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Regina. Gallina garibaldina
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E-book296 pagine4 ore

Regina. Gallina garibaldina

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Info su questo ebook

“Un ragazzo, una gallina e un eroe. Tre personaggi che ci prendono per mano e ci conducono per la via della consapevolezza con il grande tatto che contraddistingue la scrittura di Italo Scalese.
Regina, la gallina nata per caso tra le mani di Nicola, rappresenta per il ragazzo e per noi lettori la speranza, la voglia di riscatto, il desiderio di un futuro più giusto e sereno.
A fare da scenario e da sfondo una Calabria antica, incantata e incantevole nei suoi boschi
e nei suoi paesi.
Ancora una volta Scalese dimostra di conoscere e di saper raccontare con acuta sapienza la natura che lo circonda e le sfumature dell’animo umano“.
Anna Burgio
LinguaItaliano
Data di uscita9 dic 2015
ISBN9788868223588
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    Anteprima del libro

    Regina. Gallina garibaldina - Italo Scalese

    pensare

    Sassi

    L’erba fresca di marzo brillava di luce nel nuovo mattino.

    Nicola correva come al solito per non arrivare tardi.

    – Tutti i giorni la stessa storia, uffa, ho ancora sonno e già sto correndo. Non faccio in tempo a chiudere gli occhi che quei maledetti galli cominciano a cantare e arriva il giorno così presto che vorrei scappare. Non riesco neanche a vedere dove metto i piedi e finirò per rotolare su questi sassi che sembra non finiscano mai. Ogni giorno ne prendo a calci parecchi ma il giorno dopo sono ancora lì come se piovessero dal cielo…

    – Ehi, ma quello è un sasso a uovo, bellissimo, non è facile trovarli anche a risalire un fiume intero, e questo me lo trovo qui fra i piedi... Deve averlo perso qualcuno o davvero è piovuto dal cielo.

    Era un sasso proprio bello, liscio, dello stesso colore di un uovo. A guardarlo meglio era proprio un uovo piovuto da chissà quale gallina vagabonda dei dintorni. Nicola si guardò intorno e furtivamente mise in tasca l’uovo poi ricominciò a correre con una mano sul fianco per evitare che i sobbalzi mandassero in frantumi quella fortunata colazione.Arrivò vicino alla bottega del fabbro, sudato, coi riccioli bagnati sulla fronte.

    – La vedi l’ora di arrivare, la fucina è ancora spenta e il sole già cuoce. Questa è davvero l’ultima volta che ti faccio entrare in ritardo. Da domani quando il sole si alza devi essere presente, ne trovo quanti ne voglio di uguali a te che vogliono lavorare.

    – Mi dovete perdonare, Mastro Mì, ma ieri sono andato a dormire che era già oggi, ho aiutato un po’ in casa con la lana, loro da soli non possono farlo e io torno sempre al bujo. Quando li ajuto?

    – Oh, basta, basta, non ricominciare con la solita cantilena... mormorò il vecchio fabbro mentre trafficava rumorosamente coi carboni ancora tiepidi del giorno prima. Nicola fece in tempo ad appendere la logora giacchetta al solito chiodo e già la fiamma brillava alta a illuminare la ferraglia polverosa e nera appesa dappertutto.

    – Guardate, ho trovato questo. Dopo lo mangio.

    – Fammi vedere, sì, dopo, lo mangi – disse scuotendo l’uovo – Dai, sbrigati, non ti incantare come al solito, corri a prendere un po’ di carbone. Poco alla volta ne devi mettere, lo sai se no va tutto in fumo! Oggi abbiamo un sacco di lavoro da fare, ho anche promesso al Signorino di ferrargli il cavallo e quello appena arriva vorrebbe già andare via.

    Mastro Domenico continuava a brontolare infilando sotto al carbone ardente il ferro che doveva lavorare. Tutti sapevano che era un brontolone ma non era cattivo, anzi cercava sempre di aiutare chi aveva bisogno e di gente piena di bisogni era pieno il paese. I suoi modi burberi nascondevano una spontanea tenerezza che gli era costata molte volte grandi sofferenze.

    Dopo poco le parole svanirono, cancellate dal suono del martello che salutava l’incudine ancora assonnata e coperta dalla polvere della notte. Quelle prime martellate erano quasi una musica, tanti suoni diversi che si rincorrono come gocce d’acqua fra i sassi del fiume. E ogni giorno la musica cambiava in base all’umore del mio Maestro. Oggi per fortuna è un allegro balletto, sarà perchè arrivano clienti importanti, che pagano subito senza aspettare "a fhera ‘da ruzza", la fiera della ruggine.

    – Dai, sbrigati, non fermarti come al solito, vai col mantice, forza! Basta musica, adesso si comincia.

    Misi una manciata di carbone nuovo e cominciai a soffiare sulla brace che avevo ben coperto la sera prima. Con l’aiuto di piccoli rametti secchi, la fiamma riparte subito. Anche il fuoco sembra ballare ai colpi del martello. Lunghe lingue azzurre illuminano il nero carbone facendo bujo intorno. Muovo con un ferro il carbone, mille scintille saltellano allegre e si spengono nell’aria fresca del mattino come stelle d’inverno. Sarà una giornata dura... quando arriva quello lì mi tocca sempre lavorare il doppio, non è mai contento di niente. Il signorino si impiccia sempre di tutto e non smette mai di far sentire la sua importanza. Anche sui ferri ha sempre qualcosa da dire come se fosse lui il miglior fabbro del mondo.

    – Per il mio Cavallo ci vogliono ferri d’oro, fatti su misura da un artista e non certo questa ferraglia arrugginita che siete abituati a usare voi per tutti gli asini rognosi, testardi e raglianti che ci sono in giro. Pensate che questo Cavallo arriva addirittura da Napoli, dalla scuderia del RE. So io quanto mi è costato e quante amicizie ho dovuto muovere per riuscire ad averlo.

    Era fatto così il signorino, sempre a vantarsi di ogni cosa. Era stato, si dice, in gioventù tre giorni a Napoli ed era capace di raccontare per ore le sue avventure, sempre diverse come se ci avesse vissuto anni e anni. E la gente del paese, tutti ad ascoltare con la bocca aperta, quasi ci credesse davvero. Nei suoi racconti vedevano il mare, le navi, le luci, lo splendore dei palazzi, la gente allegra e sorridente. Un giorno uno aveva osato dire, durante i suoi racconti:

    – Scusate signorì, ma quanto dura una giornata a Napoli, da Pasqua a Natale?

    Per tutta risposta gli aveva tolto all’istante il permesso di lavorare nelle sue terre.

    – Vedrai quanto è lunga una giornata senza lavoro e senza pane.

    Sarebbe bastato chiedere subito scusa, davanti a tutti e si tornava a sorridere, invece il contadino non lo fece e dopo qualche tempo di stenti non lo si vide più in giro. Dissero che era partito verso dei lontani parenti di Gerace, qualcuno dice che sta coi briganti, qualcuno coi ribelli garibaldini.

    E intanto il signorino continuava a raccontare sempre cose nuove alla gente che, di nascosto rideva e rideva, vedeva nobili in mutande danzare al suono di mille mandolini.

    Mentre stavo raffreddando l’ultimo ferro, annebbiato dal vapore e dalle incessanti raccomandazioni del signorino, è arrivata una donna, che sta a servizio nel palazzo. L’ho riconosciuta dalla voce squillante e stridula:

    – Signorììì, dove lo posso posare?

    – E dove lo vuoi posare, aspetta. Mastru Mì, come ci possiamo sistemare per fare uno spuntino? Fermiamoci un po’ a mangiare e anche tu Nicola, sbrigati a raffreddare sto ferro come ti ho detto e vieni qua, esci da quella nuvola.

    Su un tavolino avevano messo una tovaglia e dal cesto spuntava ogni ben di Dio, pane, vino, salsicce, formaggi.

    – Dai, dai prendete senza complimenti, non capita tutti i giorni di fare una colazione così dai, Nicolino prenditi un po’ di pane e formaggio e beviti anche tu un bicchiere di vino che ti mette sangue, sei pallido come uno straccio.

    – Signorì, come mai sta novità, che è successo?

    – Niente, niente di speciale, anche a Napoli i nobili vanno in giro fra i cristiani e ci mangiano insieme, è una moda così per divertirsi, per non stare sempre da soli chiusi nei palazzi.

    Riscaldato dal buon vino anche il mio maestro cominciava ad essere più allegro e loquace. Intanto la donna tagliava lunghe fette di pane e le distribuiva. Parlavano dei briganti e di quello che facevano, del fatto che non si poteva più stare tranquilli.

    – Signorì, scusate se mi permetto ma io sto tranquillo, siete voi ricchi che avete molto da perdere, a noi poveracci non fanno del male, non c’è succo da spremere...

    – Eh, che è forse una colpa essere ricchi, essere dei signori? Ma lo sapete quanta gente manteniamo noi a lavorare nelle terre di mio padre? Morirebbero tutti di fame se non ci fossimo noi ad avere le terre da coltivare e la capacità di comandare tante persone, tu vai lì, tu vai là, portati questo, prendi quello, e semina il grano e pota la vigna... Senza di noi cosa farebbero questi qua che sanno solo obbedire...

    – Ma state scherzando? Siete voi ad avere bisogno di noi altri poveracci. Se ognuno avesse un po’ di terra da coltivare sareste voi a morire di fame, nessuno ci prende gusto a farsi comandare così, trattati come bestie. Anche il prete lo dice che siamo tutti uguali davanti a Dio...

    – Davanti a Domine nostro certamente, ma finchè siamo qui ci sono i signori, pochi e tanti pecoroni che non aspettano altro che riverirci e sgobbare per noi tutto il giorno. Voi non siete uno di loro, avete un mestiere, ma ce ne sono a centinaia che non hanno un briciolo d’orgoglio, che farebbero qualsiasi cosa pur di ricevere un piccolo favore e dico qualsiasi cosa! Ah non mi fate parlare, ma sapete quante ragazzine vengono ogni giorno al palazzo elemosinando un pezzo di pane e, nascondendosi dietro ai quattro stracci che indossano ti fanno capire che sono sempre pronte a fare ogni cosa per te a patto che le fai entrare da serve in casa. Fosse per me ne cambierei una alla settimana, ma mia madre si mette sempre in mezzo e ci dobbiamo accontentare di questa sdentata qua.

    – Signorì, avete finito di parlare male dei bravi cristiani? Lo sapete che vostra matre poi mi chiede tutto e io non posso dire bugie se no vado all’inferno!

    – Ma che inferno e inferno, eccolo il vero inferno, è quella fucina ma un giorno o l’altro ti ci butto così la smetti di spiare quello che dico e faccio!

    – Non vi arrabbiate così che fa cattivo sangue e tu Nicò prepara il cavallo che lo ferriamo.

    Vedere il signorino agitarsi mi aveva messo di buon umore o forse era il vino che mi faceva venire una specie di sorriso fisso. Continuavo a guardare la scena di lui e la serva che litigavano mentre il mio maestro scuoteva la testa e cercava di bersi in pace l’ultimo bicchiere di vino.

    – Sapete, è il bisogno che rende la gente schiava. Come fanno a mantenere tutte quelle bocche che piangono per la fame? Certo che sono disposti a stare con la testa bassa ma non pensate che quella testa non macina pensieri…mentre stanno ai capricci dei padroni.

    – Basta con ‘sti pensieri, Don Peppì, avvicinatevi, venite a bere un bicchiere di quello buono, questo sì ch’è vino.

    Stava passando Don Peppino il mulinaro, sempre avvolto nel mantello, con gli occhi chiari e sorridenti che spuntavano dal nero.

    – No, non vi disturbate, ma come mai questa improvvisata?

    – Bevete bevete e mangiatevi un po’ di formaggio, la salsiccia è già volata, mangiate mangiate, sentite che profumo di Sila! È una moda napoletana.

    – Finalmente una bella moda, se portano da bere e da mangiare! Signorì, questa è proprio bella.

    Intanto mi ero avvicinato al cavallo legato a un anello sul muro. Certo che un po’ aveva ragione il Signorino, ferrare un cavallo non era come avere a che fare con un asino. Con tutti quegli asini spelacchiati e tristi. Fulmine era un cavallo bellissimo, nero, lucido, alto come due asini, sempre attento e nervoso, orgoglioso e austero come se sapesse di essere superiore, di essere unico. Io riuscivo ad avvicinarlo e a renderlo tranquillo, anche per questo ero simpatico al suo padrone.

    – Mastro Mì, certo che questo Nicola è proprio un bravo aiutante, solo lui riesce ad avvicinare Fulmine e a farlo stare tranquillo mentre lo ferrate. Dovrebbe venire da me a lavorare, a fare lo scudiero come facevano una volta i cavalieri.

    – È vero, Nicola ha un dono speciale con gli animali, sembra quasi che ci parli e loro capiscono ma mi dispiacerebbe se decidesse di venire a servizio da voi, io sono vecchio e non ho tanta voglia di insegnare il mestiere a qualcun altro. Lui è con me da tre anni e ormai saprebbe fare da solo tutto il lavoro. Spero tanto che resti con me anche se a volte mi fa arrabbiare.

    – Ma io non voglio andarmene da qui, mi piace quello che faccio, e non vorrei passare le giornate chiuso nel palazzo sempre appresso a un cavallo, preferisco dove sono.

    – Tutti uguali questi pezzenti, basta che gli dai un po’ di confidenza e subito ti si rivoltano contro!

    – Perdonate Signorì, non volevo offendervi, soltanto che a mastro Mico gli voglio bene e mi sta insegnando un mestiere. Da voi, al Palazzo non saprei cosa fare tutto il giorno.

    – Come ti permetti di rivolgermi la parola? Non lo sai che qui il padrone sono io? E se decido che devi venire da me, ci vieni e basta.

    – Dovete perdonarlo Signorì, questi ragazzi di oggi sono troppo impulsivi, non sanno come vanno le cose e pensano di poter decidere da soli il proprio futuro. Ah, chissà dove andremo a finire! Però, per favore lasciatemelo qui, fra poco non riuscirò più a lavorare e vorrei lasciare la fhorgia a Nicola perché se lo merita ed è un bravo lavoratore.

    – Mastro Mì lo faccio per voi che avete salvato la vita al mio povero padre, altrimenti gliela farei abbassare io la cresta a questo scostumato! E adesso sbrigatevi che devo andare a spasso.

    – Grazie, grazie e tu Nicò, non ti permettere più di parlare così al Signorino e muoviti con quel mantice.

    Mortificato e con gli occhi pieni di lacrime per la rabbia, continuavo a soffiare col mantice. Il signorino adesso mi guardava con disprezzo e certamente avrebbe voluto vedermi piangere. Volevo scappare e urlare tutta la mia rabbia ma non potevo farlo e così inghiottii le lacrime che già mi velavano gli occhi e continuai a lavorare in silenzio. Ripensavo alle parole di mia madre che diceva sempre che non bisogna rispondere ai grandi anche se hanno torto e specialmente non bisogna indispettire i padroni che quelli ti rovinano per sempre.

    – Dai, mastro Nicola facci vedere come sei bravo a fare il fabbro. Falli tu i ferri se è vero che sei così bravo ma stai attento che se non sono perfetti te la do io la lezione che meriti. – Disse così, sbattendo la frusta contro gli stivali e guadandomi con aria di sfida.

    – Dai Nicò, vediamo un po’ se è vero che puoi farcela da solo.

    Così disse il mio maestro con un tono di incoraggiamento che mi fece dimenticare ogni rancore. Dovevo fare un lavoro, forse troppo importante per me. Avevo già provato a ferrare un vecchio asino e il padrone era stato contento. Sarei riuscito a ferrare anche Fulmine nonostante la grande agitazione che sentivo nascermi dentro.

    – Forza, il ferro è al punto giusto, batti forte come ti ho insegnato.

    Respirai profondamente e il grosso martello si alzò per cominciare il lavoro di modellaggio. I colpi spezzavano il silenzio carico di tensione e, piano piano mi sentii cullare da quella musica dolce e scintillante. Ogni volta che sollevavo la testa vedevo il pelo lucido del cavallo e sentivo la coda battere allo stesso ritmo dei miei colpi. Il ferro si piegava dolcemente come un rametto fresco di castagno e prendeva la forma che io cercavo di dargli. Adesso è il momento di smettere col martello, bisogna rimettere il ferro nella fucina e aspettare che torni ad essere rovente. Ecco, è pronto. Adesso è il momento più delicato, bisogna modellare il ferro e arrotondarlo con piccoli colpi continui, come fa il mio maestro che sembra che il martello vola, scivola dolcemente sulle curve e torna indietro ancora a lisciare le linee che perdono colore e polvere. Ecco ora bisogna rimetterlo nel fuoco a riprendere calore, preparo i ferri che mi servono per fare i buchi e intanto il ferro è tornato di quel rosso luminoso e giusto per batterlo come pasta.

    – Mastru Mì questo è più grande dei ciucci, gli faccio due buchi in più?

    – Bravo, Nicò, vai avanti così che va bene, lo sapevo io.

    – E bravo a mastro Nicolino, se impari a rispettare i signori così come hai imparato a piegare il ferro, farai lunga strada…

    – Come lunga strada? Io voglio restare qui non voglio andare in giro come un brigante, voglio stare a casa mia.

    – Ma cosa capisci? Il signorino vuole dire che farai fortuna col tuo lavoro, non dovrai dire grazie a nessuno, solo ai tuoi clienti, non avrai nessun padrone che ti può comandare come vuole, scusate Signorì, ma sarai libero.

    – Libero, non ho detto proprio così ma...

    – Libero, libero, altro che libero, guardate me, vorrei stare qua ma devo andare, verranno due operai ad aggiustarmi la ruota del mulino, sapete com’è, meglio esserci davanti se no, ogni mese bisogna riparare. Tu, invece, Nicò, se li fai così bene, non si consumeranno mai e allora, altro che lunga strada! Saranno altri a fare una strada lunga mentre tu aspetti.

    – Nicola è proprio bravo, ma voi Don Peppì, dicono che quella pietra si mangia troppa farina, e poi non vi lamentate se chi vi fa un lavoro lo fa che dura poco.

    – Sono tutte malelingue, la verità è che qui schiattano dall’invidia e s’inventano storie, arrivederci.

    – Avete ragione, tutte malelingue – disse il signorino facendo una smorfia alla serva – sanno solo parlare fitto fitto, citu-citu, e chissà quante ne inventano, guardate su di me quante ne dicono!

    Mentre Don Peppino si allontanava la serva mormorava qualcosa al Signorino e ridacchiava confortata dalle sue smorfie. Poi rivolgendosi al mio maestro e scuotendo la testa – Meno male che noi il mulino lo abbiamo fatto costruire da qualche anno, altrimenti…

    Continuarono per un po’ a parlottare di quella strana storia del mulino che si mangiava la farina. Come se ci fosse una bocca che faceva diminuire pian piano la farina fino a farla sparire, dicevano i maligni, così se andavi con un quintale di grano tornavi a casa con una cirmelluzza di farina... lui diceva sempre che i chicchi erano vuoti, pieni solo d’aria e allora certo che il grano non rendeva... qualcuno pensava che era riuscito a scavare un solco nella pietra, che allontanava la farina, non tutta ma qualche chilo sicuramente restava al mulino, così che i sacchi erano un po’ più vuoti... E lui diventava sempre più arzillo e se la rideva alle spalle di quei creduloni .

    – Certo che quello è un vero imbroglione bugiardo profittatore perché ruba poco e quel poco gli viene perdonato, anzi sembra che si divertano, ma tanti poco fanno tanto e così lui si arricchisce tranquillo col consenso e con l’invidia di tutti che in fondo vorrebbero essere come lui.

    – La verità, mastru Mì è che solo chi è furbo va avanti se no ti mangiano le mosche.

    – E quindi, secondo voi, dobbiamo diventare tutti furbi e attenti a fregare gli altri e a non essere fregati, non ci possiamo fidare di nessuno. E la carità, e il prossimo e...

    – Tutte chiacchiere di donnette e di preti, qui ormai se non ti stai attento vengono a prenderti a casa, altro che prossimo...

    – Ma quelli non sono certo furbi, sono solo un branco di disperati pieni di rabbia e umiliazioni che vivono come bestie dentro queste montagne, altro che furbi, quelli faranno una brutta fine, invece i veri furbi camperanno a lungo alle spalle degli altri, ma voi non avete certo paura di questi Briganti?

    – Io paura? Ma per chi mi avete preso. Certo che ad essere in una certa posizione si corrono più rischi...

    – Da me non verranno sicuramente...

    – E chi lo dice, i ferri di cavallo servono anche a loro...

    Mentre ascoltavo le loro discussioni avevo iniziato un nuovo ferro, e guardando il carbone brillare di calore, pensavo ai briganti. Ne parlavano tutti, un po’ con paura e un po’ con rispetto ma per lo più inventavano storie per farti spaventare. Una di queste che dicono che una volta hanno tagliato le orecchie a sette bambini perché avevano sentito un loro segreto e le hanno buttate nella fontana di Picolaro e, infatti, quando passi di sera l’acqua non fa rumore, scende in silenzio. Io veramente a questa storia non ci credo però a quella fontana non ci bevo e quando ci passo, faccio io rumore o canto, ma non perché ho paura di diventare sordo come l’asino di Zio Giovanni che beve solo lì, ma perché ci sono altre fontane...

    – Ti sei incantato al fuoco, Nicò, dai che è buono, lo vedo da qui.

    – Avete ragione è perfetto.

    I primi colpi di martello riesco a darli con forza, poi più passa il tempo e più il martello diventa pesante, per fortuna che il ferro si raffredda, altrimenti non potrei continuare.

    – Come va Nicolino, quel martello è troppo pesante per te? Che facciamo, torno quando ti sono venuti i muscoli da uomo?

    Avevo voglia di reagire e di dare una martellata al signorino.

    – Lasciatelo stare, ha dimostrato di farcela. Certo non ha ancora la forza di un uomo ma non gli manca l’intelligenza e la voglia di fare, sono queste le cose importanti, a dare martellate ce la fa qualsiasi idiota, a trasformarle in cose utili ce la fanno in pochi.

    – Ecco, va bene così?

    – Va benissimo e adesso mina il mantice che li finisco io, il Signorino ha fretta, lasciamolo andare.

    – No, no ce la faccio, è vero che sono stanco ma posso farcela, vi prego, lasciatemi continuare, ne mancano solo due.

    – Basta chiacchiere, allora sbrigati che il mantice lo mino io.

    Fuoco, caldo, sudore, scintille, polvere, vapore...

    Forse ha ragione mio nonno quando dice che i grandi non bisogna sfidarli perché poi ti perseguitano e ti fanno pentire mille volte della tua arroganza. Ma continuavo a stringere i denti e a battere sul ferro che pian piano prendeva forma.

    – Ecco questo è l’ultimo.

    – Sei stato molto bravo ma adesso basta giocare, non è ancora venuto il momento che ti lasci il martello e l’incudine. Vieni che ferriamo questo bel cavallo.

    Con rapidi gesti il mio maestro toglie i vecchi ferri, aggiusta con un coltello lo zoccolo e infine mette i ferri nuovi. Fatto da lui sembra un lavoro da niente come tutte le cose che sai fare bene ma io non sarei certo in grado di finire un simile lavoro.

    – Ecco fatto, Signorì, il più bel cavallo del paese è servito!

    – Grazie, mastru Mì e bravo anche tu piccirì, hai mostrato di avere carattere e questo è molto importante, fra non molto sarai padrone del mestiere, se vorrai venire da me, mi farà piacere. Non ti voglio obbligare, anche se lo potrei. Voglio persone fidate e non servi sottomessi che appena possono ti fanno del male, rubano, pisciano sulla tua farina, e mille altri piccoli dispetti che a scoprirli gli taglieresti le mani.

    – Grazie a Voi per l’offerta ma vi ho già detto che preferisco stare qui col mio maestro che mi insegna tante cose.

    – Va bene, va bene, ora non ho tempo da perdere con queste sciocchezze. Ricordatevi, mastro Mì, ho un debito con voi per quel giorno al fiume se no non starei certo qui a sentire i lamenti di un moccioso, mi stanno aspettando, arrivederci, vi farò portare la farina da Michele e, per complimento, un bel fiasco di vino nuovo, come quello di prima.

    – Grazie Signorì, salutatemi vostro padre, è tanto che non lo vedo, passerò a trovarlo per Pasqua, come al solito quando ci troviamo a festeggiare la vita, la nostra e quella di Nostro Signore, salutamelo tanto. È che non posso mai lasciare qui, sapete com’è...

    – Buona giornata e grazie di nuovo – vedevo i suoi lucidi stivali infilarsi nella staffa e con un balzo, portarlo in groppa a quell’enorme animale, pensavo fossero gli stivali a farlo saltare così in fretta e in modo così elegante sul cavallo. Ero abituato a vedere i contadini che salivano sugli asini, alcuni scalzi o con le pezze, altri con scarponi logori e lucidi di terra e questo era certo uno

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