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Incantesimo d'amore
Incantesimo d'amore
Incantesimo d'amore
E-book197 pagine2 ore

Incantesimo d'amore

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Info su questo ebook

Giuseppe è un impiegato dell’università di Salerno, un quarantenne che non riesce a diventare adulto del tutto. Maria è una trentenne, commessa di un negozio di articoli sportivi in un paese della Basilicata, intrappolata in un costante senso di inadeguatezza. Due esistenze ordinarie, due vite semplici che, però, vengono stravolte nello spazio di una settimana natalizia molto particolare... Giuseppe, tornando al suo paese per le vacanze di Natale, compra in autogrill un pupazzo. Maria riceve in regalo un oggetto analogo da uno strano giocattolaio con la barba lunga e bianca che, guarda un po’, assomiglia a Babbo Natale. E un pupazzo simile lo possiede da più di cinquant’anni chiuso in un armadio Carmelina, la nonna di Maria… e sia quel che sia, una concatenazione di eventi – in cui si incrociano magia e amicizia, incoscienza e paura, pozioni antichissime e modernissimi brand – li porta davanti alla fatidica questione: esiste la felicità? In questo romanzo, Mellone attinge dalle storie popolari di Lucania e Puglia, dallo spirito delle gravine e dei borghi, per confezionare un romanzo surreale, onirico, spiazzante, dove antichi druidi incontrano streghe moderne, e dove il linguaggio della fantasia più sfrenata incontra le vicende di un qualunque Natale di periferia.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2016
ISBN9788868224998
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    Anteprima del libro

    Incantesimo d'amore - Angelo Mellone

    Scotellaro

    Incantesimo

    d’amore

    Pisticci, 16 dicembre 2016

    Al rione Dirupo

    «Mari’, ti ricordi quando nonna tua t’arraccuntava la favola della giovane di Bernalda e del bello stalliere?»

    E sì che Maria la ricordava quella favola.

    Fuori dalla finestra c’era un tempo da lupi, e nuvole basse si facevano trasportare a ritmo svelto dal vento gelido. Quando cominciava così a salire su per le colline, la corrente pareva sparata a cannonate d’aria.

    Il vento nascondeva i segreti, zittiva la loro voce.

    La vecchia stava lì di fronte, incurvata su una piccola sedia a dondolo dai contorni seghettati, non più grande del suo corpo esile come un grissino scannato di ossa, un maglione infeltrito di lana bluastra poggiato sul solito vestitino a fiori.

    La storia della giovane patrizia e dello stalliere gliel’aveva raccontata non si sa quante volte e per quanti anni. Ma solo quando cominciava la settimana della vigilia di Natale.

    Ancora Maria non capiva perché, tra tante novelle che sua nonna conosceva, avesse scelto proprio quella, così triste e sconsolante da essere fastidiosa all’ascolto, per accompagnare i giorni in cui si impacchettavano i regali e la spesa dal droghiere era più ricca del solito. Ma non c’era modo di dissuaderla, come se evitare quel racconto costituisse un peccato mortale. Come se in assenza di quella trama cupa il Natale sarebbe stato meno felice e autentico.

    Così Maria sfoderò la risposta che ormai mandava a memoria.

    «Nonna bella, certamente, e sempre lo stesso effetto mi fece: ogni volta mi venne di versare lacrime di tristezza prima e di speranza poi.»

    Alla sua risposta, nelle sue intenzioni così partecipe, la nonna non aveva granché dato l’impressione di avere udito le parole della nipote. Posò la mano destra su un bracciolo – le vene che pulsavano in mezzo alle macchie di melasma indicavano che lo stesse stringendo – e disse: «Le lacrime, se sono buone, aiutano la terra a dare buoni frutti, fanno crescere gli alberi dritti verso il cielo.» Poi si girò di nuovo verso il televisore e alzò il volume.

    Talvolta Maria non riusciva ad afferrare subito il senso di alcune frasi della nonna, le sembravano oracoli pescati nel passato, ma non ci faceva troppo caso. Quando capitava che Carmelina parlasse in modo incomprensibile, lei la perdonava.

    In ogni caso c’era poco tempo per riflettere. Il momento era risolutivo: a Uomini e Donne un tronista moro, bello come poteva essere bello nella ventina e nel lago verde dei suoi occhi, stava litigando con una ragazza vestita con poco o nulla, un tubino nero che pareva ristretto da un lavaggio, le gambe accavallate per scoprire ancora di più le cosce davanti all’occhio famelico di un’inquadratura dal basso.

    «Nonna, magari hai ragione tu. Non è per maleducazione, ma preferisco che me la racconti domani la favola, che teniamo più tempo. Io tra poco devo correre ad aprire il negozio, sennò Fausto mi urla e io ci resto male, ché sono quattro giorni che lavoriamo talmente tanto che i piedi miei e delle altre due colleghe sono gonfi come zampogne.»

    Mentre parlava, Maria continuava a fissare lo schermo. Stava osservando attentamente quella tipa, che schiacciava il suo accento napoletano in una bocca ornata di rossetto color magenta e sicuro teneva l’alito al sapore di gomma da masticare. La trovava di un’insopportabile volgarità. Quando vedeva una così, Maria associava al termine sgualdrina una piccola lista di aggettivi osceni che per pudore rifiutava di elencare anche a se stessa. Chissà cosa avrebbe pensato sua madre se l’avesse vista conciata a quel modo in diretta televisiva. Pensa che disonore.

    Erano donnacce come quelle che guastavano le idee dei maschi sulle femmine: più a loro agio mezze nude che vestite in modo decoroso, avvezze a donare sesso facile in cambio di attenzioni altrettanto fugaci. Maria questa volgarità di Uomini e Donne, vedi un poco!, proprio non riusciva a tollerarla, se la sentiva come una crema spalmata addosso, una sorta di insulto indirizzato indistintamente a tutta la specie di cui anche lei faceva parte.

    Ma sia quel che sia, e fosse quel che fosse, fatti salvi i doverosi giudizi morali e le altrettanto ovvie sentenze di condanna di quel sudiciume, nelle due ore abbondanti di pausa in cui il negozio restava chiuso, di Uomini e Donne, lei e sua nonna, non potevano farne a meno. In un certo senso, per Maria la trasmissione era il metro di paragone che utilizzava per misurare la distanza tra lei e quella razza di donne differenti.

    Carmelina continuò.

    «Amore bello, quando vuoi tu, quando decidi tu, tanto nonna sempre qua sta» e si sistemò la sottana che si era impigliata con l’uncinetto.

    «Grazie. Oggi non tengo proprio testa di ascoltare storie.»

    «E come mai? Infatti ti vedo che sei triste, tieni la faccia scavata.»

    Al che Maria prese fiato per un secondo «No no, non preoccuparti, davvero. È che se potessi me ne starei qua senza tornare in negozio. Già sto pensando a quelle duecento scatole di scarpe che devo sistemare in magazzino. Mado’ quanta polvere.»

    «Mari’, vabbuò, senti a nonna tua: hai gli occhi tristi.»

    «Ma no…» rispose, e Carmelina era forse l’unica a cui Maria lasciava penetrare quella che altri avrebbero chiamato corazza e lei più semplicemente definiva fatti miei.

    «Non dirmi bugie. È successo qualcosa? Me lo vuoi raccontare? Dillo a me.»

    No, non stava mentendo. Davvero non era successo niente. E forse proprio quello era il problema.

    A Pisticci non succedeva quasi mai niente, o almeno niente che avesse dignità di venire ricordato e raccontato. Le cose interessanti succedevano altrove. Le persone di successo andavano altrove.

    E sì, c’era il fatto che i giovani appena finivano le scuole superiori cercavano di scappare da Pstizz senza manco voltarsi indietro. Chi poteva non ci pensava un attimo ad andare via, e arrivederci di corsa a radici, parenti, amici, affetti, quel poco che serviva si infilava in valigia o restava connesso con lo smartphone. Quelli che rimanevano, di solito, a meno che non fossero figli dell’avvocato, del farmacista o di un sindaco ammanicato, erano i meno curiosi, i meno volenterosi, o c’avevano provato senza successo, erano quelli che non ce l’avevano fatta.

    Gli sconfitti. I falliti li chiamava Maria: quando si trovava a chiacchierare con qualche turista a Marina di Pisticci – o quando stava in trasferta, a Metaponto o Marina di Policoro – e doveva spiegare questa divaricazione così dolorosa, faceva sempre l’esempio di due squadre di calcetto nate nello stesso vivaio e che, a un certo punto, si erano divise tra quelli che avevano da giocarsi un po’ di talento e i brocchi.

    I falliti, appunto. Lei si annoverava in questo gruppo di sfortunati mentre percorreva i trecento metri scarsi che dividevano casa sua e di sua nonna dal negozio. Seicento metri scarsi andata e ritorno, ottocento quando decideva di fare un salto al bar di Piazza Umberto I o a Piazzetta di Sant’Antuono per fare la spesa al mercato, accendere un cero a Sant’Antonio Abbate e recitare qualche preghiera davanti al dipinto della Vergine Maria Immacolata. Per questo teneva sempre un rosario d’ulivo nella borsa, così da restare concentrata e non smarrirsi in altri pensieri appena il profumo d’incenso assaliva le sue narici e le provocava un senso leggero di straniamento.

    Sia quel che sia, fosse quel che fosse, ottocento metri di percorrenza erano davvero troppo pochi per liberare la fantasia. La monotonia di un tuffo in acque scure.

    Lei di quel percorso sapeva tutto. Dei ciottoli bianchi e scivolosi delle vie del centro teneva ormai a mente ogni scanalatura, ogni intarsio ricavato dal vento e dalla pioggia. Dei citofoni a cui qualcuno potesse rispondere aveva pigiato ogni pulsante, e certamente più di una volta. Delle poche vetrine che restavano aperte tutto l’anno conosceva ogni dettaglio, e l’unica commessa con cui aveva stabilito, e pure a fatica, un rapporto che si approssimasse il più possibile all’amicizia, era Giustina, la ragazza della merceria chiamata dai pisticcesi tengo tutto. Giustina vestiva in salopette e sneakers in qualunque momento dell’anno. Ogni tanto provava senza successo a portare Maria a ballare, dalle parti di Potenza. All’amica aveva anche strappato la promessa – promessa mai esaudita – di andare a consumare l’alba in un locale di Salerno. Cappuccino e cornetto al bar Nettuno sul lungomare Trieste, ognuno aveva il sogno suo e quello era il sogno di Giustina.

    E poi Giustina aveva un vizio che Maria riteneva insopportabile. Navigava. Non in mare però, stando ferma a digitare come un’ossessa sul quel diavolo di smartphone. Brutta che si potesse dire brutta, no, ma certo non si poteva dire che facesse fare volteggi agli uomini quando camminava per strada. Era tonda come un uovo sodo, i capelli mezzi neri mezzi bordeaux, i piedi a paperella e le ginocchia incavate. Insomma, non è che fosse la compagna migliore per farsi puntare gli occhi addosso dai maschi.

    Giustina però dell’aspetto fisico se ne fregava abbastanza perché aveva un carattere votato alla curiosità più che alla rassegnazione. Era davvero una viaggiatrice, seppure a modo suo. Fisicamente stava a Pisticci ma la capa sua stava sempre in giro su Internet. Lei diceva che l’unico mezzo per non affogare nella noia che ammazza il fegato – così la chiamava – erano quelli che conosceva sulle chat, maschi ai quali spediva foto ritoccate in cui appariva magra e con un paio di occhi superbi. «Tanto che mi costa, mi diverto» e allora Maria rispondeva sempre uguale: «Fatti tuoi.» Così cacciava e così trovava prede. Ma i suoi itinerari del piacere restavano tutti incompiuti: infatti Giustina gli uomini con cui chattare se li sceglieva lontano più di cinquecento chilometri, in modo che a nessuno di loro venisse mai in mente di prendere l’automobile e raggiungerla a Bernalda.

    Giustina passava in questo modo buona parte dei suoi pomeriggi e sfotteva Maria che invece sulla foto del profilo di Facebook mostrava non la sua faccia bensì l’immagine di un’orchidea; più l’amica insisteva, più Maria si convinceva con forza, rifiutando persino di aprirsi un profilo su Twitter, il più innocuo dei duepuntozero, ché non era quello il modo per fuggire da Pisticci. Se lo ripeteva sempre: non si affrontano in questo modo i problemi.

    Perché i problemi c’erano, eccome, e le vacanze di Natale erano il momento in cui si manifestavano con la maggiore intensità. A Natale a Pisticci tornavano gli emigrati a salutare i parenti, tornavano i trasferisti per concedersi al paese anche nei giorni feriali, tornavano gli universitari con le valigie piene di biancheria sporca e gli zaini gonfi di libri di testo per stare con i genitori e i vecchi amici. Così l’andirivieni sulla Basentana si infittiva e il paese per un paio di settimane si animava di un’allegria sconosciuta negli altri periodi dell’anno (d’estate traslocavano tutti o quasi alle villette al mare, così che il paese si trasformava in una piazza di zombie). Le strade si riempivano di luminarie, festoni, ghirlande, buffi cappelli da Babbo Natale piazzati a copricapo dei lampioni. Il centro di Pisticci faceva a gara con la frazione di Marconia per l’albero natalizio più bello, ornato dai bimbi delle scuole elementari con palle e rametti dipinti assieme alle maestre.

    Gli empori esponevano la merce migliore, i barbieri non facevano sosta, le edicole triplicavano gli ordinativi dei giornali, le panetterie sfornavano dolci in quantità. Ovviamente anche il negozio dove lavorava Maria, l’unico che per tigna seguitava a fare la sosta pomeridiana, si riempiva di gente. Arrivavano gruppi di ragazzi, madri con figlie, uomini adulti con la lista dei regali. Compravano scarpe da ginnastica New Balance, racchette da tennis, felpe Nike, tute, cardiofrequenzimetri, giubbotti antivento, pantaloni con l’elastico sul calcagno e il cordino in vita. Come ogni anno gli affari a Pisticci Sport andavano bene. La politica di Fausto era quella di offrire prezzi migliori di quelli del centro commerciale a fondo valle e garantire un sistema di pagamento rateale basato sulla fiducia familiare e paesana. Una stretta di mano al posto del pagherò e via: che tradizione sana, pensava Maria. E poi a un compare non avresti mai tirato un bidone, non tanto per moralità quanto per il terrore che il giorno dopo tutto il paese venisse a sapere che avevi le pezze al sedere o eri un disonesto.

    Sia quel che sia, fosse quel che fosse, l’allegria e diremmo la frenesia che si impadronivano di tutti gli abitanti di Pisticci, escluso qualche anziano che teneva un morto fresco da piangere in casa, svanivano in un batter d’occhio. Si dileguavano con la stessa velocità con cui erano comparse. Pisticci era succube di una leggiadria a tempo, che aveva la data di scadenza scritta in bella evidenza nelle istruzioni per l’uso: sette gennaio. Il giorno appresso all’Epifania, quando rimanevano solo gli studenti che allungavano le vacanze fino alla domenica appresso, quando si accendevano gli ultimi motori e auto con il serbatoio pieno di carburante muovevano o verso Occidente, in direzione Salerno e poi Roma, o verso Oriente, sulla dorsale adriatica che, tirando sulla diramazione per Melfi, da Bari portava a Bologna e fin su a Milano.

    La festa era finita. Tutto doveva ritornare al suo posto, delicatamente, educatamente, senza fare troppo rumore.

    Così Maria aveva accettato il fatto che, in fin dei conti, ci fossero cose peggiori che aver trasformato in abitudine la visione di Uomini e Donne. Lei e Carmelina non ne perdevano nemmeno una di puntata, e se per qualche ragione un giorno si saltava, Maria salvava la puntata su MySky – ovviamente sapeva usarlo solo lei e, in effetti, serviva solo a mettere in memoria le puntate perse di Uomini e Donne – più qualche film che però non riusciva mai a vedere e puntualmente finiva cancellato. A tutte e due piaceva tanto la voce baritonale di Maria Defilippi, l’ospite di pomeriggi altrimenti silenziosi. La vecchina, seppur deformati a uso e consumo della sua stramba memoria, ricordava uno per uno i nomi di tutti i partecipanti e li aveva divisi in categorie estetiche tutte sue: gli uomini erano alti e mazzi o tori e tozzi, le donne o mazzisciute o sciancate, e per sciancate Maria sospettava che la nonna intendesse un’attitudine piuttosto disinibita ad aprire le cosce ogni volta che lo avessero richiesto il piacere, l’interesse o l’occhio della telecamera.

    Una volta la donna aveva commesso un grave errore. D’un tratto aveva suggerito alla nipote di partecipare, ma si era pentita dell’oscenità di quella proposta ancora prima che Maria la mandasse educatamente a quel paese, scacciando l’idea come un peccato già commesso.

    Sia quel che sia, fosse quel che fosse, il loro guscio

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