di piede di porco, tutto fu scaraventato nel lago, il nastro adesivo era pieno d’impronte di tutti i tipi e nella fase cruciale dei deliri spergiurava di non aver letto neppure una riga delle tante poesie da me meticolosamente sottoscritte adeguandole a tutte le vertigini e poi disseminate nelle tortuose vie di Internet. Con tutto il mio estremismo infantile proponevo riforme folli, proponevo l’eliminazioni delle province perché le regioni sono tante e avanzano pure, in tempi non sospetti proponevo perfino l’eliminazione del senato essendo un inutile doppione, proponevo di ridurre il parlamento a 250 anime che sono anche troppe, pensavo che fosse sufficiente il ministro di grazia e giustizia eliminando il ministero dell’interno, eliminare tutti gli oroscopi di Rai Uno, liberateci da tutto sto scemo e che le presentatrici si presentino con i loro capelli e non con

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