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L'insonne
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L'insonne
E-book465 pagine6 ore

L'insonne

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Info su questo ebook

Ritrovarsi in un altro mondo e perdere la possibilità di dormire, diventare insonni. Da questo momento in poi comincia un'avventura in un universo abitato da creature fantastiche, elfi, nani e folletti in un mondo più umano che mai, un florilegio di razze che abitano un mondo quasi incontaminato e laddove sorge la civiltà si possono ammirare città bellissime e immense. Ogni creatura pronta a dare il suo amichevole apporto al protagonista o a contrastarlo; protagonista estraneo a questo mondo di fantasia, impegnato nella ricerca del sonno perduto alla volta delle Vestigia Perpetue e ostacolato da una misteriosa organizzazione che ha per lui ben altri progetti. Riuscirà a ritrovare il sonno perduto e a tornare al suo mondo natìo?
LinguaItaliano
EditoreFiele
Data di uscita22 feb 2016
ISBN9788892555150
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    Anteprima del libro

    L'insonne - Fiele

    L’insonne

    di Fiele

    Capitolo 1

    La radura

    Mi destai da sveglio, come se appena prima avessi perduto la mia mente in vaghi pensieri, in ricordi e fantasie inutili prive di qualsiasi emozione, seduto in una pianura dove qui e lì sparuti cespugli e alberi salutavano il mattino presto. Gli alberi alti e fieri, verdi e allegri, mi guardavano come vecchi saggi, maestri di vita a cui non servono parole p’esprimersi, l’erba era fresca e profumata, anch’essa verde acceso e non erano rari i fiori gentili che davano il tocco di colore di cui erano capaci.

    Il cielo era terso, era una bella giornata di sole e gli uccelli volavano lisciando l’aria mentre rapivano vermi e insetti, qualche soddisfatta lucertola sostava sulle rocce calde, intenta a riscaldar il proprio sangue che altrimenti gelava nelle vene, e nel frattempo un insetto di cui non conoscevo il nome e vedevo l’aspetto, essendo questi nascosti tra i ciuffi d’erba, cantava la sua melodia d’amore.

    Mi alzai lentamente stropicciandomi gli occhi, feci quattro lenti incerti passi e non ebbi paura, sicur che sotto di me attendea un verde cuscino.

    Poi i passi si fecero più sicuri, cominciai a camminare senza meta alcuna, incurante del futuro, dimentico del passato e indifferente al presente. Camminai per molto, la pianura non terminava più, infinita distesa di prati profumati, dolce abbraccio della natura, ogni passo era un sollievo, così continuai la mia marcia per tutto il tempo di questo mondo, in perfetta armonia.

    E sorridevo.

    Miravo il sole e le nuvole, quei cumuli di cotone viaggiavano lesti, in continuo mutamento, l’associavo all’animo umano di cui intanto mi dimandavo: è possibile, così come una nuvola, modellata dal vento, dolce o brusco che sia, rimanere sé stessi anche se si è in continua trasformazione? Se una persona cangia idea, è sempre la stessa ch’era prima oppure diventa un’altra? Si può dire coerente con sé stessa? L’idea che avea prima era sbagliata e chella nuova giusta? Oppure il contrario?

    Il rinnovato pensiero era insito, nascosto, seppellito nell’inconscio da tutta la vita ed era venuto fuori sol allora? Sempre lì, come un germoglio, che pian piano fuoriesce dal morbido terreno, mostra le prime foglie e poi un bocciolo, quindi fiorisce e l’idea si propaga come cerchi d’uno stagno in cui un ciottolo s’è tuffato. O magari, d’improvviso, il fiore diventa un arbusto di colpo, i rovi graffiano le pareti della mente, poi la pianta prepotente rompe il guscio ed esce, raccogliendo tutti i raggi solari. E l’idea si fa più viva e minacciosa.

    Ogni esperienza di vita ci porta nuovi ideali o gli ideali ci portan a nuove esperienze di vita?

    Si dice che solo gli sciocchi non cambino opinione, ma non riuscivo a immaginare qualcheduno che cambiasse gli ideali più ‘mportanti della propria vita come se fossero questioni ‘ninfluenti, con quell’atto vedevo il tradimento di sé stessi, l’annientamento dell’animo proprio. Come era possibile ripudiare le proprie idee in favore di altre? Giuste o sbagliate che fossero. Poi chi stabilisce cosa è giusto o errato?

    Inoltre, le idee altrui possono cambiarci così tanto da condividere quei pensieri? Non solo accettarle, ma accoglierle completamente, farle nostre, e combattere per esse. Era già successo, ma son quelle persone che hanno la mente volubile delle stupide? Gente facilmente influenzabile e vuota d’animo?

    Oppure è gente che ha intuito la giustizia ne le parole del singolo?

    Così tante persone? Tutte sagaci e ‘ntuitive?

    Seguitai a perdermi in codesti pensieri per lungo tempo, con gli occhi bassi, persi nel vuoto.

    D’improvviso tornai in me, ogni volta che i miei pensieri scorrono come fiume cado nel mare del turbamento, dei pensieri cupi, ogni volta mi dànno per argomenti che non mi competono, decisi che tornar a mirar nuvole e prati fosse scelta ben migliore.

    Mi commossi nuovamente per tutto ciò ch’avevo dinanzi miei occhi, lo scenario che mi si regalava era tra i pochi che al mondo solcano il viso per lor bellezza; i fiori di campo e gli arbusti rigogliosi, i cespugli profumati e il cielo cobalto, e i suoni tutt’intorno esplodevano miti e deliziavano l’orecchio come dolce sinfonia.

    Passeggiai a lungo per quei prati, il tempo sembrava non passare, il sole schiariva ogni cosa, intanto un cheto venticello rinfrescava la giornata. Era un posto bellissimo, e lo viveo solo con me stesso e i miei pensieri, forse la compagnia d’altre genti non m’avrebbe fatto apprezzare abbene il loco, non avrei avuto l’opportunità d’ascoltar me stesso, che più d’altri forse v’ha importanza, non è egoismo, bisogna di pensare più a sé stessi, senza curarsi troppo di chi ci cerchia. Così stetti là, a esser coperto dal luminoso cielo, a pensar senza interruzioni.

    Poi le nuvole si fecero fumo e il sole spariva sotto la coltre grigia, ma sempre chiara.

    Cominciai a esser turbato a mia volta, come se mancasse cosa, non sapevo cosa, ero in cerca d’un che d’indefinito, d’astratto, non sapevo cos’era, come un ricordo che non viene a galla, come un ricordo che rimane incagliato sul fondale della memoria che s’abissa per chilometri, non mi capacitavo cosa fosse, mi sforzai finché non fosse venuta a mia conoscenza, e alla fine seppi: dopo tutto quel peregrinare avevo dentro me una voglia di riposar, non sentivo quel sonno imposto da la pigrizia vera ma semplice voglia di riposar beato e tranquillo, premio d’ardua vita.

    Mi stesi sul prato, attorno a me pochi fiori attendevan con me il sonno, chiusi gli occhi e respirai con regolarità, le mani dietro la testa, per comodità, e le punte dei piedi verso l’alto.

    Stetti ‘n quella posizione per una decina di minuti ma non mi addormentai. Il sonno non volle farmi compagnia. Volevo dormir ma non mi riusciva.

    E nemmeno mi piaceva star fermo in un punto senza far nulla, dovevo stancare la mente per poter infine dormire.

    Appoggiai i gomiti a terra e mi feci forza per mettermi in piedi, il sonno sarebbe arrivato di lì a poco, mi dicevo. Nel mentre qualcosa attirò la mia attenzione: un boato sordo e una macchia arancione sul verde prato, a qualche decina di metri da me. Mi avvicinai lentamente, non riuscivo a capire cosa fosse, molto probabilmente un animale; riposava?

    Ero a pochi metri ora, e l’erba alta alcune dita oscurava di poco la vista del motivo del mio interessamento, ero a chel punto certo che fosse un animale, ne vedevo la folta pelliccia ma bisognava che m’avvicinassi per capir meglio cosa fosse successo.

    L’aria si faceva pungente, era un odore forte, non un buon odore decisamente. Quando scoprii cosa era adagiato sul prato ero ormai sorpreso a metà.

    Il tanfo proveniva dal corpo moribondo d’una volpe.

    Il sangue fresco macchiava il rosso pelo e l’erba, sul corpo dell’animale si intravedeva qualche osso della cassa toracica che affiorava dalla carne e le interiora erano scivolate a qualche centimetro dall’animale, profanate probabilmente da qualche predatore.

    La bestia ancor respirava, affannosamente chiaramente, erano i suoi ultimi rantoli, lentamente puntò il suo occhio, quello esposto al cielo che ormai ingrigiva sempre più, su di me, mi guardava con sofferenza. Io provai una pietà immensa, il dolore per quella creatura m’attanagliava. Era livida e l’odore era insostenibile, volevo comunque rimanere lì a vegliare il canide. Mi inginocchiai.

    Non ci volle dunque molto, poco dopo la volpe esalò l’ultimo sospiro e la sua sofferenza terminò.

    Quale animale poteva aver fatto una cosa simile? Non avevo sentito grotteschi versi per tutto ‘l tempo, all’improvviso il corpo era lì, non v’era stato un feroce combattimento o una macabra predazione; ‘mplicemente l’ho vista all’improvviso sull’erba, a perire.

    Alzai lo sguardo che era fisso sul cadavere, guardai dinanzi a me, poi sbirciai a sinistra, dunque a destra. Sentivo la sensazione d’occhi fissi su la mia persona, mi alzai e mi guardai intorno, nessun altro animale era nei dintorni, benché meno persone. Cosa avea potuto uccidere il rosso quadrupede? Quale spietata bestia?

    Un fruscìo ed un rumore di terra smossa mi riportò a prestar attenzione alla volpe e con stupore scoprii ch’essa era sparita, con lei le frattaglie scivolate a terra e il sangue, nulla, nemmeno l’erba era schiacciata per via del peso del cadavere. E ‘l lezzo era sparito con essa. Come se non ci fosse mai stata.

    Avevo sognato? Eppure ero sveglio, anche malauguratamente dato che non mi riusciva di prender sonno. Forse un’allucinazione?

    Eppure avevo mirato il cadavere di una volpe per un pajo di minuti, non una semplice occhiata, sono stato lì, ne ho sentito l’acre odore, l’ho guardata morire.

    Nulla più. La volpe era sparita.

    Mi stropicciai gli occhi, magari sognavo davvero e l’insonnia non era altro che l’alterno scherzo dello strano sogno che era in atto, come rappresentazione teatrale.

    Poi mi diedi un pizzico. Il dolore era tutto reale.

    Ancora un altro, più forte. Continuavo a vivere quella strana realtà.

    Infine un altr’ancor. Doloroso fino a pentirmene. Ma nulla.

    Stetti lì a rimuginare per alcuni minuti, non ne venivo a capo.

    D’improvviso mi sentii cadere.

    Caddi e intorno a me era poco illuminato, rovinai a terra momenti dopo, momenti che però sembra’an eterni, come respiri d’un gigante, come battiti d’ali d’un immenso essere, mi rialzai lesto, girai su me stesso per capir dove fossi, palpai le pareti terrose, ero come intrappolato sotto terra, sol dinanzi avevo un cunicolo stretto e cupo. Mi spaventai enormemente, non sapevo cosa stesse succedendo, era tutto cambiato, già mi mancava il cielo terso e le nuvole condotte dal vento, il prato dai verdi toni, le siepi e gli alberi, i dolci suoni e i profumi. Sol allora mi resi conto, come se in quel bujo avessi finalmente aperto gli occhi, come se avessi davvero capito: ciò che mi mancava era un cielo pesante, le nuvole grigie che coprivano il sole, la sterpaglia, i cespugli malmessi e gli alberi quasi spogli, i rumori e gli odori della natura. Ma forse erano solo miei impressioni, forse esageravo, la mia mano calcava sui ricordi, per quanto quelle rimembranze s’avvicinassero alla realtà quella piana mi pareva ancora bella, non dissimilava da come la vedevo davvero in quel momento ma mi ‘fascinava ancora. E mi mancava.

    Avanzai verso il buio che mi chiamava a sé, più avanti avrei trovato sicuramente un’uscita, e potevo distinguere la mano esile e fredda dell’oscurità che mi faceva cenno di seguirla. Mi facevo guida col palmo delle mani sulle pareti della galleria e avanzai lento per non mettere pied’in fallo; intanto il silenzio echeggiava.

    E fu buio per molto tempo, difficile dire se minuti, ore o giorni.

    La fioca luce fece la sua comparsa, ancora troppo fievole lottava per sopravvivere, tenue sul suo piedistallo, non era l’uscita, bensì quattro torce al muro terroso che illuminavano un incrocio che separava la palese via in altri tre diversi condotti, fui colto dal dubbio, non sapendo cosa m’aspettasse alla fine delle tre nuove gallerie. I passi mi portarono a intraprendere la via di mezzo, che or somigliava alla prima strada da me percorsa lì sotto pe’ tutto il bujo in cui ero sommerso, probabilmente a metri e metri di profondità.

    Seguitai a percorrere il tetro passaggio, mi chiedevo quanto avrei dovuto rimanervi lì sotto, non si vedeva alcun che, i miei occhi erano come chiusi e bendati con una pesante stoffa, ragion per cui continuavo a seguir la via appoggiandomi alle pareti terricee, ogni tanto qualcosa di viscido sfiorava la mia pelle, vermi forse. La terra era umida e d’attorno il calore aleggiava, le radici mi opprimevano la camminata e oltre le pareti di terra cominciai a sentir rumori, sembravano voci. Stridule o cavernose, favellavan parole sconnesse, alcune sotto voce, altre si sentivan già mejo. Mi fermai per ascoltar attentamente e le voci si zittirono.

    Ostinai la traversata, il caldo m’opprimeva. Subitamente le voci tornarono, così decisi di fermarmi ancor una volta, per sentir.

    S’ammutoliron novamente.

    Ricominciai a percorrere l’oscuro condotto e le voci ripresero, quale maleficio era mai? Decisi di render celere ‘l passo.

    Per quanti metri facessi le voci erano sempre lì, non s’attenuavano e non accrescevano, era come se fossero nella mia testa, sempre con me. Era un tormento, cercavo d’ignorarle ma esse penetravan la mente, si infiltravano tra i tessuti cerebrali. Tuttavia continuavo a non capir le loro parole.

    Intanto le diramazioni aumentavano, e io lasciavo scegliere al caso, prendevo le strade che più m’ispiravan, spassionatamente. Con le diramazioni aumentava la mia preoccupazione, quanto altro tempo avrei dovuto star liggiù? Procedevo or lesto, la mia fronte s’imperlava e il mio respiro si facea pesante. E ‘l calore contribuiva a render malsana la situazione, mi sentivo come un bimbo che perde sua madre, affranto.

    Non avrei voluto rimanervi in quella galleria. Stavo girando in tondo? Ogni cunicolo si congiungeva all’altro in un circolo e il buio non mi lasciava intender la soluzione? Ero probabilmente intrappolato in un labirinto senza via d’uscita.

    Decisi di voler tentare un’altra strada, una tutta mia. Cominciai a scavare su una parete, puntando verso l’alto, scavai, furiosamente all’inizio, con audacia, poi rallentai, la fatica si fece sentire quasi subito, intanto la terra mi ricopriva, mi sporcai completamente, la polvere mi entrava negli occhi, ma socchiudendoli continuavo ‘sì a scavare.

    I metri si allungavano, avevo creato un’altra piccola galleria, ascendeva per giunger all’aria aperta, e continuavo nella mia impresa scalando la montagnola di terra che andava formandosi sotto i miei piedi.

    I muscoli mi dolevano, ero madido di sudore, la mia mente non reggeva, avevo bisogno di riposare le braccia. Non ne potevo più.

    Poi, però, la terra tra le mie mani si fece più soffice, come se fosse tenue. Con rinnovato vigore scavai più velocemente, chiusi gli occhi per impedire alla terra di entrarvi, mentre frettolosamente cercavo di raggiungere chella che sarebbe stata la di mia salvezza.

    Nel frattempo sorridevo e mi incitavo da solo, di lì a poco sarei stato fuori da quei maledetti cunicoli.

    La terra era sempre più soffice, se avessi allungato un braccio nello strato davanti a me avrei potuto cogliere un fiore. Continuai a scavare. D’improvviso bucai la parete terricea, poi la feci voragine e mi spinsi fuori con le braccia doloranti. Non notai cambiamenti di temperatura, ma d’altronde avevo chili di terra che mi ricoprivano. Appena fuori m’accasciai a terra, in posizione fetale, respirai profondamente, velocemente. Aprii poi una mano, l’allungai di qualche centimetro per voler raccogliere l’erba sotto di me ed essa arrivò a stringere la terra, tastai ancora, ora tutt’intorno. Terra. Ancora terra. Mi pulii gli occhi con il dorso della mano e li aprii, nel mentre mi alzai. Era tutto buio. Li richiusi e li riaprii, istantaneamente. Ancora bujo!

    Ero semplicemente finito in un’altra galleria. La mia era stata tutta fatica sprecata, m’inginocchiai e cominciai a tremare, gli occhi si fecero rossi e gonfi dalla disperazione.

    Mi morsi la lingua con rabbia, poi raschiai le pareti di terra e ne scaraventai una manciata davanti a me.

    Chiusi gli occhi, strinsi le palpebre fortemente, e con esse strinsi i denti.

    Poi urlai con quanta voce avevo in gola.

    Nemmeno la eco mi rispose.

    Il di mio respiro si fece rabbioso, inspiravo ritirando la saliva sulla lingua et espiravo con vigore.

    Così m’accorsi dell’aria, si fece men asfissiante, tornavo a respirare aria salubre.

    Riaprii lentamente gli occhi, in cui or risplendeva un lume di speranza. Un puntino luminoso minuscolo era situato in una delle direzioni della galleria in cui ero appena giunto, non ero riuscito a vederlo prima, cercai di raggiungerlo, andava allargandosi passo dopo passo. Arrancaj verso quella luce goffamente.

    Quella luce bianca era la luce del sole, senza alcun dubbio. Ero dunque salvo? Camminai fino alla soglia. La luce, seppur filtrante e quindi per nulla violenta, mi feriva comunque gli occhi, abituati al buio delle gallerie. Feci altri due passi sulle mie gambe tremanti, per esser sicuro di uscire da chell’orrore, completamente, poi caddi sul terreno di foglie ed erba, non mi feci molto male, ero finalmente all’aria aperta.

    Respirai forte e a lungo, sbadigliai, l’aria era fresca, e tornai a sorridere. Ero stanco e le braccia mi dolevano, e sapevo che finché non avessi riposato quel dolore non sarebbe passato facilmente. Stetti lì ancora un po’, disteso e co’ gli occhi chiusi, per recuperare almeno un frammento delle energie perse. Poi mi feci forza e mi rialzai, dietro di me la collinetta con ancora il varco della galleria da cui ero uscito. Decisi di allontanarmene il più possibile.

    Sul mio nuovo percorso c’erano tantissimi alberi, un bosco che permetteva di camminare p’esso tranquillamente, sgombro della selva che avrebbe impedito la passeggiata.

    Attorno a me giganti verdi su gambe di legno. Era piacevole stare lì, nonostante le gambe che soffrivan, nonché la fame. Camminai a lungo, anche per cercare frutti di bosco o altre naturali leccornie.

    Trovai anche un ruscello, che mi permise di lavar via la terra che mi sporcava viso, mani e alcuni lembi degli abiti, le sue acque limpide e fresche gorgogliavano allegramente, ne bevvi qualche sorso e ripulii via il terriccio gettandomi ‘nteramente nel ruscello, poi sprofondai la testa nelle acque per lavar via la terra sul viso e tra i capelli. Quando finii mi sorpresi di non veder più la benché minima macchia sui miei vestiti, pensai che qualcuna avrebbe pur dovuto restare, seppur chiara, invece nulla, come se non me ne fossi mai sporcato. La situazione mi stranì ma ripresi presto la camminata.

    Intanto il bosco si facea sempre più fitto, così tanto che la strada era diventata una sola e stretta. Seguitai la camminata finché giunsi in una radura dove offrivan rifugio fronde fitte, a una più modesta altezza arrivavano altri alberi, meli e ciliegi sembravan cuccioli di pini e querce, i salici toccavan terra come corridori prima di una partenza, tutt’intorno pulviscolo verde e dorato vorticava come in un ballo appassionato, adesso lento, adesso veloce, intanto la luce colpi’a ogni cosa e la faceva brillare come una gemma rara, era una meravija quell’antro arboreo in cui avevo messo piede. Si stendeva per metri, vi si sarebbe potuto vivere in quello spazio verdeggiante riparato dai massicci alberi, v’era posto per un’umile casa e vi sarebbe stato ancora spazio intorno; sarebbe potuto essere bello rimanere ivi immersi nella natura per il resto dei propri giorni.

    Sentivo poi i cinguettii felici dei pettirossi, il battito veloce di un picchio e il frullìo d’ali degli altri volatili, poi gli scoiattoli furtivi e i timidi porcospini.

    Però qualcosa rovinava quell’armonia, sentii i singulti vicini di qualcuno. Pian piano m’avvicinai ad un grande albero e girando poco intorno ai suoi piedi castani e legnosi vidi lì piangere quel che a me parve un minuto essere, all’apparenza un folletto, col suo natureo completo verde e violaceo e ‘l berretto che mediante una fasciatura si stringea al capo per non cader via, le grandi orecchie spigolose e un viso furbetto, seppur rigato dalle lagrime, una larga e sottile bocca con un angolo cadevole, il picciol, sottile ed aquilino naso si perdeva sulla superficie del viso chiaro e due occhi piccoli e acquosi - ‘nche se per un umano come me i suoi occhi apparivan giappiù grandi del normale, essendo abituato alle fisionomie umane inve’ che a quelle di folletti o altre creature fantastiche - mi guardavano con l’iridi verdi, era esile e aveva i piedi nudi e le mani, la testa e gli stessi piedi eran sproporzionati al resto del corpo.

    Lentamente m’avvicinai al curioso figuro, non ne ero intimorito, nonostante i folletti fossero creature di cui avevo soltanto letto era come se fossi abituato all’idea di poterne incontrare uno, come se fosse cosa normale, e non n’ero intimorito giappiù dal fatto che stesse riversando lacrime come se colpito da sciagura, fragile et indifeso; e così gli domandai: «Salve, cos’è che affligge l’animo tuo?»

    «Non mi riesce di riposar, non chiudo occhio da ben due giorni ormai!» disse il folletto nascondendo le lacrime e tirando su col naso.

    «Siam sulla stessa barca amico mio, ma non penso di camminar di lacrima in lacrima, bensì di piede in piè!»

    Er’anch’io afflitto dal mal d’insonnia e mi proposi di camminarne il periodo che mi avrebbe portato al sonno ristoratore. Così offrii di venir con me al minuto Fid Elis, così mi si presentò, finché sonno non c’avrebbe colti, improvvisamente, dolcemente.

    Mentre passeggiavamo in landa il piccolo amico mi chiese con fare timido: «Tu donde vieni? Non ho mai visto un essere come te da codeste parti».

    «Mai? Beh, non ne sono del tutto sicuro ma ho la sensazione di aver sempre vissuto tra queste terre, come se le conoscessi da sempre, eppure per me è un luogo nuovo. Comunque io sono un umano».

    «Un umano…?!»

    «Già» confermai.

    «E cosa puoi fare?» chiese l’altro, diretto.

    «In che senso?»

    «Quali abilità hanno gli umani?»

    «N-non capisco».

    «Non saltate ventotto piè da terra, come gli unicorni della valle? Non avete una forza immane, degna di colossi? Non possedete una voce possente, come le aquile dei dirupi?»

    «No, non facciamo nulla di tutto ciò, mi spiace».

    «Nessuna abilità? Nessuna magica particolarità?»

    «No, niente di tutto ciò» asserii.

    «È un vero peccato. Sai, noi folletti siamo agili e, se ci mettiamo la passione, siamo in grado di dar nuova vita alle piantine col semplice tocco. Quindi voi non fate lo stesso?»

    «No, noi la togliamo semplicemente» dissi, a malincuore, a tal punto il folletto si fermò e rabbrividì, guardandomi con paura.

    «Voi… voi siete malvagi? Tu lo sei?»

    Forse ero stato troppo affrettato nel rispondergli con quell’affermazione, così gli spiegai: «Invero noi umani distruggiamo la natura per utilità, lì dove una volta crescevano foreste adesso vi sono palazzi altissimi, al posto dei selciati abbiamo violente coltri di cemento, dura via grigia. Siamo persone molto egoiste e ci accorgiamo degli errori sempre troppo tardi, sol dopo ch’abbiamo distrutto ettari ed ettari di pianeta ci accorgiamo di quel dolore che abbiamo portato al nostro mondo e cerchiamo di porvi riparo, inutilmente. Siamo per l’amore fra i popoli e nel frattempo ci annientiamo l’un l’altro, con carri armati ed armi, oggetti fatti per uccidere, non hanno altro senso, minacciosi scettri di potere, possono dare la morte con un semplice gesto e per un futile motivo. La gente si odia, ognuno, se potesse, vivrebbe da solo sul pianeta, senza nessun altro, ma sol allora n’avrebbe niuno su cui sfogare la sua rabbia e la sua violenza; non c’è amore, è un sentimento che non appartiene all’Uomo, alcune persone credono d’amarsi; sono amori effimeri i loro, è raro che un amore possa essere vero, contraccambiato e sincero. Siamo creature strane, abbiamo menti geniali, possiamo costruire città intere, abbiamo la soluzione per quasi ogni cosa, ci destreggiamo nelle arti; ma alla fine rimaniamo gli stessi barbari di tanto tempo fa. Questo è l’Uomo, comprendilo oppure allontanalo, e io non potrei essere diversamente, sarei un ipocrita a definirmi migliore».

    Elis mi guardò ancora un po’, dritto negli occhi, i suoi occhi brillavano, forse di lì a poco un’altra lacrima sarebbe potuta apparire per poi dirigersi sulle guance fino alla mandibola; mi guardava come a scrutarmi nell’animo, allora distolsi lo sguardo.

    «Io non credo siate tutti diaboliche creature distruttrici, erri nel dire che non c’è amore, ne son alquanto sicur. Perché allora ti saresti avvicinato a me, lì nella radura, mentre ero sommerso da pianti dell’anima? Senza una ragione? No, non credo tu sia cattivo, e te ne prego, continuiamo questo percorso insonne, continuiamo fino al meritato riposo».

    Le sue parole mi diedero da pensare, stavolta fui io a rimanere un po’ indietro, sul viottolo, ma lo raggiunsi subito dopo, senza guardarlo, mirando la via che scorreva sotto i nostri piedi. Il nostro percorso proseguì per almeno una giornata, in un giorno passammo valli e pianure, camminammo per molto tempo; ma sempre svegli, sempre ‘nsonni.

    Continuammo a camminare per molto altro ancor, intanto ‘l buffo essere al mio fianco mi raccontava filastrocche e storielle. E io ascoltavo.

    Capitolo 2

    Incontri pericolosi

    Calpestammo ogni tipo di terreno, ci addentrammo anche in un paludo, che più triste non v’è cosa, e lì ci perdemmo a mirar i fuochi fatui che s’aggiravan pel loco, gli alberi morti e spettrali producevan tenebre inve’ che vita, ogni tanto un ratto passeggiava indisturbato tra gli acquitrini, pozze velenose oltre la grigia riva, e sempre da lì sorgevano felci e carici. Tutt’intorno la nebbia ci racchiudeva in pochi metri di visibilità, era ormai giunta la notte e una pallida luna sporadicamente faceva capolino dalle nuvole scure; qui e là stridevano ignoti animali della notte.

    Le stagnanti pozze di melma bollivano del fetore che ci inondava le narici, il nostro obiettivo era oltrepassare la palude incolumi, tuttavia data la scarsa visibilità ci dovemmo affidare soprattutto all’istinto, il folletto, che sprezzante della paura che ‘l loco gli trasmetteva, si districava come poteva tra i fortunati sentieri che emergevano dagli stagni colmi di fredda e bagnata morte, acqua dai misteriosi ingredienti, una miscela tossica di escreti, piante velenose, cadaveri e fango; o magari era proprio la paura a guidarlo, forse il desìo di uscire da tal postaccio era così grande da combattere ogni timore.

    Mentre scorrevamo per la brughiera come ombre nella notte avevamo poca volontà nel conversare, non era luogo adatto chello, c’importava solo di uscirne al più presto. E lì ebbi modo di pensare alla mia situazione, in quel mondo che non m’apparteneva ma che sapevo far mio, come chi rimira la culla che accolse l’infante che fu, non rimembra i tempi in cui veniva addormentato con una dolce nenia in quel ligneo giaciglio ma ne accarezza la superficie con affetto e tenerezza. Alla prima parola proferita col folletto mi resi conto che quel che sapevo del mio mondo erano solo frammentati ricordi, ricordavo perfettamente le azioni, l’agire e le invenzioni, ma nomi, visi e relazioni mi erano preclusi. Non ricordavo altro che le vicende così come le conoscevo, se fossi stato un giudice sarei stato il più imparziale di tutti; chi le commise mi era sconosciuto, che fossero vicende personali o lette su libri di storia, che fossero soltanto ‘ndividui sconosciuti o persone a me care. L’acre pensiero mi pervase, ero dimentico di chi mi era vicino, non ricordavo nulla di loro, e non riuscivo ad esserne rammaricato dal momento che non avevo memorie di loro.

    Per il turbinio di pensieri mi capitò di calpestare l’acqua e il fondale putrido quasi mi trascinò a sé, cedendo sotto il mio stesso peso, lesto tirai fuori la gamba ormai zuppa e nel farlo provai quasi fatica, come se la stessa acqua fosse diventata un collante formidabile. Elis, accortosi del mio rallentamento, si fermò ad aspettarmi, fissava il mio piede mentre disgustato rimuovevo le alghe che m’attanagliavano la scarpa, poi mi guardò negli occhi, e subito dopo guardò a destra e a sinistra preoccupato, poi disse: «Dovremmo affrettarci».

    Mentre continuavamo la traversata cominciai a sentir una strana sensazione, come se qualcuno o qualcosa ci spiasse, ebbi un fremito e iniziai a tenermi più stretto la vita.

    Eravamo fortunati, il viottolo ai cui lati sorgevan le necrotiche rive era pervio e ci permetteva un buon indirizzo, tuttavia i pericoli erano ovunque e quella sensazione di qualcuno sulle nostre orme mi impauriva, mi voltai una volta, scrutai il possibile e voltai il capo subito un’altra volta per assicurarmi che non ci fosse ignuno e che la mia fosse solo un’oscur’impressione. Nel frattempo continuavo a camminare per non rimanere indietro e perdermi in quell’abisso, la sensazione che vi fosse qualcuno o qualcosa ancora mi gelava, sbirciai tra i banchi di nebbia alle mie spalle, scrutai fin dove potessi, non vidi nessuno. D’un tratto davanti a me un’ombra corse da parte a parte tagliandomi così la strada, si sentì sol un leggero scalpiccìo preceduto e seguito da un tonfo sordo e poco percettibile dell’acqua, mi fermai di colpo e feci attenzione a tutto quello che mi circondava, girai su me stesso un pajo di volte per non essere sorpreso alle spalle, ma inciampai e mi ritrovai in acqua, buttato di schiena, spinto da un traliccio dispettoso. L’acqua mi entrò nelle narici, qualcosa ‘ntanto mi trascinava dabbasso, vedevo la superficie dello stagno allontanarsi sempre più, quel poco di luce lunare andava sbiadendo, l’acqua ormai mi gonfiava i polmoni e cercai di riemergere. A stento mi feci largo tra le alghe, con le braccia spostai verso il basso lo sporco liquido che mi circonda’a e con le gambe mi spinsi verso la superficie, metà della mia testa riaffiorò e gridai aiuto, sperando che Elis si fosse accorto de la mia assenza; fu per me arduo rimanere in superficie e a stento riuscivo a chiamare ancora aiuto, tornai giù dopo due secondi, una forza mi trascinò sul fondale, potevo vedere la sabbia che si sollevava sotto la furia dei miei calci mentre tentavo di nuotare nuovamente verso l’alto, per tornare a respirare ancora l’aria mefitica del paludo, quando ancora una volta ritornai su nessuna traccia dell’innocente folletto, guardai dappertutto, il mio amico aveva continuato sulla sua strada, nulla poteva fermarlo data la paura che si era ‘mpadronita di lui, mi aveva lasciato lì, a morire in un’acqua putrida, rassegnato e senza più forze mi lasciai tirare giù dall’entità che mi voleva veder morto, una patetica ed eterea figura che cercava la compagnia di un cadavere, le bolle piene d’aria fluivano verso l’alto, lasciandomi lì, loro in salvo e io giù, sul fondale, a contare i secondi che mi rimanevano, a sentir la mia esistenza mentre fuggiva scappando in piccoli frammenti, racchiusa in quelle stesse bolle che m’abbandonavano. Chiusi gli occhi e non pensai più a nulla, era un mondo perfetto: silenzio e bujo, tutto ciò che bramavo. Era forse quello il riposo che meritavo? Me ne stavo lentamente convincendo.

    No.

    Non era ancora finita, e non sarebbe finita in quel modo. Riaprii gli occhi e nuotando tornai su, feci affidamento a tutte le mie forze e riemersi, feci scorta d’aria, tornai a vivere di colpo, come se mi stessi svegliando da un coma millenario, non me ne sarei andato da quel mondo senza lottare.

    Mentre tornavo a respirare avido vidi Elis che mi tendeva un lungo ramo e mi incitava a rimanere su, a galleggiare su quel pozzo salmastro, strinsi il ramo con tutte le mie forze, a furia di sbattere gambe e braccia ero ormai stremato, e l’aiuto del folletto fu una manna dal cielo, purtroppo l’impaurito amico tirava e tirava ma non riusciva a portarmi a riva, io ero due volte il suo peso e la forza che mi costringeva si era fatta più forte e temibile, non mi avrebbe lasciato così facilmente, chiusi gli occhi per raccogliere le forze e per non rendere, così, vana la fatica del mio amico, d’improvviso il mio corpo si spostò in direzione della riva come se ne fosse attratto, il folletto era ora detentore di una forza incredibile, forse la forza che non permette agli amici di annegare, era innaturale. Continuai il percorso acqueo fino a quando potei aggrapparmi al terreno, lì m’accorsi che la divisione tra riva e fondale era pressoché inesistente, il fondale diveniva immediatamente una scalinata ripida di sassi e terriccio e affondar a un metro dalla sponda era d’una facilità scioccante, mi tirai su con le mie ultime forze, ero tornato sull’arenile, steso a terra a faccia in su tornavo a respirare. Elis, nel mentre, aveva gettato il ramo e mi guardava affannato e sorridendo trionfante. Io sbuffai felice. Poi cercai di tirarmi su ma le gambe quasi mi cedettero, barcollai ma mi rimisi ‘n piedi, Elis si precipitò verso di me cercando di sorreggermi ma non ve ne fu bisogno.

    Tornammo in marcia poco dopo, e io ancora bagnato cercavo di scaldarmi come potevo, una volta usciti da quell’orrore avremmo acceso un falò pe’ riposar. Io però continuavo a sentire quella presenza che ci pedinava.

    «Fermo! Giunge anche a te tal…?»

    Neanche terminai la frase quando all’improvviso alle di nostre spalle fece furor un orrido esemplare, rachitico e sgambettante, buffo e inquietante al contempo, dalle apparenze equine, alto quanto un cucciolo di cavallo e dai colori freddi, cupi, con zoccoli scheggiati, la criniera, come la coda, fradicia, a cui erano aggrappati alcuni pezzi di alghe, il muso fornito di denti storti e larghe narici, occhi vitrei e spenti. Un chelpo - questa la creatura - che sbavante come un cagnaccio ci chiese: «Cosa fan due di voi in quest’orribile posto, sede di morte e malvagità?»

    Rimasi lì a guardare quell’orrore per alcuni secondi, immobile, mentre questo mi guardava con curiosità.

    «V-vaghiam affinché dormir potrem, non riposiamo ormai da giorni e ricerchiamo il ristoro ormai perduto» risposi, cercando di mascherare un’innaturale tranquillità.

    «Non sapete allora che uccide più atrocemente il sonno che la fame…?» ci istruì il piccolo cavallo nero «È una lenta agonia a occhi aperti, chi poter riposar non può è destinato a morte certa. La testa pulsa sempre più come s’imminente esplosione dovesse ‘cadere. Gli arti si fanno pesanti come incudini, non si riesce a distinguer da finzione e realtà. Ah, ignari viandanti, la morte vi aspetta, allor sì che ci sarò io lì, mentre rantolate, mentre esalate l’ultimo respiro, quando avrete soltanto il modo di accorgervi di me, lì a divorar le vostre tenere carni, a far banchetto col vostro ventre e a spolpare le vostre ossa, a leccare i fluidi mefistofelici del vostro corpo moribondo, a scarnificarvi senza esitazioni, a nutrirmi delle vostra cervella, a suggere della vostra conoscenza e della vostra vitalità».

    Il folletto, già spaventato alla vista del paesaggio circostante, rimase terrorizzato dalle parole del chelpo, io ebbi un tremore, un brivido partì dalla nuca fino alla fine della spina dorsale, lo guardai per qualche secondo con perplessità mista a orrore. Accostai una mano alla testa del piccolo amico al mio fianco e ci allontanammo da quella bestia maligna, senza dir nulla, sol la fretta addosso.

    «Oh sì, ci sarò, già pregusto il sapore!»

    L’orrendo mostro ci raggiunse, canzonandoci tetramente, saettava da un lato all’altro, ora affacciava la testa al fianco di Elis ed ora al mio, ci girava intorno a passo svelto. Non intendeva abbandonarci, ostinato ci seguiva per poter metter in atto ciò che ci aveva descritto macabro. Così, a malincuore, vedemmo unirsi un terzo elemento a noi, che trotterellando sulle flaccide zampe ci seguiva com’un fedel segugio.

    Avere una bestia del genere intorno ci terrorizzava e c’infastidiva, il mite folletto cercava di non allontanarsi troppo da me, preoccupato di esser divorato alla prima buona occasione, purtroppo dovevamo conseguire nel nostro obiettivo, trovare la salvezza al di fuori della palude, magari una volta fuori il chelpo avrebbe abbandonato il suo proposito, indi continuammo ‘l percorso tra gli stagni putrescenti; non mancarono di certo altre acque calpestate col rischio di affogare nuovamente, ma eravamo giappiù preparati, inve’ il chelpo trottava qualche metro più indietro come se sotto d’esso sicur terreno scorresse.

    Quand’uscimmo da quell’orrore, incolumi ma come se c’avesse portato via un po’ di anni della nostra vita, tornammo a respirare l’aria salubre della notte, camminammo per un altro paio di chilometri e ci fermammo al limitare di un boschetto tranquillo, lì aiutai Elis a raccogliere rami per accendervi un picciol falò. Intanto il chelpo gironzolava in giro annusando qui

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