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Il porto di Camelia
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E-book104 pagine1 ora

Il porto di Camelia

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Il racconto si dirama all’interno di un sogno vissuto dall’autore in una sola notte. Ranuncolus si ritrova su di una piccola e sgangherata imbarcazione in compagnia di un uomo, Thymus, “a lui ignoto ma non del tutto”, e insieme inizieranno un viaggio indimenticabile. Il tempo è scandito da un impetuoso Tsunami che li farà approdare ai porti di un’isola perfettamente circolare. Questa terra a seconda del vento da cui è investita produce diverse forme di flora e fauna così come di uomini e donne che, prima o poi, faranno parte dell’equipaggio capitanato da Thymus.
Per fuggire l’“onda contro il porto”, insieme, ricorderanno ciò che fu e come poterlo rianimare, ma questa volta in una forma imperitura.
LinguaItaliano
EditoreAbel Books
Data di uscita18 mar 2014
ISBN9788867520954
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    Anteprima del libro

    Il porto di Camelia - Omar Fusco

    vital.

    Capitolo uno.

    Il bar dell’Ostro.

    Orso di crema,

    pesante il veleggio.

    Sotto il monte.

    Una lingua di vento soffiava sui miei orecchi, penetrandoli ne urtava gli anfratti, incitandomi a evadere dalla prigionia del letargo. Una seconda volta! Mi trovai arenato sulle profonde scogliere del mare dei dormienti, nonostante il primo risveglio. Ed anche ora, come allora, pensai, per aspera ad astra. Le braccia e le gambe in balia della pesantezza, gli occhi rapiti, a tratti, dalla sonnolenza, lo stomaco sottosopra, la volontà estinta, erano per me sensazioni già vissute da non sortirmi più alcuna delirante paura.

    La naupatia, anch’essa stipata nella stiva dei miei mille malesseri, favorì il ritorno ad una lontana coscienza. Roba da pazzi! Ero su di una scheletrica e bizzarra imbarcazione fatta interamente di pezzi riciclati chissà dove. All’esplorazione di questo nuovo mondo, mi accompagnava uno strambo uomo sulla sessantina, a me ignoto ma non del tutto. Si presentò buffamente col nome Thymus seguito dal cognome Vulgaris, oserei dire alquanto folcloristico. A prima vista sembrava non interessarsi poi così tanto alla mia presenza; quasi la desse per scontata. Atteggiamento, il suo, a dir poco controverso al mio, che, allarmato dalla stranezza di un siffatto distacco consapevole, all’apparenza sincronico ad un’apatia manifesta, cercavo invano di attirare la sua attenzione. Ben presto deviai la mia curiosità all’inverosimile paesaggio che, se da un lato mostrava un cielo sereno a far da soffitto ad un’isola dal color verde smeraldo, dall’altro non offriva che foschia lattiginosa che mi faceva accapponare la pelle. Soffocate da quella crema aeriforme, vi erano delle macchie richiamanti monti lontani. Il verde, all’opposto, era indiscreto per la sua lucentezza, insopportabile, copriva letteralmente metà orizzonte ed era talmente denso da non lasciarmi intravedere null’altro.

    Intanto, il funesto barcollio scemava sotto il mio corpo, distendendosi su onde più lunghe, sempre più lunghe e meno inclinate. La fetta di mare tra noi e l’isola perdeva di larghezza e profondità. Ostro, il caldo ed umido vento del Sud, soffiava con forza, cogliendoci impreparati giacché muniti di un’esile vela fatta di quattro stracci rattoppati. Il controllo dell’imbarcazione spettava a Thymus, il quale perseverante nella sua pellaccia indifferente, riusciva comunque, barcamenandosi, a mantenere una certa direzione che, seguendola con lo sguardo, mi portò alla meta. Un molo diroccato dai caratteri poveri: una banchina di ormeggio filiforme, logorata dal moto ondoso, una serie di bitte arrugginite dalla salsedine che non avrebbero potuto consentire l’ormeggio neppure ad una bagnarola come la nostra, che era talmente ridicola da non aver neanche una galloccia su cui arrotolarvi una gomena. L’unica scelta era dunque un ancoraggio coraggioso, senza l’illusione di poter salpare l’ancora con facilità. Nonostante ciò, osservavo quel molo come una manna dal cielo, l’unico pontificato tra il mare e la terraferma. Pertanto iniziai a pentirmi, da buon animista, di averlo offeso gratuitamente, pregandolo affinché perdonasse le mie denigrazioni. Nel frattempo, fummo inghiottiti dal crepuscolo. Con la sola fortuna di aver gettato l’ancora per tempo, salimmo sul molo scosso dalla marea.

    Giunti coi piedi nella sabbia, Thymus si fermò e da sotto la giacca a vento estrasse una specie di tubo a raggio catodico, o C.R.T., con all’esterno una microturbina eolica le cui pale erano fatte di spugna di mare e giravano verticalmente. «Apperò!», esclamai, «a cosa servirebbe quel coso così ingegnoso?» quasi come a dirgli di rimetterlo a posto prima di far brutta figura. Mi guardò schernendomi con un sorriso benevolo e disse: «Non riesci proprio ad intuire a cosa possa servire un C.R.T. con in bocca una microturbina eolica ad asse verticale con pale in spugna di mare, denominata per l’appunto C.R.T. a V.A.W.T.?». Inebetito, misto a contrariato, risposi che non ne avevo la più pallida idea. «Ebbene! Ti mostrerò la sua funzione affinché tu possa adoperarlo anche in mia assenza», proseguì, «il suo nome è P.O.T. che sta per Predictor of Tsunami, in altre parole non è altro che…». Lo interruppi volutamente dicendo: «No! Aspetta un secondo, mi vorresti dare a bere che quell’aggeggio insignificante offre la possibilità di prevedere uno spaventoso Tsunami?», andai avanti, «e se così fosse vorrei proprio capire a cosa ci dovrebbe servire?». «E’ possibile che non ti dica proprio niente?», s’inalberò attendendo una mia risposta. Presi qualche istante per riflettere su quello che, almeno in linea di principio, avrebbe dovuto sviluppare un tal dispositivo. Il tubo a raggi catodici o C.R.T. altro non è che un dispositivo formato da un piccolo catodo che una volta riscaldato diviene incandescente emettendo elettroni. Nella pancia del tubo vi è uno spazio vuoto in cui gli elettroni, prodotti dal catodo, possono viaggiare indisturbati sotto forma, appunto, di raggio catodico, giungendo fino all’anodo che, eccitato dal fascio di elettroni, arriva ad emettere luce. Pensai a quanto erotismo dietro il concetto di elettricità e soprattutto a quante elucubrazioni mentali andò incontro William Crookes nei primi anni ’70 del XIX secolo. Tutto parte da forme di pura istintualità e ritorna a esse. Pervenni alla conclusione che la turbina eolica doveva rappresentare la fonte di energia elettrica per riscaldare il catodo metallico. Ad alta voce gli esposi il mio pensiero rilevando come non riuscissi a vedere il nesso tra la luce prodotta e la prevedibilità dello Tsunami. Fu allora che Thymus prendendo la parola, con il solito sorriso a mezza bocca, sentenziò: «Come sovente capita, quel che ti manca è la teoria di base, presente in ogni forma di tecnologia. Dovresti conoscere la relazione non lineare tra la corrente elettronica e l’intensità della luce emessa, descritta tra l’altro nella famosa funzione gamma:

    (Vs)γ

    dove Vs è il voltaggio di ingresso. A questo punto è chiaro che a parità di γ all’aumentare del voltaggio si ottiene un aumento della luce prodotta. Quindi la turbina serve per generare la differenza di potenziale che variando il suo valore genera luce più o meno intensa. Se il vento è così forte da causare la produzione di una luce, che definirla abbagliante è dir poco, e se la salinità del mare catturata dalla spugna di mare supera più del doppio il suo livello standard, allora lo Tsunami sta arrivando! Salvo che non si voglia tener conto di una trascurabile incertezza strumentale». Mosso dalla nauseante spiegazione, mugugnai qualcosa del tipo: «Non riuscirai a vendermi per buono una

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