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Pulp napoletano
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E-book165 pagine2 ore

Pulp napoletano

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Info su questo ebook


Il centro nevralgico degli eventi è un vicolo dei bassifondi napoletani, nel quale si incrociano le storie dei vari personaggi. La scena iniziale vede tre donne, Marisa, Amelia e Marilù, intente a preparare la conserva di pomodoro. In casa c’è anche Genny, figlio di Marisa e segretamente innamorato di Marilù, orfana di madre e adolescente come lui. Nico è l’unico amico del ragazzo e i due passano molto tempo a spiare Valeria detta Vale, una studentessa del palazzo di fronte abituata a prostituirsi alla presenza del suo fidanzato Achille, nascosto sotto il letto. Nello stesso edificio abita anche il nero Thomas, un serial killer con la mania di cavare gli occhi alle sue vittime. Una sera Valeria viene adescata dal marito di Amelia, ignaro di aver appena incontrato una vicina di casa, e da un suo collega. Le loro tresche amorose, tuttavia, li porteranno a incrociare la strada di Thomas, che trarrà con astuzia tutto il vantaggio possibile dall’ingenuità delle parti coinvolte. Gli eventi al centro dei quali egli si trova spingeranno Achille a una fuga disperata e a lottare per la sua vita in un luogo malfamato da sempre teatro di assoluta ferocia. La polizia, capitanata dal commissario Serpico, arriva persino a fare una retata nella medesima zona, ma non riesce a prendere il capo dell’organizzazione che vi si nasconde. A questi Thomas vende i filmati delle sue violenze per mantenere la sua anziana balia e anche la famiglia di Marisa. La psicopatia dello spietato criminale nasce dall’essere stato abbandonato da piccolo. Thomas è stato adottato da una famiglia ricca che non aveva alcun interesse per lui. Cava gli occhi alle donne che uccide per trovare quelli adatti da innestare sul corpo della sua prima vittima, che lui chiama Daisy. La scelta degli occhi per Daisy si rivela il fattore scatenante di un’irreversibile spaccatura nella famiglia di Genny che, sconvolto ma deciso a difendere la sua causa, si vede costretto a fare il possibile per ostacolare il cammino di Thomas verso la realizzazione di un folle sogno. Questi, però, ha dalla sua la complicità dell’anziana balia Agnese, insieme alla quale non esita a uccidere chi minaccia anche solo velatamente i suoi progetti. Genny dovrà affrontare una dopo l’altra terribili verità che riguardano la sua famiglia, nonché il luogo dove ha sempre vissuto, venendo risucchiato in un vortice di eventi sempre più sinistri e difficili da gestire, fino a quando non si troverà di fronte al suo destino: salvare la persona che ama pagando un prezzo altissimo per riuscire a fermare le oscure trame di violenza perpetrate dal suo nemico.
LinguaItaliano
Data di uscita27 giu 2018
ISBN9788833281094
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    Anteprima del libro

    Pulp napoletano - Vincenzo Carriero

    Cover

    Uno

    Quel giorno, nella cucina della signora Marisa, al terzo piano del condominio di vico Schiacciacocci, c’era molto trambusto.

    Cassette di legno, bottiglie di vetro, tappi e scorze. Un vero casino. Nu vero burdello.

    Avete mai provato a fare le conserve di pomodoro in casa? No? Bene, non ci provate mai! Ci vuole uno sforzo immane, una fatica da pazzi e alla fine: sporco e macchie di salsa dappertutto! Tanto impegno, poi, per un risultato spesso scadente. Perché le conserve di pomodoro bisogna saperle fare, altrimenti meglio lasciar perdere. Mi direte: «Almeno mangi qualcosa di sano!»

    Vi direi: «Ma quanto vuoi campare? Comprale al supermercato e festa finita!»

    Marisa e le sue amiche questo lo sapevano fin troppo bene, ma quella delle butteglie era una buona scusa per passare un po’ di giorni insieme a spettegolare.

    A sparlare della gente, dei vicini, degli amanti. Una buona scusa per scambiarsi confidenze e cose da donne lontano dagli impegni quotidiani, dai mariti, dalla casa e dai figli.

    Le butteglie da evasione: le avrebbero potute perfino brevettare.

    Quella mattina, poi, erano impegnate nell’imbottigliamento della salsa, un’operazione importante, fondamentale, perché se non riesce bene si perde tutto: i soldi, la fatica e pure il gusto. C’era chi aveva addirittura divorziato, per colpa delle butteglie venute male!

    «Ma se riesce... Hai presente il ragù della nonna? Lei sì che sapeva fare le butteglie. Usava solo foglie di basilico e pomodori dell’orto!»

    Sì, la nonna, belli tiempi. Mi ricordo la gente, la voglia di stare insieme a raccontarsi storie per passare il tempo, il rumore delle bottiglie di vetro che bollivano in un enorme pentolone. Mi ricordo l’odore del legno che bruciava e che sudavo perché faceva caldo. Mi ricordo luglio, mia madre, il suo compleanno e i suoi lamenti perché dopo doveva ripulire il pavimento.

    «’A prossima vota si site cazz che ve faccio fa ‘e butteglie!»

    E tutti noi scoppiavamo a ridere.

    Belli tiempi.

    Io mi mettevo sempre sotto lo stipite della porta della cucina e facevo finta di niente per non dare una mano. Come faceva Gennarino, l’unico figlio della signora Marisa. Il giovanotto se ne stava in disparte con un sorrisetto beffardo stampato sulla faccia. Abbastanza lontano dalle comari per non essere coinvolto nell’affare delle butteglie, ma sufficientemente vicino per spiare sotto le loro gonne. Ecco perché se ne stava sotto lo stipite della porta!

    La sua preferita era Marilù, una bella ragazza bionda, sedici anni, di buona famiglia.

    Portava sempre un vestitino di cotone leggero e scarpe aperte, dei sandali di cuoio con i lacci in tinta. Aveva un profumo che sembrava di mughetto, belle mani, un sorriso perfetto.

    Una volta, quasi per caso, Gennarino le vide il pelo biondo sotto la gonna, un pelo ‘nzisto che sfuggiva alle mutandine bianche di pizzo. Riuscì a vederlo quando gli caddero di mano le chiavi di casa. Si abbassò per prenderle e, proprio in quel momento, Marilù aprì un poco le cosce.

    Possibile che l’avesse fatto apposta?

    A Gennarino piaceva pensare che fosse proprio così.

    Quella mattina se ne stava buono con le braccia conserte e osservava la giovane donna lavorare alle butteglie. La guardava di sottecchi e quando la ragazza alzava gli occhi, verdi come il mare d’inverno, Gennaro indugiava per qualche secondo, sostenendone lo sguardo, poi guardava altrove, per vergogna. Da quando aveva perso il padre, infatti, il ragazzo non aveva più fiducia in se stesso. L’abbandono l’aveva toccato profondamente, l’aveva scosso, tanto che il ragazzo si era chiuso a riccio.

    «Gennà, figlio mio, tu vivi in un altro mondo. Esci, vivi la tua vita, tuocc ‘e femmene», diceva sua madre per spronarlo.

    Ciò nonostante, Gennaro aveva pochi amici, a scuola andava male e, probabilmente, avrebbe perso un anno. Voti troppo bassi, troppe assenze, nessun interesse per lo studio e tutto quello che a esso era collegato.

    «Tanto che me ne faccio della scuola?» ripeteva sempre, «è solo tempo perso, poi nun me piace proprio, meglio imparare un mestiere e cominciare subito a faticare. Magari divento pizzaioulo», concludeva parlando con lo specchio.

    Un amico Gennaro però ce l’aveva ancora: si chiamava Nicola, conosciuto da tutti come il Bove per via della stazza. I due erano cresciuti insieme.

    Nicola era un ragazzino paffutello coi capelli neri e riccioluti che gli cadevano sugli occhi vispi da figlio ‘e zoccola. Un po’ di lentiggini gli spruzzavano il viso e lo facevano assomigliare al piccolo Lucio, quello che cantava A me mi piace ‘a Nutella, avete presente?

    Insieme facevano una bella coppia di giovani briganti dediti a lunghe scorribande sui balconi del condominio di fronte allo Schiacciacocci. I due edifici, infatti, comunicavano per mezzo di un ballatoio diviso a metà da una porta di ferro arrugginita con la maniglia scassata e per questo sempre aperta. Le signore del palazzo di fronte ci andavano per stendere i panni, specialmente lenzuola e trapunte. I giovani virgulti, invece, ci salivano per fumare di nascosto l’erba oppure per farsi due chiantelle in santa pace. Ah, le prime esperienze!

    Belli tiempi.

    I due briganti, che gli inquilini del palazzo di fronte chiamavano i forestieri dello Schiacciacocci, ci andavano per appostarsi col telescopio che Nico aveva avuto in regalo per Natale. Il motivo? Molto semplice: spiavano di nascosto la signorina Valeria, una studentessa universitaria fuori sede che veniva da Salerno.

    Valeria, chiamata da tutti Vale, era troppo bella. Piccolina, grosse tette, capelli lunghi, neri e lucenti. Due pacche che ballavano una samba quando scendeva le scale. Era la tipica donna ndrunghete-ndranghete. Valeria, detta Vale, aveva da tempo abbandonato la carriera universitaria: troppe spese e poche prospettive di un impiego stabile e redditizio. Meglio far fruttare quello che la natura le aveva regalato prima che fosse troppo tardi, prima di innamorarsi seriamente di un uomo, prima di un figlio, di una famiglia. Prima del decadimento fisico, prima di perdere l’elasticità della pelle.

    Sì perché, sebbene facesse la vita, Valeria detta Vale sognava di sposarsi in chiesa, col vestito bianco, con un uomo bello al suo fianco. Un reddito certo, una station wagon, un cane di piccola taglia e una casa al mare o in campagna dove trascorrere le vacanze.

    Per il momento, però, Valeria viveva con un uomo che si considerava il suo fidanzato. Un tipo strano, grosso, con la panza e i capelli rossi. Una specie di mantenuto poco sveglio, dallo sguardo spento e uno strano vizio: ogni volta che Vale s’intratteneva con un uomo, lui, a insaputa del cliente, si nascondeva sotto al letto per ascoltare i gemiti e le parolacce.

    Una volta l’amplesso fu talmente vigoroso che la rete del letto non resse i colpi dei due amanti e cadde sulla faccia del rosso pervertito che, a proposito, si chiamava Achille.

    Meno male che il cliente non se ne accorse, altrimenti sarebbe scoppiato un vero macello. Fu grazie a Valeria, che lo prese per l’uccello e se lo trascinò in bagno: sai che figura ‘e mmerda se avesse sgamato Achille sotto al letto!

    «Tesò», disse la donna quando il cliente se ne fu andato, «ci dobbiamo mettere d’accordo, tu la devi smettere di infilarti sotto ‘o lietto. Se il cliente ti scopre, ci denuncia e passiamo un guaio serio.» Così dicendo, gli aveva preso la faccia fra le mani, stropicciandone le guance. Erano mosce e grosse.

    Achille aveva guardato Valeria detta Vale fisso negli occhi, con uno sguardo mortificato e un broncio da bambino capriccioso.

    «Ma io non voglio lasciarti sola… poi me piace», aveva replicato come se fosse una cantilena.

    «Lo so che ti piace, pure a me, lo sai, ne abbiamo già parlato, ma dobbiamo darci un taglio. Finirai per rovinarmi la piazza! Se si dovesse spargere la voce... addio business.»

    Achille aveva annuito lentamente, fissando un punto indistinto nello spazio. Poi, biascicando, aveva detto: «Vabbè, farò come dici, ma non ti scordare… tu sei solo mia.»

    «Sì, sono solo tua, ma devo pur guadagnare dei soldi. Sei d’accordo?»

    «Sì, sono d’accordo.»

    All’improvviso una voce si era fatta largo nella mente del rosso Achille, sgomitando per emergere fra molti ricordi.

    «Tu si solo n’ommo ‘e mmerda. Sei solo un povero demente, nu povero maronn. Tu si pazzo!»

    «Ma che dici, mamma?» aveva pensato molto tempo prima, guardandosi allo specchio.

    «Sì, sei solo un mantenuto! Lo dicevo io che nella vita non avresti combinato un cazzo!»

    Achille aveva scosso il capo per poi stropicciarsi gli occhi. Si era pure grattato le palle. Aveva le allucinazioni, era evidente, e adesso cominciavano a essere fin troppo frequenti. Specialmente da quando non prendeva più gli psicofarmaci. Vedeva sempre sua madre, la vedeva al suo fianco anche se era morta da tempo. La vedeva a volte vecchia, come in questo caso, a volte giovane e bella. Altre, con le sembianze di una bambina di sei anni.

    Ogni volta che si materializzava nella sua mente, però, erano solo offese e parolacce, violenze psicologiche e umiliazioni, proprio come quando era piccolo. A quell’età, per attirare l’attenzione della madre, Achille si pisciava sotto e bagnava tutto il letto.

    Ma invece di carezze e coccole, riceveva ogni volta improperi e botte da orbi. Che paliate!

    «Sei peggio di un cane, sei solo un piccolo bastardo. Ti ho fatto nascere solo perché ho dato ascolto a quel fallito di tuo padre. Fosse stato per me, ti avrei buttato nella spazzatura!» diceva sua madre sotto l’effetto dell’alcool.

    Le botte erano forti, le cinghiate lasciavano il segno e Achille subiva e piangeva. Piangeva la notte e la rabbia verso la donna montava come la panna. Più abbuscava, più pensava che tutto quell’orrore doveva finire, presto.

    Così un giorno aveva deciso di vendicarsi. Aveva scoperto la donna mentre giaceva in un sonno pesante, chimico, artificiale. Difficilmente si sarebbe accorta della sua presenza, difficilmente avrebbe avuto la forza di reagire.

    Le si era avvicinato in silenzio, attento a non far cadere niente, contando i passi.

    «Uno, due, tre, quattro.»

    Aveva preso un cuscino, l’aveva guardata bene un’ultima volta e, senza tradire la minima esitazione, le aveva tolto il respiro per sempre. Poi, come se niente fosse, era tornato a letto. E aveva fatto addirittura un bel sogno.

    Aveva solo undici anni.

    Tutti avevano creduto a un incidente, a un infarto, un’overdose, perché sua madre era dipendente da ogni tipo di schifezza. Faceva una vita dissoluta e, come Valeria, si prostituiva.

    Una notte Achille si era svegliato in un’auto: faceva freddo e c’era movimento, sentiva l’odore dei sedili in finta pelle, quelli di una Fiat Centoventisette bianca, la vecchia macchina di suo padre.

    Se ne stava rannicchiato sotto le coperte e sentiva. Sentiva la madre gemere sul sedile anteriore e non capiva se le stessero facendo del male oppure… possibile che stesse godendo?

    Allora si era fatto coraggio, aveva sbirciato da sotto la coperta, sporgendosi: aveva visto un uomo brutto, nell’ombra, che le stava sopra, fra le gambe. Quell’uomo non era suo padre, perché suo padre era morto da anni. In compenso

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