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Quando c'era Tom Rosati. 1963-64: una stagione da sogno
Quando c'era Tom Rosati. 1963-64: una stagione da sogno
Quando c'era Tom Rosati. 1963-64: una stagione da sogno
E-book351 pagine5 ore

Quando c'era Tom Rosati. 1963-64: una stagione da sogno

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L'autore di questo romanzo calcistico rievoca la storia, filtrata dagli occhi di un bambino, di un miracolo senza lieto fine: il campionato 1963-64 di una squadra di calcio, il Chieti, che sfiorò in quella occasione la promozione in serie B. Il personaggio principale è mister Tom Rosati ma molti sono i protagonisti, noti, dimenticati o sconosciuti, di questa vicenda, ancor prima che sportiva, profondamente umana. È un viaggio temporale, ambientato in una emblematica provincia italiana degli anni Sessanta, ma anche una cronaca dettagliata di un'appassionante stagione calcistica divenuta ben presto leggendaria nella memoria di quelli che la vissero. Una favola bella che merita di essere raccontata anche a chi non ha mai vissuto la bellezza del calcio di quei tempi, quando c'era Tom Rosati. Massimo Renella è nato a Chieti nel 1956. Laureato in Filosofia ha lavorato nel mondo della scuola, trasferendosi a Milano nei primi anni Ottanta, in qualità di docente di Italiano e Storia in vari Istituti superiori, prima di far ritorno a Chieti nel 2009. È giornalista pubblicista ed è stato addetto stampa e direttore della comunicazione di varie società sportive di calcio e di basket.
LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2023
ISBN9791221480344
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    Anteprima del libro

    Quando c'era Tom Rosati. 1963-64 - Massimo Renella

    C’ERA UNA VOLTA CHIETI

    La camionetta ondeggiò per tagliare la strada al gruppo d’invasori che aveva divelto la rete della tribuna, poi frenò di colpo. Saltarono fuori tre panciuti poliziotti che placarono goffamente un paio di ragazzi, gettandoli a terra. Helzel intanto correva disperato in direzione degli spogliatoi, con gli occhi e la bocca spalancati, ma un giovane con i capelli rossi, armato solo dei suoi pugni, lo atterrò con un colpo sulla fronte che lo fece barcollare e poi stramazzare a terra. Facendo forza su un ginocchio, l’arbitro si rimise in piedi per un attimo: perdeva sangue dall’orecchio sinistro. Il suo volto era stravolto in una maschera grottesca. Stupore, paura, delirio: c’era tutto in quello sguardo. L’onda in un attimo lo sommerse. Non mi ammazzate - gridava – non voglio morire, pietà … pietà. Il rosso, ancora lui, gli piantò una scarpa sulla faccia e gliel’avrebbe sfracellata se non fosse arrivato un maresciallo di polizia che a corpo morto, lanciatosi nella mischia, lo sottrasse al linciaggio. Poi arrivarono Riti, Alberti e tre carabinieri che circondarono l’arbitro, creando un cordone che lo isolasse dalla folla urlante. Io arretravo, spaventato e incredulo, ma fui a mia volta travolto da un’ombra che cadde inciampando su di me. Provai tutto il dolore e il terrore che può provare un ragazzino di undici anni in quella situazione, ma non gridai né piansi, ebbi solo l’istinto di rialzarmi e fuggire a gambe levate in direzione dell’acquedotto. Corsi per cinquanta metri e andai a nascondermi dietro il muretto che costeggiava la casa del custode. Tremando come una foglia, restai lì fino a sera.

    Tutto quello che accade ad un bambino nei primi dieci anni di vita è qualcosa di unico e di irripetibile. Si impara soprattutto a giocare e, giocando, a conoscere il mondo e a riconoscere e coltivare dentro di sé la bellezza. Poi qualcosa cambia, alla bellezza si predilige l’utile, il divertimento non è più l’unica cosa che conta, per qualcuno resta solo una componente marginale della propria vita, per altri un’ombra vaga dell’infanzia, per altri ancora una serie di storie che sonnecchiano placide tra le pieghe dei ricordi. Inevitabile che prima o poi queste storie si destino, riemergano e inizino cautamente a sussurrare: raccontami, raccontami, fammi tornare a vivere. Ci si accorge, però, che il tempo scrive trame incomprensibili, facendoci rivivere il passato in una mescolanza spesso indecifrabile di vissuto, sogni, desideri. I ricordi si rivelano, il più delle volte, incrostati dalla ruggine delle tante menzogne e dei molteplici inganni che ci permettono di superare i nostri fallimenti quotidiani senza che questo abbia alcuna importanza. A un certo punto della vita è un’urgenza ritrovare la natura più intima di noi stessi, una natura di cui, senza accorgerci, abbiamo perso la piena consapevolezza da anni. Echi di una serenità smarrita accarezzano lo spirito, ricordi confusi fluiscono dolcemente, fino a quando sgorgano oltre gli argini in cui li avevamo confinati. Vorresti ordinarli, dare loro un senso, una direzione lineare ma è tutto vano. Quella memoria è figlia di mille sorgenti che s’intrecciano in una trama inestricabile, a nulla vale la fatica di risalire la roccia per cercare la fonte. E allora? L’unica via è quella di ripartire da un punto qualsiasi e poi affidarsi ai venti, alle correnti, alle maree. Che il viaggio abbia inizio!

    C’era una volta una squadra di calcio. No! Scusate, c’era una volta una città, Chieti. Si stava bene a Chieti nell’anno 1963, o almeno lo credevano i ragazzi, come me, che vivevano il meglio delle loro giornate all’aperto. Bastava poco per giocare ed essere felici, per molti di noi bastava un pallone. Adesso nelle scuole calcio ce ne sono a dozzine ma a quei tempi non era scontato averne sempre uno a disposizione. Non è che non ce ne fossero, ce n’erano di quelli che costavano poche lire e a turno ne portavamo uno o si faceva la colletta per comprarlo, ma quasi sempre era un Super Tele o un Elite, palloni ingovernabili di gomma leggerissima che calciati con la potenza dei nostri pochi anni viaggiavano veloci per un paio di metri per poi essere frenati e deviati dall’attrito dell’aria. Palloni, questi, facilmente deformabili a causa del calore o dell’esposizione al sole, tanto da assumere volumetrie che li rendevano spesso più simili a palloni da rugby che da calcio. Palloni tanto fragili da non resistere a volte più di qualche minuto. Chiodi e sassi appuntiti sull’asfalto, rovi di spine nei prati e spuntoni di cancelli erano i peggiori nemici di quei palloni di plastica, senza contare quelli che si incastravano irrimediabilmente tra i rami delle piante oppure che, inghiottiti sotto le auto tra la marmitta e il telaio, potevano essere liberati solo dall’arrivo del proprietario. A volte, infine, se non erano quei bulli dei grandi a bucarli per far finire la partita prima del tempo e sostituirsi a noi sul campetto di gioco, erano i randagi di passaggio che trovavano sempre molto divertente rincorrerli e addentarli. Un’ecatombe di palloni!

    In verità c’erano in bella vista negli spacci anche palloni più attraenti e resistenti, come i monocromi Derby e Wembley, ma erano molto costosi e anche un po’ troppo pesanti. Tra tutti, il re dei palloni era per distacco il mitico Super Santos, arancione a trama nera, con un nome che evocava la leggenda di o rey Pelè. Era il giusto compromesso tra pesantezza, compattezza e resistenza ma potevano comprarselo solo i figli di papà. Ecco, guai ad essere considerati tali: era questo il peggior insulto dopo quelli rivolti all’onorabilità di tua madre e di tua sorella. Il problema era che figlio di papà io lo ero per davvero e che quindi per non essere escluso dalla scelta dei capi, così si chiamava il modo per costituire le squadre, fa li cape, dovevo nascondere a tutti di essere figlio di un bancario con diciassette mensilità l’anno. Non era facile perché mia madre mi vestiva come un pagliaccio o, come si diceva allora, all’inglese: scarponcini alti alla caviglia, calzettoni bianchi ricamati al ginocchio, calzoncini blu con bottoncini laterali, camicia, pullover, giubbino sportivo scozzese. Una vera divisa da figlio di papà, che permetteva a chiunque nel raggio di un chilometro di potermi riconoscere e di conseguenza escludere dal gioco. Tu ni juche, si nu fije de papà era la frase che sentivo ripetere ossessivamente e a nulla serviva strepitare, ribattere o fingere. Sanno essere cinici sino alla spietatezza i bambini e presto mi convinsi che nulla avrebbe mai potuto cambiare la triste condizione di escluso in cui mia madre mi aveva relegato, vestendomi in quel modo ridicolo. Una mattina d’estate, ero appena arrivato alla rotonda, così chiamavamo, per la sua forma vagamente circolare, il campetto all’interno della Villa Comunale, dove giocavamo a pallone, quando Edo si scagliò contro di me urlando: Tu a me nin mi cunusce, je so nu Panzone! Con le mani tese, mi spingeva all’indietro, colpendomi ritmicamente e con forza sul petto. Voleva cacciarmi via il bastardo e per indurmi in soggezione dichiarava l’appartenenza ad una stirpe teatina di attestata origine popolana, la genia de li Panzune, temuta e rispettata da tutti perché adusa a ricorrere alle maniere più spicce per risolvere le proprie frequenti divergenze. Nei primi anni Sessanta tanti erano ancora i clan familiari che nei quartieri e nei vicoli di Chieti vivevano dichiarandosi padroni e signori di quelle zone franche, per lo più fatiscenti, che rappresentavano in buona parte l’identità popolare della città. Li Africane della Civitella, li Sellare de lu Campette, li Putere di Moricorvo e li Panzune della Piazze, piazza Malta, la cosiddetta piazza della verdura, dove ancora adesso i contadini vengono a vendere a quelli di città i prodotti dei loro orti e dei loro frutteti. Litigare o peggio picchiarsi con uno dei membri di questi clan significava poi doversela vedere con una pletora di fratelli, cugini, zii, nipoti e affini fino al quarto grado di parentela. Pertanto, bastava spesso dichiarare la propria appartenenza a uno di questi clan per spaventare e indurre alla fuga il povero malcapitato di turno, coprendolo di ridicolo e d’insulti. Edo, intanto, spalleggiato da altri ragazzini, continuava a farmi indietreggiare, spingendomi e gridando. Capii subito che non c’era spazio per una ritirata onorevole e che lo scontro fisico questa volta fosse inevitabile. Edo non era certo un colosso e calcolai che se mi fossi gettato su di lui avrei potuto travolgerlo e buttarlo a terra. Mi scagliai su di lui, cogliendo nel suo sguardo una smorfia di sorpresa. Avvinghiandolo, lo colpii inavvertitamente con la testa sul naso. Sanguinò e rotolammo entrambi sulla ghiaia, picchiandoci come solo due ragazzini maschi sanno e possono fare a quell’età, cioè facendoci molto male. Graffi, pugni, calci, morsi, non risparmiammo nessun colpo basso, fino a quando un ragazzo più grande, stanco di quello spettacolo violento quanto ridicolo venne finalmente a separarci. Potei constatare, rialzandomi, che un mio incisivo traballava mentre Edo continuava a sanguinare dal naso, danni fisici ampiamente ripagati dall’inizio di una bella amicizia, quella tra me e Edo, e soprattutto da un conclamato e generale rispetto da parte dei miei coetanei, che finalmente smisero di escludermi da li cape. Non ero uno di loro ma ero, finalmente, uno come loro e questo riscatto sociale si tradusse per me nella piena e assoluta realizzazione di ciò che più di ogni altra cosa mi piaceva: giocare instancabilmente a pallone per ore e ore. Il giubbino scozzese e il pullover finalmente trovarono una loro collocazione funzionale, diventando i pali di una delle due porte e poi via, palla al centro, fino ad arrivare a dieci. Con il pallone tra i piedi, mi trasformavo in Pelè, Eusebio, Bobby Charlton, Mazzola, Sivori. Sognavo di essere come loro. Sinistro, destro, colpo di testa, cannonate, tiri a volo, cercavo di imitare ogni tipo di goal che avevo visto segnare in tv, accompagnandolo con una telecronaca degna di Niccolò Carosio. Il campetto del Museo era il mio teatro dei sogni, era San Siro, il Bernabeu, il Maracanà, per ogni rete segnata imitavo il boato del pubblico, serravo i pugni verso il cielo e lanciavo sguardi di gioia verso inesistenti tribune, fingendo di esultare con i miei tifosi. Giocare a calcio per me era tutto e ciò che restava era solo l’inutile, noioso intervallo tra una partita e l’altra. Sfida dopo sfida, goal dopo goal, rapidamente, fatalmente e senza minimamente pensare allo sconvolgimento che da lì in poi avrebbe comportato nella mia vita, mi avvicinai a lu campe, il campo sportivo della Civitella.

    LA CIVITELLA

    Mio padre non fu mai un vero tifoso ma sicuramente era classificabile nella categoria di chietino doc: in quanto tale era interessato, anche se con toni e accenti quasi sempre critici o fintamente distaccati, a tutto quanto accadesse in città, compreso lu fubball. Essere veri chietini a quei tempi significava fondamentalmente questo: primo, aver avuto la fortuna di nascere nel posto più bello e salubre del mondo ed essere totalmente certi di questo, ce venne da fore a studija l’arie di Chijete; secondo, nel tempo libero, sostare, vestendo, elegantemente, con abito sartoriale, davanti al caffè Vittoria per chiacchierare con gli amici o in alternativa fare lo struscio per il Corso Marrucino, avendo cura di essere salutati con il rispetto dovuto al proprio rango sociale; terzo, essere espertissimi nella nobile arte del cazzeggio, cioè essere capaci di alimentare discussioni accesissime su qualsiasi tema, da quello esistenziale e filosofico a quello più triviale, avendo però chiarezza che ogni forma dialettica è assolutamente fine a se stessa, e che quindi la verità assoluta non esiste e le parole, ambigue per loro natura, servono solo ad esercitare la prontezza di spirito di li cchiù frigne, cioè di quelli che se la cavano sempre e che dominano il mondo ingenuo e credulone di li cafune; quarto, credere che l’umanità, malvagia per natura o per vizio, non cambierà mai nei secoli dei secoli e che pertanto qualsiasi forma di progresso abbia insita una qualche fregatura; quinto e ultimo comandamento, vivere da cinici, cioè vivere nella crudeltà dei delusi che non perdonano alla vita di averli ingannati. Tutto questo e naturalmente altro ancora era mio padre, che spesso alla domenica mi portava con sé al Caffè Vittoria, dove avevo il privilegio di poter assistere da vicino al mondo dei grandi. Si parlava di politica, argomento di cui capivo poco e che mi annoiava, di corna, argomento di cui capivo poco ma che non mi annoiava, e di fubball, argomento che capivo e che mi entusiasmava. Coglievo che per mio padre quello politico era l’argomento più interessante ma non ne comprendevo la ragione. Gaspari, Natali, Buracchio e poi Fanfani, Moro, il centrosinistra e le convergenze parallele erano nomi e parole per me vuote e prive di significato. Appena però si parlava della Civitella, di Rosati, di Angelini, di centravanti e di portieri, di vecchie partite del passato, ecco che il mio interesse e la mia curiosità assorbivano immagini che coloravano immediatamente la mia fantasia. Non tardai quindi a chiedere a mio padre di portarmi al campo, come si diceva, per vedere una partita del Chieti. Fosse stato più accorto, mio padre avrebbe dovuto ostacolare questa precoce inclinazione calcistica ma a quei tempi il desiderio di un bambino, se accompagnato da buoni voti scolastici, era qualcosa che i genitori, ancora a digiuno delle più elementari dinamiche psicologiche infantili, tendenzialmente assecondavano senza curarsi degli eventuali effetti secondari. Così per la prima volta alla tenerissima età di sette anni ebbi il mio battesimo sugli spalti della Civitella. Era un Chieti-Reggina terminato senza reti ma che per me rappresentò un’esperienza decisiva. Il campo sportivo della Civitella sorgeva nel punto più alto della città, sovrastando un arco naturale che si affaccia sulla vallata del fiume Pescara e che guarda frontalmente la catena del Gran Sasso. Consisteva in un campo in terra battuta, di natura argillosa, recintato e suddiviso in tre ordini di posto, che rappresentavano in qualche modo anche la netta divisione dei tre ranghi sociali che componevano quella Chieti anni Sessanta. Una piccola tribuna a cinque gradoni, che accoglieva i signori e la borghesia del terziario, dal lato opposto un’imponente gradinata, frequentata dalla piccola e media borghesia dei commerci, e a seguire un parterre popolare, animato soprattutto dai chietini di quartiere. Si affluiva da due ingressi, credo volutamente, separati: tribuna e gradinata da via Gran Sasso, mentre il prato, così era denominato il parterre popolare, da via Gennaro Ravizza. Gli spogliatoi, che avrei frequentato, di lì a poco, con una certa assiduità, erano locali ricavati all’interno della gradinata e quando le squadre entravano in campo, sembravano materializzarsi dal nulla in un effetto che la mia giovanile fantasia associava all’ingresso nell’arena degli antichi gladiatori.

    Ricordo solo confusamente ciò che accadde in campo quella prima volta ma è intatta in me l’emozione provata, un’emozione nuova e in qualche modo collettiva, vissuta con gli altri e tanto diversa da tutte le altre. Ricordo di non aver mai visto prima tanta gente insieme nello stesso luogo e di esserne rimasto fortemente impressionato. Ricordo poi in particolare il fumo acre delle sigarette e le tante parolacce gridate a volume altissimo. Ricordo che tutto intorno a me era tremendamente maschio. Imprecazioni, grida gutturali, toni minacciosi, rombi improvvisi e il frastuono di una massa tumultuosa avrebbero dovuto spaventare un timido ragazzino di sette anni e invece sentire gridare da mio padre la parola cornuto a così alto volume come mai lo avevo sentito mi diede piacere, nel senso in cui intendevo quella parola all’epoca. In quello spazio gli adulti potevano gridare arrabbiati qualsiasi parolaccia senza che nessuno, in realtà, se ne accorgesse. Ma che posto meraviglioso era quello dove la rabbia poteva uscire liberamente dalle persone senza che per questo ci fossero conseguenze? Tutto questo era consentito ai tifosi? E allora anch’io sarei stato un tifoso, un tifoso del Chieti.

    Naturalmente pretesi di essere accompagnato anche altre volte a lu campe e quando fui più grandicello, mio padre, che, per pigrizia, non amava troppo frequentare le partite domenicali, mi concesse finalmente il permesso di andarci da solo. Fu quello il primo spazio d’autonomia vera della mia infanzia. La domenica dopo pranzo uscivo di corsa da casa mia in via Cesare de Lollis, percorrevo in un lampo tutto il Corso Marrucino e affrontavo di petto la salita della Civitella. Insieme ad un mio compagno di classe, Antonello, siamo diventati, presenziando con una certa assiduità agli allenamenti pomeridiani della squadra, inservienti tuttofare del mitico massaggiatore Ildo Apolloni, lenti spesse come fanali e vaga somiglianza con il cantante Enzo Jannacci, che ci mandava a fare spesa nelle botteghe limitrofe di tutto quello di cui avesse bisogno in quel momento. Era lui che alla domenica ci faceva entrare dall’ingresso di via Ravizza e che ci spediva, prima e dopo la fine della partita, al rifornimento di acqua minerale fresca, paradosso dei paradossi, nella vicina cantina di Ricucce, l’oste che in due reticelle depositava le bottiglie ghiacciate, che io e Antonello, con una certa fatica ma con la velocità del vento, portavamo a destinazione nello spogliatoio. Non era questa la nostra unica incombenza, perché ci era anche riservato il ben più delicato compito, a cinque minuti dalla fine del primo tempo, di uscire dal campo sportivo, raggiungere la casa del guardarobiere Tunine l’Africane, posta in via Ravizza a soli cinquanta metri dalla Civitella, e prendere in carico da Annuccia, moglie del suddetto Tonino, la bevanda degli dèi, il ristoro di tutti i giocatori: un pentolone fumante di the caldo al limone.

    Eravamo due ragazzini ma ci sentivamo importanti; avevamo, infatti, un raro privilegio che molti dei nostri coetanei ci invidiano: l’accesso al sancta sanctorum, lo spogliatoio, sacro tempio precluso a tutti i comuni mortali. Già come ne oltrepassavi la soglia, l’odore acre e penetrante dell’olio canforato, parimenti al fumo d’incenso delle chiese, ti segnalava il confine tra il mondo profano della gente comune e lo spazio sacro della divinità. Due finestrelle anguste e protette da grate facevano filtrare una luce soffusa che tagliava i contorni dei profili dei giocatori, facendoli sembrare evanescenti quanto le figure dei santi negli affreschi. Tutto era silenzio, scandito da un unico suono ritmato, quello dato dalle sapienti mani di Apolloni che massaggiava le gambe di un calciatore. Si attendeva solo che l’arbitro bussasse alla porta per dare inizio alla partita. La tensione era uno stato d’animo profondo ma era palpabile e la potevi avvertire in ogni angolo, osservando gli sguardi dei giocatori. Qualcuno pregava sottovoce, uno si sistemava con il nastro di scotch i due parastinchi, altri ancora si pettinavano, ognuno adempiva ai propri sacri rituali. Tutto faceva parte del gioco, non c’era niente di trascurabile, la partita di fatto era già iniziata, molto prima del fischio d’inizio. Entravo ed uscivo in punta di piedi, temendo di infrangere i tenui equilibri di quei santi preliminari. Poi all’improvviso quel silenzio veniva rotto dalla voce tonante di Rosati Squadra unita, si alzava l’urlo di guerra dei giocatori Noi l’amiamo e per lei combattiamo. Apollo lasciava il campo a Dioniso: era tempo di entrare nell’arena, noi con loro, io andavo a posizionarmi dietro la porta dell’acquedotto, Antonello dal lato opposto.

    BAFFONE E UN UOMO CHIAMATO TOM

    Mi rendo conto di aver preso le cose alla lunga, perdonatemi ma riesco a stento a contenere il flusso dei ricordi. Siamo agli inizi dell’estate del 1963 e nei jukebox imperversa Rita Pavone con la sua Partita di pallone ma a Chieti si rischia di non vedere più partite, perché il Consiglio della SS Chieti è in piena smobilitazione. Molto pesante si presenta la situazione economica e il debito si aggira intorno ai 100 milioni di vecchie lire, si teme per la sopravvivenza del calcio a Chieti. In tre anni il costo per portare avanti il campionato è raddoppiato e il ricavo copre in ogni stagione a malapena il cinquanta per cento di quanto speso. Questa stretta debitoria spinge il sindaco Buracchio e il prefetto Giuliani a istituire un comitato, che, composto dall’assemblea congiunta degli ex Presidenti, Vicepresidenti e Segretari della società, studi le forme e i mezzi idonei a sanare il grave disavanzo economico, per assicurare finalmente alla massa sportiva un campionato sereno, prima finanziariamente e poi agonisticamente. Il Comitato a sua volta nomina una più ristretta Commissione, coordinata dall’Assessore allo Sport e dall’Amministratore economo del Comune di Chieti, che lavora sodo e celermente per proporre azioni per la verità indirizzate a portare avanti più una stagione economicamente tranquilla che agonisticamente serena. La proposta principale è semplice, il classico uovo di Colombo: vendere il maggior numero possibile di giocatori, naturalmente a prezzi convenienti. Si trattava di alleggerire il deficit, iniziando una stagione nuova con obiettivi agonistici modesti, mirando gradualmente a rinsanguare le magre casse del Chieti. Sì, d’accordo, ma chi sarebbe andato in campo? La Commissione indica la strada dei giovani, nella necessità di dar vita a una squadra garibaldina di elementi provenienti dalla serie D e desiderosi di affermarsi. Un allenatore fatto in casa e non il trainer Petagna, riconfermato con un colpo di mano dell’ultima riunione del vecchio sodalizio, avrebbe guidato questi ragazzi in un campionato dove sicuramente si sarebbe sofferto ma che avrebbe rappresentato l’unica strada percorribile per non chiudere i battenti anzitempo. Nella seconda parte del documento la Commissione andava oltre la contingenza del momento, disegnando una nuova società composta da Dirigenti ogni anno esposti per una cifra anche minima, da versare come contributo a fondo perduto. Non avrebbero più fatto parte della Società i rappresentanti degli Enti Locali, che avrebbero però continuato ad aprire i cordoni della borsa per sostenere la nuova compagine societaria. Situazione difficile, difficilissima, in città monta la polemica e i vecchi soci non mollano la presa. Vogliono in qualche modo restare sulla scena, vanificando gli sforzi compiuti dai saggi componenti della Commissione. In sella più che mai resta e cavalca la tigre l’ex Presidente dimissionario, Guido Angelini, re della privata struttura sanitaria locale e da anni impegnato nel mondo del calcio, qualcuno mormora per avere in cambio quel sostegno politico che tanto serve per far prosperare i suoi affari. Si sa, Chieti è una città di malelingue e Angelini è un uomo abile e ingegnoso, un vero imprenditore, una figura di uomo in realtà poco rappresentativa di una città a vocazione strettamente terziaria. Baffone, come tutti lo chiamano per i suoi folti baffi alla Stalin, è un pragmatico ed è consapevole che i dettami della Commissione hanno bisogno di essere tradotti nella pratica quotidiana. Non c’è più tempo da perdere, la stagione è alle porte e il Chieti non ha nemmeno l’allenatore. Petagna costa troppo e il contratto rinnovato è cartastraccia, essendo stato sottoscritto da un dirigente senza potere di delega alla firma. Parte a questo punto la ricerca di un giovane allenatore, ambizioso e che non costi nulla o quasi. Gli viene in mente un ex giocatore, ex capitano, beniamino della tifoseria neroverde e per un periodo brevissimo anche allenatore-giocatore del Chieti, un marchigiano di San Benedetto del Tronto, che nella precedente stagione ha iniziato la carriera di tecnico in IV serie a Teramo, rimediando per sua sfortuna un esonero. Ha la faccia da duro, pochi capelli e due occhi scaltri e penetranti che incutono un naturale timore reverenziale. È un predestinato, con le stigmate di allenatore sin da quando giocava nel ruolo, allora più importante di tutti, di centrosostegno, la cerniera tra centrocampo e difesa, il cardine intorno al quale si costruivano le squadre di calcio di quei tempi. Si chiama Domenico Rosati ma per tutti è Tom da quando per primo un amico di Cupra ha notato che non era facile distinguerlo, per la sua carnagione scurissima, da quei soldati americani neri con i quali giocava a pallone sulla banchina del porto di San Benedetto e che i portuali chiamavano tutti, indistintamente, Tom. Angelini lo raggiunge telefonicamente: Tom, non prendere impegni con nessuno, il prossimo anno alleni il Chieti. Peccato che oltre a lui abbia promesso la panchina dei neroverdi anche ad altri due allenatori: Leonzio e Novelli. L’intento è di bloccarli tutti e tre e poi con calma scegliere quello che costa meno. Ma Angelini ha fatto male i suoi calcoli perché Tom è furbo come il diavolo e la sera stessa telefona a un giovane cronista suo amico, Gino Di Tizio, confidandogli: Amico, ti comunico una notizia in anteprima: sono il nuovo allenatore del Chieti. Poi non contento gli dettaglia, per essere ancor più credibile, come rivoluzionerà la rosa, facendo nome e cognome di quelli che saranno ceduti e di quelli destinati a restare. Angelini e Rosati sono due straordinari giocatori di poker, alla prima smazzata la partita inizia con un bluff e un contro bluff. Magnifico! Il 15 luglio sulla pagina locale del Tempo si legge Tom Rosati parla del nuovo Chieti. Questo lavoro vale il mio avvenire. Per la squadra, quattro elementi anziani di sicuro rendimento con giovani in grado di produrre bene. Angelini si affanna a smentire ma nel caos societario esistente nessuno gli crede, anche se Tom sembra a tutti gli effetti l’uomo più adatto all’occorrenza, quello con le idee più chiare per attrezzare una squadra con pochi soldi, senza temere di fare brutta figura. Angelini, tra il divertito e il contrariato, temporeggia, la società è dimissionaria e prima bisognerà risolvere la crisi. Intanto sotto i portici la polemica impazza e sono pochi quelli che vedono positivamente il decisionismo dell’ex Presidente, che informalmente si rivolge a Walter Crociani, romano, ex calciatore, ex allenatore e noto alle cronache sportive per essere un mediatore. Una figura oggi messa al bando dai regolamenti ma un tempo di grande rilevanza nel sottobosco del calcio: il mediatore era infatti sia abilissimo nell’acquisto e nella vendita di calciatori, sotto il proprio stretto controllo, che, all’occorrenza, anche capace di aggiustare il risultato di qualche partita. Lo chiamano mister 5%, perché quella è la cifra che riscuote dagli affari che conduce in porto. Nel tempo si è trasformato in una sorta di direttore delle società per le quali lavora. Una spiccata personalità, una vastissima conoscenza dell’ambiente e ottime competenze organizzative sono le doti peculiari di manager che precorrere i tempi. A Chieti Crociani, sia in veste di allenatore che di direttore tecnico era stato più volte e aveva allacciato un ottimo rapporto fiduciario con Angelini, anche se all’improvviso, nella stagione precedente, per motivi misteriosi aveva abbandonato Chieti, sciogliendo il contratto e lasciando la squadra in una situazione difficile. Qualcuno mormorò che era fuggito nottetempo per un debito di gioco che non avrebbe potuto onorare, qualcun altro adombrò l’ipotesi che fosse stato sorpreso nel letto di qualche bella signora e che temesse l’ira del cornuto, ma nessuno seppe mai con certezza il motivo di quella fuga improvvisa. Avercelo per amico era una garanzia, anche se spesso era capace per soldi di dare qualche improvvisa quanto dolorosa fregatura, utile a prosciugare le tasche di qualche ricco scemo. Baffone, che ricco è ma non è scemo, gli commissiona la vendita dei migliori giocatori del Chieti, prima vendere e poi comprare, magari a poco prezzo, qualche giovane controllato sempre dal Commendatore, così è soprannominato Crociani. La Commissione si sente scavalcata e protesta, Angelini risponde dichiarando che la sua azione è perfettamente coerente a quanto indicato dai saggi per coprire il debito societario. Tutti litigano con tutti, più per questioni formali che per la natura sostanziale delle azioni intraprese. A Chieti la polemica sterile è stata sempre il sale per condire la tranquilla ma insipida vita della città della camomilla.

    RICORDI DI SCUOLA

    È tranquilla per davvero Chieti, almeno per me che ho dieci anni e, come ho già accennato, posso tranquillamente andarmene a zonzo senza alcun fastidioso accompagnatore adulto. Mia madre già in seconda elementare mi ha concesso il permesso di andare a scuola da solo, prima sorvegliandomi a distanza e poi abbandonandomi tranquillamente al mio destino di pedone. Il traffico sta diventando sempre più rumoroso ma non è ancora caotico. Corso Marrucino è a doppio senso di circolazione, ci si può fermare con l’automobile davanti al Caffè

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