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La ricamatrice
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E-book321 pagine4 ore

La ricamatrice

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Info su questo ebook

«Quando le tovaglie o le lenzuola erano particolarmente grandi, tanto da creare quasi una piccola capanna, mi piaceva andare sotto il tamburello e osservare l’ago che entrava e usciva dalla stoffa. Era come se la mamma mi ricamasse il Paradiso intorno.»
.
Gianfranco ha otto anni e sogna d'incontrare sua madre Nives da giovane, quando sapeva sorridere come le ha visto fare in una vecchia fotografia. Un pomeriggio piovoso, mentre Nives ricama foglie e pappagalli su una tovaglia di lino chiaro, finalmente il suo sogno si avvera. Fa la conoscenza di una ragazza, con un sorriso talmente bello da farlo sentire in pace, che lo condurrà in un viaggio nel tempo attraverso gran parte del XX secolo, sempre in bilico tra ciò di cui è stato testimone o che gli è stato raccontato e ciò che semplicemente immagina. Un viaggio che, dipanandosi tra gli argini, le campagne e le piccole città di un remoto frammento della bassa Pianura Padana, lo porterà negli anni '30, lo renderà spettatore nell'alluvione del Polesine del ‘51, della vita nelle baraccopoli degli immigrati nella Francia del secondo dopoguerra e della rinascita italiana negli anni '60, di nuovo tra la gente della sua terra. È il bambino che ancora vive in Gianfranco, oramai vecchio, che racconta l'avventura di sua madre Nives e di un'epoca, di luoghi e di rapporti umani. Alla ricerca di una dignità che a tutti dovrebbe spettare di diritto e che invece Nives dovrà conquistare, per sé e suo figlio, inseguendo ingenuamente l'immenso sogno di felicità che fa girare il mondo.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita1 giu 2020
ISBN9788833665443
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    Anteprima del libro

    La ricamatrice - Maurizio Spano

    Maurizio Spano

    La ricamatrice

    La ricamatrice

    Maurizio Spano

    Quest’opera si ispira a fatti realmente accaduti, romanzati per esigenze narrative.

    Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi e alcuni eventi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali.

    Copyright © 2020 Maurizio Spano

    Collana Gli scrittori della porta accanto

    Pubblicato in accordo con Gli scrittori della porta accanto e PubMe

    Responsabile editoriale: Stefania Bergo e Davide Dotto

    Foto di copertina: © Maurizio Spano

    Progetto grafico: Stefania Bergo

    Progetto ebook: Valentina Gerini

    Prima edizione cartacea maggio 2020

    Prima edizione digitale giugno 2020

    Per essere informati sulle novità

    della collana Gli Scrittori della Porta Accanto

    visitate il sito:

    www.gliscrittoridellaportaaccanto.com

    UUID: 7329955c-1a50-4503-a3ef-5bfe3c67be86

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    CAPITOLO 1

    Dove l'acqua inizia a scorrere

    Ogni tempo è un tempo che prima non c'era

    Il paradiso intorno

    CAPITOLO 2

    La guerra è finita

    La scuola di cucito

    Un uomo qualunque

    CAPITOLO 3

    La sala da ballo

    Un lavoro lontano

    Una ragazza di campagna

    CAPITOLO 4

    Un fatto inatteso

    L'attesa di una lettera

    Aprile 1948

    CAPITOLO 5

    Lontani e vicini

    Tra promesse e realtà

    Una calda estate

    CAPITOLO 6

    Abbandonarsi al destino

    La piccola Rosa

    Le febbri maltesi

    CAPITOLO 7

    L'alluvione

    Gli sfollati

    La bambina scomparsa

    CAPITOLO 8

    Si torna a casa

    Il tempo dell'assenza

    Un incontro e una scelta

    CAPITOLO 9

    Il matrimonio riparatore

    Lontanissima Francia

    Una casa straniera

    CAPITOLO 10

    Un'altra casa

    Una coppia di amici

    Tante notizie impreviste

    CAPITOLO 11

    Come due stranieri alla frontiera

    Alla scoperta del mondo

    Svegliarsi dal sogno

    La tovaglia magica

    Il Paradiso intorno

    Qualche anno dopo

    EPILOGO

    Nella vetrina di un negozio

    CHI È MAURIZIO SPANO

    GLI SCRITTORI DELLA PORTA ACCANTO

    La collana

    Note

    Ringraziamenti

    A Ornella e Massimo

    seduti sull'argine del fiume

    a guardare le stelle

    Egli faceva parte del mio sogno, d'accordo...

    Ma anch'io facevo, in fondo, parte del suo sogno.

    (Lewis Carrol - Attraverso lo specchio)

    CAPITOLO 1

    Dove l'acqua inizia a scorrere

    Gli scalini finivano proprio dove l'acqua iniziava a scorrere. Era normale in quel periodo dell'anno. I fiumi e i canali s'ingrossavano sempre a novembre. La corrente trascinava fino al mare i colori grigi della pianura Padana attraversando il Polesine con il suo ruggito autunnale. Quasi come in quel novembre del 1951, quando l'alluvione aveva distrutto tutto: le case, le coltivazioni e anche i sogni di gran parte della mia gente.

    Quasi, per fortuna. L'uomo aveva riparato alla sua presunzione alzando gli argini e il grande fiume non faceva più paura. Un poco di timore questo sì: quando l'acqua della piena toccava il fondo dei ponti che, attraversandolo, collegavano il Polesine e le isole del suo delta al resto del mondo. Per qualche giorno si bloccava il traffico e poi via, la vita riprendeva tranquillamente.

    Questo valeva per il Po. Per il Canalbianco, il corso d'acqua che in quel momento mi stava scorrendo a pochi centimetri dai piedi, il problema non era così serio, anche se da pochi anni gli argini erano stati comunque rinforzati e costruite, qua e là, proprio di fronte ai gruppi di case che stavano di fianco alla strada arginale, delle piccole scalinate che servivano, per lo più, ai pescatori e a quelli che tagliavano e raccoglievano le canne, per scendere dall'argine al limite dell'acqua e poter lavorare.

    Sull'argine c'era una strada bianca, che d'estate si riempiva di polvere e d'inverno di pozzanghere. A dire il vero, c'erano dei signori, chiamati stradini, che passavano ogni tanto a riempire le buche con dei sassi. Tuttavia, loro mettevano i sassi e poi pioveva e passavano i trattori e tutto ritornava come prima.

    Io avevo fatto amicizia con uno dei signori che aveva lavorato per sistemare gli argini. Guidava una gru grandissima che serviva per sistemare delle piastre di cemento armato proprio sulle sponde. Era simpatico e parlava un dialetto diverso dal mio, perché veniva da lontano. Mi regalava sempre delle caramelle alla menta, gommose. Io non lo sapevo, però si era anche innamorato di una ragazza che abitava proprio vicino a casa mia. Poi si sarebbero sposati e sarebbero andati a vivere da un'altra parte: ma questa è un'altra storia.

    Nella storia che voglio raccontarvi, quel giorno c'era un pallido sole che le nuvole stavano coprendo e faceva freddo ed io ero seduto sui gradini della scalinata che portava all'acqua, proprio sull'argine di fronte alla casa della famiglia della mia mamma, Nives. Quel giorno io avevo otto anni ed erano le due del pomeriggio. E stavo aspettando la mia mamma.

    Prima di continuare però, vi devo dire che io non lo so se per riuscire a raccontare questa storia dovrò restare un bambino oppure, pian piano, diventare grande. Pertanto lascerò che siano le parole a decidere da chi e come vogliono essere pronunciate.

    Quello che so è che ho avuto il privilegio di entrare, un giorno di novembre di tanti anni fa, sotto un'incantevole tovaglia ricamata e di incontrare, all'improvviso, mentre parlavo con la mia mamma, una bellissima ragazza che mi ha parlato di sé e del suo sogno. Quello che neppure lei pensava si sarebbe mai realizzato.

    E invece...

    Avevo fame, perché non avevo ancora mangiato. Non mangiavo se non c'era la mia mamma. Nella casa dove abitavo c'erano un sacco di persone, ma erano soltanto dei parenti. Per questo aspettavo sempre la mia mamma. Perché lei era il mio mondo, tutta la mia vera famiglia, e se lei non mi preparava da mangiare, io non mangiavo.

    Non mi piaceva aspettarla in casa. In quella casa io ci stavo male, perché lo sapevo che nessuno mi voleva bene. Allora, quando tornavo da scuola assieme ai miei amici, mentre loro andavano a sedersi a tavola con le loro famiglie, io mi sedevo sugli scalini e aspettavo, aspettavo sempre che la mia mamma tornasse. L'aspettavo anche se pioveva. Qualche volta, una mamma dei miei amici veniva e mi diceva di andare a casa sua a mangiare, che poi l'avrebbe detto lei alla Nives. Ma io non volevo. Io volevo soltanto aspettare la mia mamma, perché io ero il suo bambino e lei... lei era tutta la mia vita.

    Non racconterò delle altre persone che abitavano in quella casa, a Nives non sarebbe piaciuto. Onestamente, a lei non sarebbe piaciuto nemmeno che raccontassi la sua storia. Non dava peso alla sua vita. Mi diceva sempre che a lei quella vita non piaceva, che non aveva fiducia in nessuno e che la gente era cattiva.

    La mia mamma aveva sempre sorriso poco da quando l'avevo conosciuta. Soltanto nelle fotografie con me in braccio ogni tanto rideva.

    E quando guardavo quelle foto, che teneva in una scatola delle scarpe, dentro un cassetto del comò della nostra stanza da letto, a me pareva che lei fosse stata felice. C'era un mucchio di foto con lei sorridente e anche le altre persone, i suoi amici e i suoi parenti, nelle fotografie ridevano sempre. Soltanto in quelle di prima della guerra non rideva nessuno. Ma allora c'era tanta miseria, mi diceva sottovoce la mia mamma, e non c'era niente da ridere.

    Lei parlava poco, io invece chiacchieravo sempre e le facevo un sacco di domande e lei mi ascoltava. Ma non mi dava tutte le risposte. Per esempio, questa faccenda che prima rideva e dopo no, non aveva mai voluto farmela capire. Diceva che qualcuno cui voleva bene l'aveva imbrogliata: due volte. Ma non parlava mai di questa persona e non voleva che qualcuno ne parlasse, né in bene né in male.

    Quella persona era mio padre.

    Io non l'avevo mai visto. Mio padre viveva in Francia e faceva l'operaio e Nives diceva che non era un uomo cattivo. Era onesto, anche se l'aveva imbrogliata: due volte. Mi diceva che io non dovevo serbare rancore per quest'uomo, anche se mi aveva abbandonato. Non si doveva odiare nessuno e bisognava perdonare tutti. Perché pure lui avrà avuto le sue ragioni.

    Io queste ragioni non le capivo, perché tutti avevano il papà e io no. Diventando grande, poi, avrei imparato che moltissime persone crescevano senza papà o senza mamma o senza tutti e due. Ma allora ero un bambino e credevo che soltanto io fossi costretto a vivere senza papà.

    Nives era una ragazza bellissima da giovane. Però era diventata vecchia presto, perché lavorare nei campi invecchiava tanto e lei lavorava molto.

    Ricamava e faceva tante altre cose, come moltissime donne della sua generazione, bisognava sapersi arrangiare perché erano tempi difficili da viverci dentro e non c'erano soldi e neppure giocattoli.

    Lavorava anche nei campi, impunturava i vestiti, puliva la casa e teneva in ordine il grande cortile. M'insegnava a disegnare e colorare sul quaderno dei compiti per casa. Io frequentavo le elementari e non ero tanto bravo a disegnare. Lei sì. In matematica no: le tabelline, diceva, non le erano mai entrate in testa. Ma a disegnare era brava.

    In quel periodo preparava anche da mangiare in una mensa della parrocchia per studenti, in centro città. E siccome noi abitavamo in campagna, a tre chilometri di distanza, lei ci andava in bicicletta, a lavorare. Per questo l'aspettavo sempre per mangiare quando c'erano le scuole aperte. Soltanto che prima delle due e mezza o tre del pomeriggio non tornava.

    Soprattutto, Nives ricamava. E passava ore, giorni, china su tovaglie, tende per le finestre, lenzuola, centri tavola grandissimi. E sembrava non essere mai stanca. Ed era normale pensavo: le mamme non sono mai stanche. Già, proprio così. La maestra qualche volta ci diceva che anche le mamme si stancano come tutti, però io non ci credevo. Perché, quando lo chiedevo alla mia mamma, lei mi diceva sempre di no, e lei non diceva mai le bugie.

    Un giorno, mia cugina Silvana, che era già grande e procurava il lavoro alla mamma, entrò in casa e appoggiò sulla tavola una stoffa grandissima, ma molto sottile. Doveva costare un sacco di soldi, perché ne parlavano con rispetto, come qualcosa di prezioso. Poi mise sulla sedia la scatola con le matasse di filo colorato e i cartamodelli con i disegni da stampare. Io ero curioso, facevo un sacco di domande. Da tutte quelle cose, doveva uscire una tovaglia da 24 posti, piena di fiori, rami, foglie, pappagalli colorati: mesi di lavoro. A me quella storia mise subito il buon umore, perché, per qualche mese, avrei trovato un bellissimo posto, dove stare a sognare.

    Quando le tovaglie o le lenzuola erano particolarmente grandi, tanto da creare quasi una piccola capanna, mi piaceva andare sotto il tamburello e osservare l’ago che entrava e usciva dalla stoffa. Era come se la mamma mi ricamasse il Paradiso intorno.

    Ricamare non è facile. Anche sistemare la tovaglia sul tamburello non lo è. Il tamburello è proprio come quello che serve per suonare, solo che non ha i sonagli di fianco e nemmeno la pelle. Si deve tendere un pezzetto di stoffa alla volta per poi ricamarlo.

    Nives usava un tamburello di legno: in pratica, un cerchio con due assi avvitate sul perimetro interno per poterlo ruotare. Queste, a loro volta, erano unite alla base con un'altra stecca. Questa era fissata a un palo che andava fino a terra ed era appoggiato su una base rotonda che teneva in piedi tutto, come un ombrellone. La mamma si sedeva e poggiava i piedi sulla base. Il pezzo di tovaglia da ricamare era stretto sul bordo del tamburello con un cerchio di legno un poco più grande, avvolto con la stoffa, messo come una corona in testa al re o i cerchietti per stringere il velo in testa alle dame antiche.

    Nives usava anche il ditale per spingere l'ago con il filo attraverso la stoffa. Perché ci sono stoffe pesanti e dure e altre leggere e trasparenti.

    Ogni tempo è un tempo che prima non c'era

    Il giorno che stavo sotto il tamburello, Nives aveva quarantatré anni ed era triste. Era il giorno che l’avevo aspettata sugli scalini. Poi lei era arrivata, prima che cominciasse a piovere, e avevo mangiato: minestra di piselli, del pane e un formaggino, di quelli teneri fatti a triangolo che stavano in una scatola rotonda, con una mucca e una bambina disegnate sopra.

    «Gianfranco sta fermo, altrimenti, se mi pesti i piedi, il tamburello si muove e non riesco a ricamare» mi disse quel pomeriggio.

    «Va bene mamma, sto qui solo un poco, poi vado fuori.»

    Lei lo sapeva che invece sarei rimasto lì sotto, perché fuori pioveva e c'era tanto fango nel cortile e, se avessi voluto giocare con qualcuno, sarei dovuto andare a casa dei miei amici, perché loro non venivano mai a casa mia. Anche i miei amici non si sentivano bene in quella casa, non era un posto bello per dei bambini perché, anche se nessuno ci faceva del male, l'amore non c'era e i bambini queste cose le capiscono subito. A dire il vero, una sorella ce l'avrei avuta se non fosse scomparsa tanti anni prima. Poco dopo la fine della guerra. Ma di questa cosa Nives non parlava mai, perché era successa tanti anni prima, quando io non c'ero.

    Erano le tre del pomeriggio. A quell'ora mi piaceva anche giocare con i soldatini. Quelli piccoli piccoli, perché costavano poco e così la mamma poteva comprarmeli. Quelli verde scuro erano i buoni e quelli di tutti gli altri colori i cattivi. Però facevo confusione e siccome tutti, a parte la mamma, il pomeriggio andavano a letto, lei non voleva che facessi rumore, per non disturbare.

    Così stavo sotto il tamburello e guardavo i ricami intorno a me.

    Nives aveva sempre delle calze di lana che le arrivavano fino al ginocchio e una gonna di panno che le copriva le gambe. Non ho mai visto la mia mamma in pantaloni. Mai. A lei non piaceva andare in giro con le gambe e le braccia troppo scoperte, neppure d'estate. Anche se lavorava nei campi non le piaceva prendere il sole. Con la mia mamma non siamo mai andati al mare in spiaggia. Non credo ci sia mai andata neppure quando era giovane.

    Quel pomeriggio, la mamma stava ricamando delle foglie. Io ero sotto la tovaglia, fermo, con la testa appoggiata alla stoffa, sotto un ramo giallo e verde. Più giù c'era un pappagallo con delle piume rosse. In casa c'era poca luce, ma quella che veniva dalla finestra bastava alla mamma per lavorare. Io ero quasi al buio lì sotto.

    «Stai attento che l'ago ti punge» mi ripeteva la mamma.

    Nives era velocissima a ricamare e facevo fatica a vedere l'ago e le mani che si muovevano. Stava ricamando l’interno delle foglie, sembravano quelle delle viti. Usava un punto particolare, mia cugina diceva che era difficile e solo quelle brave riuscivano a farlo bene. Si chiamava punto Rodi, come un'isola greca e il colosso di pietra, e la mia mamma era brava. La stoffa della tovaglia era leggerissima, credo fosse di lino chiaro, perché si dovevano vedere bene i colori del ricamo. La mia mamma ci aveva messo dei giorni per stampare il bosco e gli animali da ricamare, anche sui ventiquattro tovaglioli. Per stampare si metteva il cartamodello sulla tovaglia e si passava sopra con il ferro da stiro caldo, stando attenti a non incandire la stoffa, che voleva dire che diventava nera e puzzava di bruciato, perché questo sarebbe stato un guaio grandissimo. E Nives, almeno nel tempo che ci ho vissuto assieme, non ha mai incandito una tovaglia. Passato il ferro da stiro, si aspettava un poco e poi si tirava via la carta e il disegno si trasferiva dal cartamodello alla tovaglia come per magia. Però non era magia, era una cosa chimica che mio cugino mi aveva spiegato perché lui era perito agrario.

    Avevo fatto pipì dentro il vaso di ferro smaltato di bianco. L'avevo fatta lì perché non potevo uscire. Il bagno in casa non c'era. Era dentro una specie di piccola baracca di legno vicino alla stalla. Dietro c'era il letamaio, così la cacca e la pipì andavano direttamente là, assieme al letame delle mucche. Io mi vergognavo un poco di questa cosa quando andavo al catechismo in città, perché i bambini di città, anche quelli delle case popolari, avevano il gabinetto in casa. Invece, quando andavo a scuola, non mi vergognavo, perché fino alla terza elementare si andava in quella vicino alla chiesetta, sempre in campagna, e i miei amici di campagna facevano quasi tutti i loro bisogni fuori di casa. Due di loro no, perché il loro papà faceva il muratore e si era fatto la casa nuova con il gabinetto dentro.

    Mi ero anche lavato nella bacinella grande che la mamma metteva a scaldare vicino alla cucina economica. Però non ci si lavava ogni giorno come si fa adesso.

    La cucina economica faceva un sacco di cose. Serviva a fare da mangiare, a scaldare la stanza o l'acqua per riempire le vaschette che tenevano i piedi al caldo quando si andava a letto. Anche per stenderci sopra i panni ad asciugare se fuori era brutto tempo. Bisognava stare attenti però, perché se i panni toccavano le parti in ferro bollente si potevano bruciare o, appunto, incandire. Io avevo addosso delle cose incandite, perché, se proprio non c'erano i buchi, i vestiti si mettevano lo stesso.

    Era un pomeriggio come tanti altri. Si facevano le cose che si facevano sempre e nessuno parlava. In casa mia non si parlava tanto, spesso si urlava e sempre di soldi e vacche e venivano altri parenti e urlavano anche loro. Soltanto la domenica pomeriggio, quando passavano le mie cugine grandi con le paste, si beveva il caffè e si chiacchierava. Di solito i maschi urlavano e le femmine parlavano, mentre i bambini di solito parlavano o piangevano.

    A me nessuno ha mai dato le botte. Soltanto una volta, la mia mamma mi ha dato una sberla, perché ero andato in città, a Ponte del Delta, in bicicletta il giorno dopo che avevo imparato e lei si era spaventata. Ero sparito e nessuno sapeva dove fossi andato.

    A me nessuno ha mai dato le botte ma neppure le carezze. E neanche i baci. Non si usava dare i baci. E neppure dire: «Ti voglio bene» si usava. Io non l'ho mai sentito dire. Una volta, quando avevo sei anni, ero a casa dei miei amici che erano i figli del muratore a guardare la TV dei Ragazzi e ho visto il muratore dare un bacio a sua moglie. Ecco, quella è stata la prima volta in vita mia che ho visto dare un bacio.

    Quando si fanno certi ricami, una mano sta sopra e muove l'ago, l'altra tiene fermo il tamburello oppure sta sotto e prende l'ago o il filo o la stoffa o fa un sacco di altre cose. Nives mi diceva sempre che per ricamare, come per fare tutte le cose della vita, ci vuole pazienza. Anche per sopportare chi urla ci vuole pazienza. La mia mamma aveva tanta pazienza, anche con me. Perché io non urlavo, però facevo tante cose che fanno perdere la pazienza. Le cose viste da dentro sono diverse. Anche i colori sono diversi, perché i colori non esistono, ma sono colorati dalla luce. Questo me lo aveva detto mio cugino che faceva il perito meccanico. Se c'è buio i colori non ci sono e l'aveva scoperto il signore che è diventato famoso perché gli era caduta una mela in testa. In italiano si chiama Niuton, in inglese invece non lo sapevo, perché allora, a scuola, l'inglese non si faceva e la mia mamma aveva fatto la quarta elementare e non poteva insegnarmi.

    Però era andata per qualche tempo in Francia. Ma non le piaceva il francese. Tuttavia sapeva che l'uomo che vendeva il pane si chiamava boulanger.

    Quando sono diventato un poco più grande e andavo con la bicicletta in città, nel panificio della Maria a prendere il pane da solo, prendevo sempre mezzo chilo di pane comune francese. Quello con l'olio no, perché costava di più. Il pane biscotto, invece, lo portava un signore che abitava a Sorbella, un paese lì vicino. A casa della mia mamma si mangiava dentro il latte. Invece dai miei amici anche con il salame, perché loro avevano il maiale e il loro papà faceva i salami. A casa mia c'erano soltanto le mucche che facevano il latte. C’era anche il caffè qualche volta. Ma non era il caffè che c'è oggi. La mamma comprava una miscela che si chiamava Leone e faceva finta che fosse caffè. A me non piaceva.

    Io bevevo il tè. La marca del tè era la stessa di quella del dado per fare il brodo: però la mia mamma non lo usava per fare il brodo, perché il brodo lo faceva con le galline. Poi quello che rimaneva delle galline si mangiava lesso. A me la carne lessa non piaceva perché sapeva da freschin, che è un sapore o un odore che si dice soltanto in dialetto. Io da bambino pensavo che una cosa che sa da freschin, in italiano si dicesse che sa da freschino perché i veneti spesso tirano via la vocale con cui finiscono le parole. Però la mia maestra aveva detto che non era così e che i dialetti in Italia cambiavano secondo le regioni e le provincie Anche tra le città e le frazioni e, a volte, anche da una strada all'altra della stessa città.

    A me piaceva la gallina arrosta. Ma c'era soltanto la domenica. Mentre la carne non di gallina la mangiavo a Natale e Pasqua.

    Io comunque sono stato molto fortunato, perché ho sempre mangiato. Ero molto magro, però mangiavo. Il cibo non ci è mai mancato. Avevamo l'orto, le galline per le uova e la carne e le mucche per il latte. La mia mamma diceva sempre che in Africa i bambini non mangiavano. Però era un posto molto lontano e io mi sono accorto che esisteva solo quando hanno comprato la televisione. Ho visto anche i bambini che morivano di fame: quelli del Biafra. Erano tutti neri, però la mia mamma diceva che erano bambini come me. In Francia li aveva visti davvero. Io, il primo uomo con la pelle nera l'ho visto un’estate, un ragazzo che veniva dall'Etiopia a casa dei miei amici. Il papà e la mamma dei miei amici erano persone molto speciali. Volevano bene a tutti e questa cosa a me piaceva, perché volevano bene anche a me.

    Adesso però non parlerò più di me. Devo iniziare a raccontare la storia della mia mamma. Tutte queste cose le ho dette perché ogni tempo è un tempo che non c'era prima e non c'è neppure dopo e, per capire bene le persone che ci vivono dentro, bisognerebbe cercare di capire, almeno un poco, il modo di vivere in quel tempo.

    Forse spiegare davvero non si può, perché l'amore o il dolore sono misteri, come il motivo per cui, se la mamma lasciava un piccolo spazio sulla sedia dietro di sé quando ricamava, subito il gatto bianco andava lì. Anche il cane Pucci, invidioso, ci andava. Per fortuna erano cuccioli, come me, e per i bambini non ci sono misteri più grandi di altri ma soltanto dei piccoli perché.

    Il paradiso intorno

    Il lino è un tessuto stupendo, trasparente e denso allo stesso tempo. Bianco e apparentemente caldo, anche se spesso è usato per i vestiti estivi. Era bello esserne avvolti, come in un bozzolo pieno di luce. Siccome poi la

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