Controcorrente
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Joris-Karl Huysmans
Joris-Karl Huysmans (Charles Marie Georges Huysmans), geboren am 5. Februar 1848 in Paris als Sohn des Druckers Godfried Huysmans und der Lehrerin Malvina Badin; gestorben am 12. Mai 1907, ebenda. Französischer Schriftsteller. Hauptwerke: Gegen den Strich (À rebours, 1884); Tief unten (Là-bas, 1891). Ausführliche Lebensbeschreibung auf Seite 4.
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Controcorrente - Joris-Karl Huysmans
534
Titolo originale: À rebours
Traduzione di Ida Sassi
Prima edizione ebook: marzo 2015
© 2015 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-8170-0
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
Joris-Karl Huysmans
Controcorrente
A cura di Bruno Nacci
Traduzione di Ida Sassi
Edizione integrale
ominoNewton Compton editori
Ai limiti del romanzo: «À rebours»
Libri, poetiche e modernità
Una lunga tradizione considera il libro, ossessione costante della letteratura moderna da Cervantes a Borges, il crocevia di esperimenti al cui fondo sembra esserci una fatale sottrazione di realtà. Non più strumento di conoscenza o diletto, capace di accostare il mondo e restituirne le stravaganti differenze, il libro diventa l’unico o principale argomento di se stesso: dietro gli innumerevoli libri frutto di deboli incarnazioni soggettive, esso permane, canone decisivo e forma ultima del reale. Di questa tradizione Huysmans rappresenta uno dei momenti decisivi, in quanto la sua attività letteraria opera quasi fin dall’inizio la scelta consapevole di rimanere rigorosamente all’interno della dimensione intellettuale-libresca; né egli, giustamente, avverte alcuna profonda contraddizione con il suo presunto naturalismo o realismo di partenza (forse che il libro non è una realtà? un prodotto storico e sociale?), o con l’ultima fase della sua produzione, quella segnata da un forte e patetico sentimento religioso: la Bibbia è appunto, e finalmente, il Libro dei libri. À rebours è la summa di questa intenzione o poetica huysmaniana, certo la sua più compiuta espressione, quella in cui una prodigiosa bravura stilistica (già rivelata nelle sfolgoranti miniature d’esordio del Drageoir aux épices, ripresa nei Croquis e, da ultimo, in De tout) cerca di conservare la preziosità del dettato rompendo i limiti della prosa d’arte o prosa poetica, genere già esplorato e quasi fondato da Bertrand, Baudelaire, Rabbe, Guérin (e su un piano diverso da Rimbaud, Lautréamont e Laforgue), e che altro non era se non la ripresa delle Rêveries di Rousseau e di tante pagine di Chateaubriand: «Molto spesso Des Esseintes aveva meditato sull’inquietante problema della possibilità di scrivere un romanzo condensato in poche frasi, che contenessero il succo concentrato di centinaia di pagine [...] Allora le parole scelte sarebbero state talmente insostituibili da rendere inutili tutte le altre».
Il tentativo di mettere la laboriosa eleganza di una prosa già perfetta nelle sue capacità mimetiche al servizio di uno schema narrativo non è lontano da quello di Joyce, che passerà dalle Epiphanies allo Stephen Hero, ma il presupposto intellettualistico per cui ogni spunto drammatico o descrittivo va risolto e ricondotto alla pagina come unico orizzonte reale, blocca in modo spietato ogni velleità narrativa. Huysmans non esce dalla fascinazione dello stile a cui presta solo il tenue riverbero dell’autobiografia. La celebre invocazione di Baudelaire: «E tanto brucia / nel cervello il suo fuoco, che vogliamo / tuffarci nell’abisso – Inferno o Cielo, / cosa importa? – discendere l’Ignoto / per trovarvi nel fondo, alfine, il nuovo!», è ancora riferita (nel 1861) a una vaga ma dolorosa volontà di incontrare le cose del mondo; quando Huysmans la riprende, con scoperta allusione, nella prefazione di À rebours del 1903: «All’epoca, era soprattutto questa la mia idea fissa, sopprimere l’intrigo tradizionale, sopprimere persino la passione, la donna, concentrare il fascio di luce su un unico personaggio, fare a tutti i costi qualcosa di nuovo»,¹ essa è diventata l’insegna, sia pure retrospettivamente, di una bega di scuola, la formula di un’altra delle tante poetiche che affliggono l’Ottocento. Se Flaubert e Tolstoj non esitavano a sviluppare l’intreccio più banale della letteratura (dando i due massimi capolavori del secolo: Madame Bovary e Anna Karenina), riassunto con sarcasmo nelle righe che citeremo, Huysmans denuncia il fastidio (come scrittore, come lettore?) di una tale banalità: «Qualunque cosa si inventasse, il romanzo si poteva riassumere in poche righe: sapere perché il signor Tal dei Tali commetteva o non commetteva adulterio con la signora Talaltra [...] vedo che attualmente il pubblico non si nutre tanto di amori plebei o borghesi, ma continua ad assaporare le esitazioni della marchesa che va a raggiungere il suo tentatore in un mezzanino il cui aspetto cambia a seconda della tappezzeria alla moda. Cederà? Non cederà?». Per lui l’unico orizzonte possibile è quello saldamente stretto tra la prima e l’ultima pagina del libro, il resto è banale cianfrusaglia dei sentimenti: passato ormai definitivamente tra le fila degli antinaturalisti, non rinnega quanto scritto vent’anni prima, si limita a conferirgli un’aura religiosa con un prematuro quanto solenne pontificale.
Dietro À rebours c’è Bouvard et Pécuchet di Flaubert. Stessa cauta trasposizione biografica dell’autore, stesso universo célibataire (già celebrato da Huysmans in À vau l’eau, con un protagonista, il torpido impiegato Folantin, che è la versione proletaria di Des Esseintes), stesso ruolo centrale del libro da cui germina una realtà che esiste solo perché si trova nelle pagine dei libri, stessa circolarità della storia che non porta in nessun luogo e, finalmente, stesso fittizio ricorso alla convenzione del /dei personaggi che sono semplici maschere, privi di sviluppo, lontani da ogni psicologia e possibilità di cambiamento. All’inizio dei due libri c’è un allontanamento: Bouvard e Pécuchet lasciano Parigi e il loro lavoro per Chavignolles; il ricco, pallido, nobile, anemico Jean Floressas Des Esseintes (nome calambour che sarebbe dovuto piacere a Nabokov) lascia amici e dissipazione parigina per Fontenay aux Roses. L’idea di una rétraite, di un abris, di uno spostamento, sia pure cautissimo in Huysmans, dal centro alla periferia, ha il chiaro significato letterale e metaforico di ribaltare una prospettiva sociale e la sua esecuzione letteraria: la sfida romantica che Rastignac, come in un dipinto di Friedrich, lancia a Parigi nel Père Goriot di Balzac, è appunto il movimento di conquista di una classe galvanizzata dall’exemplum rivoluzionario e napoleonico, la regressione di Des Esseintes è il sintomo della capitolazione di una cultura che non si riconosce proprio in quella classe che ormai regna sovrana (l’artista e l’aristocratico escono di scena quasi contemporaneamente dall’universo borghese). A differenza però che nell’opera di Flaubert, la furiosa passione per i libri che nutre il protagonista di À rebours («alla fine, decise di far rilegare le pareti come libri»), proprio come il suo creatore, non lascia indenne né l’uno né l’altro, qui non si tratta di sperimentare il catalogo della stupidità (non uno solo dei libri di Bouvard et Pécuchet è un libro autentico, grande, significativo), qui si tratta di addobbare la casa, la persona, la vita, con libri, del passato e del presente, che fanno parte di una tradizione, qui si tratta di distruggere tutto con quei libri. I libri non svolgono per Des Esseintes la stessa funzione che essi hanno per Kien, il protagonista di Auto da fè di Canetti, perché in Canetti i libri costituiscono uno spalto metaforico contro il mondo, in Huysmans essi, ambiguamente, sono il mondo e fanno parte dell’arredamento, sono la rarità di un collezionista:
A Parigi, in passato, aveva fatto comporre per lui solo alcuni volumi, stampati con torchi a mano da operai assunti appositamente: a volte ricorreva a Perrin, di Lione, i cui caratteri agili e puri erano perfetti per le ristampe in stile arcaico dei libri antichi; altre volte faceva venire dall’Inghilterra o dall’America dei caratteri nuovi per la stampa di opere contemporanee; altre volte ancora si rivolgeva a una ditta di Lilla che possedeva da secoli tutto un assortimento di caratteri gotici; talvolta, infine, requisiva l’antica stamperia di Enschedé di Haarlem, la cui fonderia conserva i punzoni e i conî dei caratteri detti di civiltà.
Né all’aspetto esteriore fa riscontro una più meditata convinzione; da ragazzo Des Esseintes «frugava nei libri», proprio come «vagava nella campagna» (spesso ricorre il tema «aveva vagato a caso per le vie», perché vagare è la forma di attività più irresponsabile, anche se non più innocente, come sapeva Baudelaire), e la lettura («leggeva o fantasticava») sembra per lui un’attività accessoria: le lunghe tiritere, metà recensione, metà divagazione brillante sulla letteratura della decadenza latina e sulla letteratura moderna (dove accumula lodi un po’ imbarazzanti per gli interessati, mettendo insieme Baudelaire, Zola, Barbey d’Aurevilly, Mallarmè, Verlaine, Poe, Flaubert, Lacordaire, Goncourt, tutti accomunati da una vaga eccentricità) non incidono per niente nell’animo del protagonista, un po’ come le letture in ordine alfabetico dell’autodidatta della Nausée di Sartre. I suoi giudizi (la «lamentosa devozione» di sant’Agostino! la «complicata ingenuità del latino cristiano»! «Il possente riso di Rabelais
» e «la solida comicità di Molière
» non riuscivano a spianare neppure una ruga dalla sua fronte, e la sua antipatia per quelle farse era così marcata che non temeva di metterle sullo stesso piano, dal punto di vista artistico, delle esibizioni dei buffoni che contribuiscono all’allegria delle fiere»!) sono formule di un dilettante arrabbiato, che gioca con le parole credendo di poterle sostituire alle cose. Eppure senza i libri Des Esseintes non sarebbe niente. Vuoti gusci decorati in un gusto torbido che trasferisce sulla loro fisicità brame appena confessate: i libri, il catalogo dei libri di À rebours, non definiscono una psicologia, né circoscrivono una cultura, sono un sintomo:
Così si era fatto stampare con i mirabili caratteri episcopali dell’antica casa Le Clerc le opere di Baudelaire in un grande formato che ricordava quello dei messali, su un leggerissimo feltro del Giappone, spugnoso, morbido come midollo di sambuco e impercettibilmente velato di rosa nel suo biancore lattiginoso. Questa edizione, in un unico esemplare, stampata nel nero vellutato dell’inchiostro di China, era stata rivestita all’esterno e foderata all’interno con un’autentica, meravigliosa pelle di scrofa scelta tra mille, color carne, tutta picchettata al posto delle setole, decorata da merletti neri impressi a freddo, miracolosamente assortiti da un grande artista. Quel giorno Des Esseintes prese dallo scaffale l’incomparabile volume; lo palpeggiava devotamente.
Nel capitolo quattordicesimo, in un passaggio esplicito dove autore e personaggio (qui è la vera e forse unica bravura di Huysmans, non farci mai dubitare che l’inverosimile intarsio di capitoli-frammenti del libro corrisponde a un soggetto reale) sembrano più che mai fondersi nell’atto della riflessione, si ammette: «Voleva insomma un’opera d’arte sia per quello che valeva in se stessa, sia per quello che permetteva di attribuirle; voleva andare con lei, grazie a lei, come sostenuto da un aiutante, come trasportato da un veicolo, in una sfera dove le sensazioni sublimate gli imprimessero una commozione inattesa, di cui avrebbe cercato a lungo e anche vanamente di analizzare le cause». Huysmans pensa al libro come a una realtà vivente, allusiva, da cui muovano impulsi non codificati. Così ci suggerisce di leggere il suo libro, senza mai dimenticare che lo sta scrivendo, che non ne uscirà mai, che non ne usciremo mai.
Il Corpo, l’Eros, l’Orrore
Al lettore di À rebours non vengono risparmiati digestioni difficili, dispepsie, coliti, crampi, ricette, fiale e clisteri, mal di denti con relative estrazioni:
Allora era cominciata la scena madre. Aggrappato ai braccioli della poltrona, Des Esseintes aveva sentito qualcosa di freddo nella guancia; poi aveva visto le stelle, soffrendo dolori inauditi, e si era messo a battere i piedi e a belare come una bestia scannata. Si era sentito lo scricchiolio del molare che si spezzava cedendo; gli era sembrato che gli strappassero la testa, che gli fracassassero il cranio; aveva perso la ragione, aveva urlato con tutte le sue forze, si era furiosamente difeso contro l’uomo che si avventava di nuovo su di lui come se volesse ficcargli il braccio in fondo alle viscere [...] in piedi, oscurando la finestra con la sua mole, ansava brandendo all’estremità delle tenaglie un dente livido da cui pendeva della carne rossa! Annientato, Des Esseintes aveva vomitato sangue fino a riempire una bacinella.
L’estrema raffinatezza del personaggio, le sue manie in fatto di architettura, mobilio, arredamento, oggetti preziosi, quadri, il suo vivere confinato in una mente disincantata e patrizia, contrastano con l’ossessione di un corpo già trasfigurato nell’orrenda maschera di Dorian Gray: «il viso era terreo, le labbra gonfie e secche, la lingua screpolata, la pelle rugosa; i capelli e la barba, che il domestico non gli aveva più tagliato da quando era malato, accrescevano ancora l’orrore della faccia scavata, degli occhi ingranditi e liquidi che bruciavano di uno splendore febbrile nel teschio irto di peli». L’opposizione, poco metaforica, fenomenologicamente ricercata, tutta giustificata all’interno di quei nervi
, di quel sistema nervoso
che sono le ricorrenze più frequenti nell’opera (40), allude a una condizione di tale estraneità al mondo inteso come dato reale, che il corpo diventa un residuo ingombrante, decisivo (alla fine Des Esseintes dovrà interrompere i suoi esperimenti di retraite su indicazione del medico) e minaccioso, ma pur sempre marginale. L’esperimento che il libro porta a termine con diligente metodicità può essere riassunto in questi termini: liberato da ogni vincolo sociale, cosa resta del soggetto borghese? Des Esseintes non ha famiglia, non ha problemi economici, non ha amici, né amanti, non crede in niente; gli rimane però un corpo, potenzialmente ostile, capriccioso, in agguato. Quel corpo è stato l’unica moneta di scambio tra la mente che lo abita e gli altri, e il sesso, che è completamente assente dal tempo della narrazione, è il territorio dove si è svolto lo scambio (notevole la fugacità e la marginalità con cui viene pensato l’atto sessuale: «una fregola da cane che copre la cagna senza preamboli»). Fin dall’inizio è chiaro che la donna non occupa alcun posto nell’orizzonte di Des Esseintes (neppure la madre: «una donna alta, silenziosa e bianca, morì di consunzione»), la sua misoginia (l’«innata stupidità delle donne») si spinge fino al punto di affermare che in passato «una sola passione, la donna, avrebbe potuto trattenerlo in questo universale disgusto che lo tormentava»: debole ipocrisia, subito (e involontariamente?) corretta da un brusco elenco di donne attricette, cantanti, ubriache, sgualdrine. La mente di Des Esseintes, un tempo, si è votata dunque alla donna, intesa come oggetto da illuminare, solleticare, esporre ad effetti sensazionali, quasi fosse una bambola (l’Eve future di Villiers de l’Isle Adam?), manipolabile a piacere. Ma, a ben vedere, non c’è un solo cenno in tutto il libro di un rapporto autentico con una donna. Quella che Des Esseintes pratica è una forma di autoerotismo a cui la donna (la convenzione femminile, la convenzione che vuole che nell’alcova ci sia una donna) presta solo la sua presenza, come una comparsa mal pagata. Una donna sola sembra attirare l’ardore (mentale) di Des Esseintes: la Salomé di Gustave Moreau. Un dipinto, ma un dipinto che, come le efebiche donne di Klimt più tardi, ritrae una bellezza artificiale, algida, già resa minerale, secondo un processo di reificazione ben noto a Baudelaire:
È quasi nuda; nella frenesia della danza, i veli si sono sciolti, i broccati sono caduti; è vestita solo di gioielli e lucidi minerali; un corpetto, come un busto, le stringe la vita e, a mo’ di superbo fermaglio, un meraviglioso gioiello dardeggia lampi nell’incavo dei seni; più in basso, una cintura le circonda le anche, nasconde la parte superiore delle cosce battute da un gigantesco ciondolo dove scorre un fiume di carbonchi e smeraldi; infine, sul corpo rimasto nudo, tra il corpetto e la cintura, il ventre si inarca, scavato da un ombelico il cui foro sembra un sigillo di onice, dai toni lattiginosi, dalle tinte d’un rosa di unghia.
Alla donna doppiamente sublimata, dall’essere riprodotta in effige e dal suo mineralizzarsi (ma in À rebours il processo di mineralizzazione di un essere vivente ha un altro esempio eclatante nell’episodio della tartaruga sul cui guscio Des Esseintes fa incastonare delle pietre preziose, uccidendola), corrispondono i due racconti di seduzione del nono capitolo. Nel primo, Des Esseintes descrive una sua amante, acrobata in un circo: «Era Miss Urania, un’americana dal corpo atletico, dalle gambe nervose, dai muscoli d’acciaio, dalle braccia di ghisa». Quasi tutti i lettori di Huysmans hanno individuato nella mascolina bellezza di Miss Urania un esplicito riferimento alle tendenze omosessuali dello scrittore, per altro confermate dallo scambio di ruoli che Des Esseintes si aspetta dall’amante (lui, debole, vorrebbe essere posseduto da lei forte) e dall’aperta ammissione che il carattere di maggiore attrattiva della donna consiste nel suo essere androgino. Senza negare questa componente, l’implicazione più sottile di questo episodio sembra riguardare non tanto l’ambiguità sessuale delle donna (e dunque del personaggio o dell’autore), quanto, di nuovo, una sua repentina collocazione nel regno del non umano, della natura allo stato puro. Termini ed espressioni come: forza bruta
, muscoli d’acciaio
, gambe di ghisa
, appetito animalesco
, odore di bestia florida e sana
, aroma naturale e bruto
, parlano più di una regressione pre-umana o pre-storica, che di perversioni dettate dalla noia e dalla sofisticatezza. Il secondo episodio, strettamente connesso al primo, descrive un’altra amante, una ventriloqua. Anche in questo caso, il fascino della donna sembra coincidere con la sua capacità d’infondere una parvenza di vita a ciò che è inanimato: bambini di cartapesta
, manichini
, immaginarie vetture
. E la ventriloqua, che bruciava come un cratere
, viene assoldata, per così dire, allo scopo di allestire una scena dove gli elementi portanti sono «una piccola sfinge di marmo nero» e «una chimera di terracotta policroma», a cui la donna deve donare la voce. Il dialogo tra i due mostri
è tratto da Flaubert e procura a Des Esseintes l’acuto desiderio di rifugiarsi «presso di lei come un bambino sconsolato». Il rapporto natura/storia governa ogni pagina del libro e proprio nell’erotismo funebre di Huysmans (che non a caso cita più volte Sade, esaltando la contaminazione tra misticismo e sadismo) questo rapporto svela la contraddizione tra una concezione borghese della natura («la natura, diceva, ha fatto il suo tempo»), e il desiderio-paura di tornare alla condizione naturale. La ricorrente impotenza di Des Esseintes (ma anche di Huysmans) certifica, al di là di ogni dubbio, lo stallo di un io colto a metà della grande metamorfosi moderna. Il desiderio/paura di ogni naturalità (perfino quella storica
: «in odio e spregio della sua infanzia») dà poi luogo, nelle pagine di À rebours, a un vasto repertorio di corpi, in cui prevale una morbosa anatomia che ricorda quella di Flaubert, anche se privata di ogni grandezza epica, fino al limite di un’esposizione da insensata macelleria:
Di questo artista [Jean Luyken] fantastico e lugubre, veemente e feroce, Des Esseintes possedeva la serie delle Persecuzioni religiose, spaventose tavole che contenevano tutti i supplizi che la follia delle religioni ha inventato, tavole in cui urlava lo spettacolo delle sofferenze umane, corpi rosolati su bracieri, crani scoperchiati con sciabole, trapanati con chiodi, tagliati con seghe, intestini strappati dal ventre e avvolti su rulli, unghie lentamente estirpate con tenaglie, pupille perforate, palpebre rovesciate con punte, membra slogate, spezzate con cura, ossa messe a nudo, lungamente raschiate con lame.
Lo scenario, che è molto vicino alle rappresentazioni macabre di un certo barocco cattolico, ha un suo corrispettivo vegetale: «Scaricavano una nuova infornata di mostri; delle Echinopsis, che facevano spuntare da batuffoli d’ovatta fiori di un rosa ignobile da moncherino; dei Nidularium, che aprivano, tra lame di sciabola, deretani scorticati e squarciati», dove la descrizione antropomorfica delle piante inserisce nell’orrore un riflesso sessuale. Corpi vegetali e corpi umani si fondono poi nella dimensione onirica, in un groviglio di rimandi che, alla fine, esibiscono il contenuto osceno a lungo preannunciato: «Fece uno sforzo sovrumano per liberarsi dalla sua stretta, ma con un gesto irresistibile lei lo trattenne, lo afferrò; atterrito, vide sbocciare tra le cosce sollevate il feroce Nidularium che si apriva, sanguinando, tra lame di sciabola». Breviario della decadenza o referto di un immaginario corrotto, À rebours è molto di più e molto di meno di quello che vorrebbe essere. I frequenti rimandi a Schopenhauer non devono trarre in inganno, il nichilismo di Huysmans è solo una decorazione civettuola, l’imprestito culturale di un lettore astuto, così come le pretese di rovesciare l’archetipo del Bildungsroman (nell’episodio bizzarro del ragazzino povero a cui viene offerta la possibilità di frequentare per un certo periodo una maison, e godere delle sue filles in modo da produrre in lui desideri che in seguito non potrà soddisfare, avviandolo scientificamente, dunque, sulla strada del delitto). Più importante, invece, lo stretto legame tra Huysmans e Sade. Si potrebbe azzardare una formula: Huysmans traduce Sade in termini letterari, cioè linguistici. Là dove il marchese sostituisce la pagina all’atto sessuale (fondando anche teoricamente i presupposti della pornografia), con un gesto tutto esterno al campo letterario, Huysmans utilizza la stessa sostituzione all’interno del discorso letterario, aprendo spiragli significativi a quell’irruzione del sogno e della fantasticheria che, non a caso, gli attirerà l’ammirazione, in parte, anche se meno giustificatamente, riservata anche a Sade, dei principali rappresentanti del surrealismo.
Bruno Nacci
1 Il corsivo è mio.
Nota biobibliografica
cronologia della vita e delle opere
1848. 5 febbraio: nasce a Parigi in rue Suger 11, nel quartiere latino, alle sette del mattino. Il giorno seguente viene battezzato con il nome di Georges. Il padre, Godfried, è un incisore e miniaturista originario dell’Olanda, la madre, Elisabeth Malvina Badin, prima di sposarsi fa l’istitutrice. Trascorre i primi anni serenamente, gioca spesso da solo e ascolta la madre che suona al pianoforte Schubert.
1856. 26 giugno: muore il padre. La madre s’impiega come commessa in un grande magazzino e dopo pochi mesi si risposa con Jules Og, un protestante proprietario di una piccola tipografia. Il piccolo Georges contrappone subito la rigida e mediocre figura del patrigno al ricordo affettuoso, venato da discrete capacità artistiche, del padre. Viene messo come interno presso l’Institution Hortus, in rue du Bac, e frequenta il Liceo Saint-Louis. Serberà un ricordo penoso, a metà tra la caserma e l’ospedale, sia del pensionato che della scuola.
1865. Rifiuta decisamente di riprendere gli studi e di tornare in rue du Bac.
1866. Grazie a un istitutore privato ottiene il diploma di maturità. Uno zio gli procura un impiego al Ministero degli interni, «il maledetto ufficio» da cui non si staccherà se non negli ultimi anni. Inizia gli studi di diritto che non porterà a termine.
1867. Finalmente libero di disporre di sé, conduce una vita da bohémien. Con uno stratagemma accosta una cantante di cabaret, la regina delle Belle
, che diventa la sua amante. Inizia così la sua tormentata storia affettiva, durante la quale il desiderio