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Le Montagne della Follia
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E-book198 pagine2 ore

Le Montagne della Follia

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Traduzione di Gianni Pilo

Artista geniale e spietato indagatore del lato oscuro dell’animo umano, Lovecraft è, insieme a Edgar Allan Poe, il padre della narrativa gotica americana, uno degli autori più affascinanti di tutti i tempi. Le Montagne della Follia è il suo romanzo più avventuroso, quello dove il genere dell’orrore trova nella dimensione psicologica il luogo da pervadere con un senso di inquietudine sottile e contagioso. Ambientato in Antartide, racconta le gesta di una spedizione scientifica alle prese con reperti vecchi di milioni di anni; vestigia di un’antichissima civiltà, scomparsa da millenni, custodite da esseri che, giunti sulla Terra dalle profondità del Cosmo, sono tornati alla vita dopo un lungo periodo di ibernazione. Nel sottosuolo antartico, i protagonisti della vicenda vivranno una serie di avventure da incubo, che li spingeranno sull’orlo della pazzia. Lovecraft, mettendo in scena la sua originale visione del Cosmo, tesse una trama avvincente, catapultando il lettore in un mondo visionario e fantastico dominato dalla paura e dall’orrore.

«Malgrado l’orrore, ci era rimasto sufficiente zelo scientifico e spirito d’avventura per indagare sul regno sconosciuto che si stendeva al di là di quelle montagne misteriose.»


Howard P. Lovecraft

nacque il 20 agosto del 1890 a Providence nel Rhode Island. Vissuto in un ambiente familiare ben poco felice, dopo un’infanzia trascorsa in totale solitudine, fin da giovane dovette lottare con una serie di difficoltà economiche e si guadagnò da vivere con il mestiere ingrato e mal pagato di revisore dei testi narrativi di aspiranti scrittori. Grazie ai suoi romanzi e racconti, ispirati a una concezione del Cosmo particolare e singolarissima, è l’unico scrittore americano a poter rivaleggiare con Edgar Allan Poe. Divenuto, ancora vivente, una vera e propria “leggenda”, morì nella sua Providence, alla quale era legato in maniera viscerale, il 5 marzo del 1937. Moriva l’uomo, nasceva il mito.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854127692
Le Montagne della Follia
Autore

Howard Phillips Lovecraft

H. P. Lovecraft (1890-1937) was an American author of science fiction and horror stories. Born in Providence, Rhode Island to a wealthy family, he suffered the loss of his father at a young age. Raised with his mother’s family, he was doted upon throughout his youth and found a paternal figure in his grandfather Whipple, who encouraged his literary interests. He began writing stories and poems inspired by the classics and by Whipple’s spirited retellings of Gothic tales of terror. In 1902, he began publishing a periodical on astronomy, a source of intellectual fascination for the young Lovecraft. Over the next several years, he would suffer from a series of illnesses that made it nearly impossible to attend school. Exacerbated by the decline of his family’s financial stability, this decade would prove formative to Lovecraft’s worldview and writing style, both of which depict humanity as cosmologically insignificant. Supported by his mother Susie in his attempts to study organic chemistry, Lovecraft eventually devoted himself to writing poems and stories for such pulp and weird-fiction magazines as Argosy, where he gained a cult following of readers. Early stories of note include “The Alchemist” (1916), “The Tomb” (1917), and “Beyond the Wall of Sleep” (1919). “The Call of Cthulu,” originally published in pulp magazine Weird Tales in 1928, is considered by many scholars and fellow writers to be his finest, most complex work of fiction. Inspired by the works of Edgar Allan Poe, Arthur Machen, Algernon Blackwood, and Lord Dunsany, Lovecraft became one of the century’s leading horror writers whose influence remains essential to the genre.

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    Anteprima del libro

    Le Montagne della Follia - Howard Phillips Lovecraft

    I.

    Mi sento obbligato a parlare perché gli scienziati si sono rifiutati di seguire i miei avvertimenti senza sapere perché. Ed è contro la mia volontà che spiegherò le mie ragioni per essermi opposto alla proposta invasione dell’Antartide, all’avventata caccia ai fossili, ed alla perforazione ed allo scioglimento dell’antica calotta di ghiaccio. E sono ancora più riluttante poiché questi miei avvertimenti potranno anche risultare del tutto vani.

    Sarà inevitabile nutrire dei dubbi su dei fatti per me reali, quando li rivelerò, ma se eliminassi dal mio racconto tutto quello che può apparire stravagante ed incredibile, non rimarrebbe più nulla. Le fotografie finora rifiutate dal buon senso, sia quelle normali che quelle aeree, potranno testimoniare a mio favore in quanto sono assolutamente vivide ed eloquenti. Tuttavia penso che verranno messe in dubbio a causa della grande abilità raggiunta da alcuni furbi falsificatori. I disegni a penna, naturalmente, verranno scherniti e tacciati di inganno evidente, malgrado la singolarità della tecnica che gli esperti d’arte dovrebbero considerare, e su cui dovrebbero interrogarsi.

    Dovrò quindi dipendere dal giudizio e dall’atteggiamento di quei pochi scienziati che hanno, da un lato, un’autonomia sufficiente di pensiero per valutare i miei dati – o con i loro metodi odiosamente convincenti oppure sulla base di certi cicli mitici primordiali ed altamente sconcertanti – e, dall’altro, un’influenza sufficiente per cercare d’impedire l’esplorazione, in base a qualsiasi programma avventato o estremamente ambizioso, di quella regione compresa tra le Montagne della Follia.

    È un fatto assai riprovevole che uomini relativamente poco conosciuti come me ed i miei colleghi, legati solo ad una piccola Università, abbiano così poche possibilità di imporre la propria idea circa delle questioni estremamente bizzarre oppure altamente controverse. Inoltre, lavora contro di noi il fatto di non essere degli specialisti, nel senso più stretto del termine, nei campi nei quali ci trovammo ad operare.

    Come geologo, lo scopo che mi aveva indotto a pormi alla guida della spedizione della Miskatonic University era stato principalmente quello di procurare i campioni in profondità –nel terreno e nella roccia – di vari punti del continente antartico, con l’ausilio della eccezionale sonda inventata dal professor Frank H. Pabodie della nostra Facoltà di Ingegneria.

    Non avevo alcuna intenzione di fare il pioniere in altri campi, ma mi auguravo che l’uso di quel nuovo apparecchio meccanico, in punti differenti e lungo sentieri mai precedentemente esplorati, avrebbe portato alla luce tipi di materiali che fino ad allora non erano stati raggiunti dai comuni metodi di prelevamento.

    Lo strumento di trivellazione di Pabodie, che la gente ha potuto conoscere tramite le nostre relazioni, era unico e completamente nuovo, pratico per la trasportabilità e per la capacità di unire il principio del comune trapano artesiano con quello di una piccola perforatrice circolare da roccia, in modo tale da riuscire a penetrare rapidamente strati di varia durezza.

    Testa d’acciaio, alberi di trasmissione, motore a benzina, torre di trivellazione smontabile di legno, materiale esplosivo, rotoli di corde, trivella per la rimozione dei detriti e condotti a sezioni per fori larghi fino a dodici centimetri, per profondità superiori a trecento metri, da trasportarsi con gli accessori necessari su tre slitte trainate da sette cani: tutto questo fu reso possibile usando una lega di alluminio con cui la maggior parte delle parti in metallo erano forgiate.

    Quattro enormi aeroplani Dornier, progettati per volare ad altitudini eccezionali e necessari sull’altipiano antartico, muniti di dispositivi per il riscaldamento del combustibile e per il decollo rapido inventati da Pabodie, potevano trasportare la nostra intera spedizione dalla base fino al margine di una grande barriera di ghiaccio e in vari altri punti scelti dell’interno. Da tali punti ci saremmo poi serviti di un numero sufficiente di cani.

    Programmammo di coprire un’area tanto grande quanto una stagione antartica avrebbe permesso, e di impiegare un po’ più di tempo se si fosse presentata un’eventualità assolutamente necessaria. Avremmo operato principalmente tra le catene delle montagne e sull’altipiano a sud del Mare di Ross, regioni queste esplorate a vari livelli da Shackleton, Amundsen, Scott e Byrd.

    Effettuammo frequenti cambi di accampamenti, usando gli aeroplani e coprendo distanze tanto grandi da avere un significato geologico, e ci aspettavamo di portare alla luce una quantità di materiali senza precedenti, specie negli strati precambriani di cui erano stati raccolti in precedenza limitate serie di campioni antartici. Desideravamo anche procurarci la varietà più vasta possibile di rocce fossili superiori, poiché la vita primitiva di quello squallido regno di ghiaccio e di morte, è della più grande importanza per la nostra conoscenza del passato della Terra.

    Che il continente antartico fosse una volta fornito di un clima temperato e perfino tropicale, brulicante di vita vegetale ed animale di cui i licheni, la fauna marina, gli aracnidi ed i pinguini del margine settentrionale sono gli unici sopravvissuti, è un fatto universalmente conosciuto, e noi ci auguravamo di poter ampliare questa informazione con dettagli vari ed accurati. Quando un semplice foro avesse rivelato la presenza di elementi fossili, avremmo allargato l’apertura con esplosioni, allo scopo di ottenere campioni di dimensioni e condizioni idonee.

    I nostri fori, di profondità variabile a seconda delle promesse offerte dal suolo o dalla roccia soprastanti, dovevano essere limitati a superfici di terre esposte, o semiesposte, e perciò avremmo dovuto inevitabilmente trivellare pendenze e creste a causa dello spessore di uno o due miglia di ghiaccio solido che ricopriva invece i livelli inferiori.

    Non potevamo permetterci di operare delle trivellazioni in profondità in una qualsiasi massa considerevole di ghiaccio, sebbene Pabodie avesse elaborato un piano per immergere, nei fori ottenuti con la trivella, degli elettrodi di rame allo scopo di fondere le aree di ghiaccio con la corrente di una dinamo azionata da un motore a benzina. Ed è proprio questo progetto – che noi nella nostra spedizione abbiamo potuto sperimentare praticamente – che la spedizione Starkweather-Moore, prossima a partire, si propone di seguire, malgrado gli avvertimenti da me pubblicati di ritorno dall’Antartide.

    La gente conosce i particolari della Miskatonic Expedition attraverso i nostri frequenti bollettini trasmessi per radiotelefono all’«Arkham Advertiser» e all’«Associated Press», e tramite i recenti articoli miei e di Pabodie.

    Il nostro gruppo era composto da quattro membri dell’Università: Pabodie e Lake, della Facoltà di Biologia, Atwood della Facoltà di Fisica ed anche esperto di meteorologia, ed io come rappresentante della Facoltà di Geologia e con la direzione nominale della spedizione. Avevamo l’ausilio di sedici assistenti: sette laureati alla Miskatonic University e nove operai specializzati.

    Di questi sedici, quattordici erano piloti qualificati, tutti tranne due che erano dei bravi radiotelegrafisti. Otto di loro si intendevano di navigazione con bussola e sestante, come del resto io, Pabodie e Atwood. In più, naturalmente, le nostre due navi, due ex baleniere di legno rinforzate per le condizioni glaciali e con un motore a vapore ausiliario, erano ben equipaggiate.

    La Fondazione Nathaniel Derby Pickman aveva finanziato la spedizione con l’aiuto di alcuni speciali contributi e, da quel momento, i nostri preparativi furono estremamente precisi, malgrado l’assenza di grande pubblicità. I cani, le slitte, le macchine, i materiali per l’accampamento, e le parti smontate dei nostri cinque aerei, furono consegnati a Boston dove le nostre navi furono caricate.

    Eravamo assai ben equipaggiati per i nostri specifici scopi e, per tutto quanto era pertinente ai rifornimenti, all’organizzazione, ai trasporti, ed alla costruzione degli accampamenti, approfittammo dell’esempio eccellente dei nostri recenti nonché eccezionalmente brillanti predecessori. Fu lo straordinario numero e la fama di tali predecessori a far passare la nostra stessa spedizione, per grande che potesse essere, quasi inosservata alla grande massa della popolazione mondiale.

    Come dissero i giornali, salpammo dal porto di Boston il 2 settembre del 1930, procedendo con calma lungo la costa ed attraverso il Canale di Panama, e fermandoci poi a Samoa e ad Hobart, in Tasmania, dove acquistammo i nostri ultimi rifornimenti.

    Nessuno del nostro gruppo di esploratori era mai stato prima nelle regioni polari e, da quel momento, ci affidammo totalmente ai capitani delle nostre navi, J.B. Douglas, comandante del brigantino Arkham, che aveva il comando di tutto il gruppo in mare, e Georg Thorfinnssen, comandante del brigantino Miskatonic, entrambi esperti balenieri delle acque antartiche.

    Appena ci fummo allontanati dal mondo abitato, il sole affondò sempre più e rimase a lungo sulla linea dell’orizzonte. A circa sessantadue gradi di latitudine sud, avvistammo i nostri primi iceberg, simili ad oggetti piatti con i lati verticali e, proprio prima di raggiungere il circolo antartico, che attraversammo il 20 ottobre con cerimonie appropriatamente bizzarre, incontrammo notevoli problemi con le lastre di ghiaccio.

    La temperatura che scendeva sempre più mi preoccupava in modo considerevole dopo il nostro lungo viaggio attraverso i tropici, ma cercai di farmi forza considerato il freddo ben peggiore che ci aspettava. In molte occasioni, gli strani effetti atmosferici mi incantarono enormemente. Tali effetti includevano un miraggio vivido in modo sorprendente – il primo che avessi mai visto – in cui lontane masse di ghiaccio galleggianti diventavano i bastioni di inimmaginabili castelli cosmici.

    Spingendoci attraverso il ghiaccio, che fortunatamente non era né esteso né troppo spesso, raggiungemmo il mare aperto a 67°di latitudine sud, e a 175° di longitudine est. La mattina del 26 ottobre, apparve a sud il vivido riflesso di terre imponenti e, prima di mezzogiorno, avvertimmo un fremito di eccitazione nello scorgere un’enorme catena di montagne elevate e ricoperte di neve, che si ergeva avanti a noi ricoprendo l’intera visuale. Finalmente ci eravamo imbattuti in un avamposto del grande continente sconosciuto e del suo misterioso mondo di morte gelida!

    Quelle cime erano ovviamente la Catena dell’Ammiragliato scoperta da Ross, e sarebbe stato ora nostro compito aggirare il Capo Adare e navigare lungo la costa orientale della Terra Victoria, verso la base prevista sulla spiaggia dello Stretto di McMurdo, ai piedi del vulcano Erebus a 77° e 9’ di latitudine sud.

    L’ultima parte del viaggio fu un’esperienza vivida, fantastica e stimolante. Grandi cime nude e misteriose si stagliavano ad occidente, mentre il sole basso di mezzogiorno a settentrione, oppure il sole ancora più basso di mezzanotte sul filo dell’orizzonte meridionale, riversava i suoi raggi nebulosi e rossastri sulla neve bianca, sul ghiaccio bluastro, sugli specchi d’acqua, e sui tratti neri di pendii granitici esposti

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