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L'antica madre
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E-book186 pagine2 ore

L'antica madre

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Info su questo ebook

Bosso soleva sul tramonto prendere le viottole della pineta e compire un suo giro di guardia fino a notte inoltrata; sorvegliando se di lontano qualche colpo di accetta, lo avvertisse di un brutto tiro che un astuto volesse fargli: non già ch’egli fosse oltremodo severo coi condannati dalla fame, egli sapeva le sofferenze fino alle cime dell’abbrutimento, ma non voleva che altri si prendesse gioco di lui. Quando un uomo gli disse:
— Compare, nella capanna non rimane un filo di paglia; nella madia non vi è farina. Il mio piccino muore!
Egli non scrollò le spalle, ma nel suo giro usuale, sul tramonto, quando udì i colpi dell’accetta come singhiozzi rudi, cambiò sentiero.
Disse anche alcuna volta a suo figlio:
— Daniele, noi abbiamo per tre questa sera, la cena è abbondante, vuoi tu portare a Giovanna parte del pane?
E siccome l’altro assentiva, dette del suo.
Ora, così silenzioso e forte e buono oltremodo, egli era un santo per i poveri del luogo, un amore timoroso e strano gli portavano.
Disse di lui un poeta semplice, una sera a veglia nella stalla, fra i buoi:
— Il bosso ha fiorito viole!
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2023
ISBN9782385741693
L'antica madre

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    L'antica madre - Antonio Beltramelli

    L’ANTICA MADRE

    ANTONIO BELTRAMELLI

    L’ANTICA MADRE

    © 2023 Librorium Editions

    ISBN : 9782385741693

    L’ANTICA MADRE

    A Sem Benelli

    Sull’argine

    II.

    III.

    Il limite

    Miseria

    Un pellegrinaggio

    L’agguato

    II.

    III.

    IV.

    La selva.

    II.

    III.

    IV.

    V.

    VI.

    VII.

    Come gemma dal ramo...

    A Sem Benelli

    Una goccia cade dal cielo nel mare e si disperde in silenzio, eppure ella rispecchiò le immagini delle cose vicine e lontane.

    Ora, questa goccia, va verso l’ultimo mare; altre dopo lei ne andranno così, finchè fatalmente tutta la mia forza non precipiti alla morte.

    Io so forse che tutto ciò sarà superiore al mio volere, ma non importa: l’approvazione tua ed il tuo affetto sono con me.

    Vi fu un tramonto in cui tu, con calmo sapere, indicasti una gran via di lavoro, da quell’ora ci votammo all’idea; sia pure con noi tutto il male, nulla ci distorrà dal compirla.

    Pongo il tuo nome qui; io sono come un fanciullo che teme la tenebra e ricerca la mano del fratello. Cos’è, Sem, a volte il nostro orgoglio? Vogliamoci bene, così serenamente guarderemo perdersi quest’atomo verso l’ultimo mare della morte.

    LA MADRE

    (PREFAZIONE)

    Nella terra ove io vissi, che mi nutrì fanciullo e che dette agli antenati miei il frutto delle glebe ch’essi con le loro forti mani smossero e resero atte alla fecondazione, ha la mente mia trovato, per osservazione continua, l’avvio a quell’arte alla quale ogni mia facoltà fu votata con amore inesausto. Quella terra sempre, all’occhio dell’insaziabile amante, si presentò nuova e maravigliosa, ricca di vergini bellezze, strana e paurosa, raccolta e soave; ella ebbe la molteplice vita che porta lo spirito alla gran sintesi delle cose; ella ingenuamente mi mostrò, come per dar nuova esca al mio essere insaziabile, le sue miserie e le sue ricchezze, fu mia in tutte le ore e volle farmi sapiente. Per questo l’amai e la benedico ora.

    Qui alla buona Terra degli antenati miei mi prostro come un semplice devoto delle grandi cose.

    Io vissi fanciullo, quasi incosciente della vita, non che nella mia anima ignara fosse un silenzio perenne e la mia mente non avesse vivacità d’intelletto, ma fin d’allora io era come schiavo di un’anima la quale si dipartiva dalle cose per avvincermi in istrane sensazioni che ancora confusamente ricordo.

    Vissi nello stupore come un pellegrino giunto ad una terra promessa che trova, ne’ suoi incantamenti, superiore ad ogni immagine, per quanto vividamente creata da un fanatismo religioso; la buona madre non voleva sciogliermi da sè, ella vedeva il suo fanciullo prostrarsi religiosamente a’ suoi aspetti e lo avvinceva sempre più.

    La prima memoria chiara ch’io mi abbia della vita è l’aspetto di un tramonto.

    Ricordo il viso pallido del nonno, un viso di tristezza e di pensiero, egli mi accompagnava. Non so dove, nè quando questo avvenne, il tempo non lo saprei precisare, certo l’anima mia era bambina. Andavamo da lung’ora, spesse volte il buon vecchio si dimenticava di me, io lo seguiva con fatica, correndo quasi, attaccato con le piccole mani al lembo del suo pastrano.

    Così, ricordo ancora, egli aveva le mani incrociate dietro le reni, il capo basso e a tratti alzava il viso esclamando qualche parola; cosa che non mi rassicurava punto, perchè mi avevano detto che i pazzi parlavan forte quand’eran soli. A me rimaneva per consolarmi il lembo del pastrano suo che era ogni mia speranza, ed ogni mio salvamento.

    Ad un tratto il nonno si fermò e si sedette, io rimasi vicino a lui senza parlare; raccolsi da terra qualche ciottolo; raccolsi de’ fiori sui margini dei fossi, poi mi rivolsi e improvvisamente vidi il suo volto rosso acceso e intorno le piante e le siepi animarsi dello stesso colore. I miei occhi ricercarono la sorgente della luce.

    Fui avvinto; come una forza afferrò il mio spirito e lo tenne. Era il più tragico tramonto ch’io m’avessi visto mai.

    Non so se la sensazione dipenda anche dall’improvvisa rivelazione per l’anima mia, certo un simile terrore non l’ebbi più nella vita.

    Guardai ancora il nonno. Egli aveva gli occhi celati da una mano appoggiata alla fronte, forse aveva fatto ad arte per non guardare, sentii il mio capo rivolgersi ancora e tutto mi apparve il cielo.

    Io ricordo, non so forse precisare, ricordo un infinito invaso da una fiamma di croco; l’impressione mia fu di terrore, sentiva i miei piccoli polsi tremare, sentivo freddo nel viso e per il corpo mi serpeggiava un brivido continuo. Il sole non c’era più, ma la luce era viva, la luce scaturiva da mille sorgenti invisibili e potenti, l’incendio era di una straordinaria verità, le cose vi si perdevano. Vidi perdivisi i profili degli alberi, i paesi.

    E non aveva voce e non aveva un grido, nè un atto mi era possibile. Immerso in un’estasi terrificante, guardavo con la paura di vedermi in preda, da un istante all’altro, di qualche terribile ruina. La sentivo avvicinarsi, mi opprimeva lentamente con l’inesorabile condanna di un’acqua che cresca fino alla gola, fin sopra agli occhi, e non udivo nulla e nulla mi riusciva chiaro all’intorno, solo il cielo animato da una potenza vulcanica enorme e vibrante di bagliori acciecanti.

    Forse fu un attimo, ad un tratto sentii scendere dall’alto un urlo raccapricciante, prolungato, asprissimo, che passò, ritornò, si ripercosse, aumentò di vigore senza interrompersi.

    D’improvviso sentii il mio cuore pulsare con veemenza, chinai gli occhi e piansi disperatamente.

    Ricordo la voce del nonno:

    — Cos’hai, cos’hai bambino mio?

    Non so cosa risposi, so che poco dopo mi spiegai l’origine dell’urlo; sopra noi era un campanile e le campane ondavano a stormo chè scendeva la sera.

    Questa memoria tenne il mio spirito, vario tempo, sotto un giogo d’incosciente stupore ed apri poi il cielo delle mie osservazioni e de’ miei ragionamenti.

    Dal senso di stupore passai gradatamente ad un sentimento di ammirazione; pensai che l’universa madre aveva per noi parole che incitavano all’umiltà non già vile, ma cosciente e illuminata.

    Vidi l’immensa ironia delle grandezze umane e allorchè passata l’adolescenza, la mia anima d’uomo volle più profondamente considerare, vidi infrangersi una barriera che al mio intelletto avevano creato principi inculcatimi col sangue; e lanciato così nel campo dell’ignoto conobbi il dubbio.

    Allora cadde come per incanto il grande edificio dell’umanità, mi trovai a brancolare nel buio, a fissar incessantemente termini perchè la mia ragione umana non si perdesse nell’orrore della pazzia. Risi, dileggiai, ogni cosa mi apparve meschina, ogni azione dell’uomo, inutile. Volli dimostrare il continuo inganno, persuadere l’umanità a starsene queta aspettando la morte, unica cosa meritevole come fine della più terribile ironia dell’universo.

    Quando parlai qualcuno mi guardò spaventato, altri rise, altri non intese. Solo un uomo, il nonno, mi disse:

    — Non è forse in ciò che tu vai predicando, un infinito egoismo, un infinita superbia?

    Tentai una dimostrazione del contrario, il mio spirito turbolento non si sarebbe così facilmente piegato a ragioni avverse, pure considerai il pensiero trovandovi una vera sorgente di bene.

    Ma ancora non potevo fissare chiaramente un limite, ondeggiavo fra mille ragioni e il dubbio scendeva sempre a sconvolgere i miei piani. Fu una notte, avevo vegliato nello studio; nei libri non trovavo ragioni sufficienti al mio ardente desiderio di pace; avevo in me il male, il male dell’ironia. Il mio pensiero avanzava, con quest’arme, tutto distruggendo e lasciando lo spirito invano proteso al sapere per trovarvi la calma. Perciocchè tutto cadeva: amore, lavoro, sapienza, bontà, grandezza; tutto era trascinato in questo vortice. L’uomo era un’ombra, una forma, l’inganno più perfetto di un artefice mostruoso.

    Lo stato di pena dell’anima mia era intollerabile, così non avrei potuto in alcun modo continuare, necessitava una risoluzione, una fine, era imperioso il bisogno, la tensione dei nervi troppo prolungata, avrebbe finito per spezzare la mia fibra. Ero risoluto di trovare una spiegazione: o il mio spirito sarebbe rimasto soddisfatto ed io avrei trovato una nuova via di ragione, oppure tutto sarebbe finito con un unico atto, vile.

    In quella notte mi accadde di temere la morte perchè il mio essere insoddisfatto, che pure aveva in sè energie da esplicare, vi si ribellava con violenza. La ragione e il sentimento lottavano senza tregua, ebbi allucinazioni, che mi parve a volte d’aver raggiunto l’ultima verità e a volte d’essere il più meschino fra gli uomini, un senso chiaro bensì mi avvertiva ch’io mi accostavo al limite oltre al quale la ragione più non ha campo.

    In una risoluzione improvvisa mi dissi: Se altri con scienza vive concordemente a natura, indaghiamone il mistero.

    Così comparvi nello studio del nonno. Egli mi accolse con bontà, senza meravigliarsi della mia presenza a quell’ora, pareva mi aspettasse da molto tempo con pazienza e che quella venuta per lui fosse certa.

    Alzò gli occhi dal libro che ponderava e nel viso ebbe un sorriso calmo, buono, soddisfatto. Vidi il completo equilibrio delle sue facoltà, la perfetta quiete del suo spirito e a un tratto gli chiesi con veemenza, come per entrare subitamente nell’anima sua e coglierla in quello stato di letizia:

    — Ditemi, d’onde traete la vostra serenità, nonno; io ho l’inferno nel core.

    Egli mi prese una mano; disse:

    — Lo sapevo.

    Poi si rizzò, mi condusse alla finestra che aperse ed esclamò a voce bassa, come innanzi ad un tempio:

    — Guarda.

    Era un plenilunio d’aprile, vidi l’insieme in un attimo: un gran mondo assopito sotto l’incantamento della bianca luna. Il mio pensiero, la mia anima, tacquero; io ritrovava l’antico stupore che mi tenne fanciullo.

    I miei occhi non distinsero particolari, da quella finestra aperta improvvisamente sulle quete campagne sentii giungere un largo respiro di cose addormentate. Una dolcezza nova mi velò gli occhi, ebbi volontà di pianto; il piano era «solingo più che strade per deserti

    Solo a capo di una lunga strada che si perdeva sotto alla luna, fra gli olmi ultimi, neri nella massa uniforme, udii andare un carro nel cigolio lento che giunse e una voce cantò, la voce di un bovaro che andava aspettando l’alba:

    Si è levata la stella del bovaro,

    fra poco sarà chiaro il giorno,

    e noi ricominceremo a tracciare i solchi.

    O terra lavorata! terra dell’amor mio,

    o terra forte!

    E il canto s’interrompeva per incitare i buoi in lunghe grida.

    Il nonno parlò. Udii la sua voce che non cresceva tono, passare come la voce di uno spirito, sentivo in me dissolversi come un gelo e una mano dolce scorrermi sul viso.

    Ecco: la buona madre era ancora innanzi a me nel suo aspetto benefico e sorridendomi mi invitava al suo amore.

    Da quella notte si compì la trasformazione del mio spirito ed io ebbi man mano più certa la via da percorrere.

    Trovai l’umiltà, mi sentii figlio.

    Ciò non avvenne rinunziando a qualsiasi vittoria di pensiero, cadendo nell’apatia. Bisogna essere soprattutto concordi con quelli che stanno intorno a noi per muover guerra ai vicini.

    Strinsi un patto con la madre, mi fortificai nella sua bontà ed attinsi forze nuove e straordinarie, come non mi sarei aspettato. Il nonno mi aveva aperta la sua scienza, sì che mi fu manifesto ciò che prima mi appariva oscuramente.

    Così le umili cose si strinsero in laccio con l’anima mia.

    Sull’argine

    Bosso soleva sul tramonto prendere le viottole della pineta e compire un suo giro di guardia fino a notte inoltrata; sorvegliando se di lontano qualche colpo di accetta, lo avvertisse di un brutto tiro che un astuto volesse fargli: non già ch’egli fosse oltremodo severo coi condannati dalla fame, egli sapeva le sofferenze fino alle cime dell’abbrutimento, ma non voleva che altri si prendesse gioco di lui. Quando un uomo gli disse:

    — Compare, nella capanna non rimane un filo di paglia; nella madia non vi è farina. Il mio piccino muore!

    Egli non scrollò le spalle, ma nel suo giro usuale, sul tramonto, quando udì i colpi dell’accetta come singhiozzi rudi, cambiò sentiero.

    Disse anche alcuna volta a suo figlio:

    — Daniele, noi abbiamo per tre questa sera, la cena è abbondante, vuoi tu portare a Giovanna parte del pane?

    E siccome l’altro assentiva, dette del suo.

    Ora, così silenzioso e forte e buono oltremodo, egli era un santo per i poveri del luogo, un amore timoroso e strano gli portavano.

    Disse di lui un poeta semplice, una sera a veglia nella stalla, fra i buoi:

    — Il bosso ha fiorito viole!

    E fu da allora che lo chiamaron Bosso. Egli aveva un suo singolar modo di esprimersi a frasi brevi ed incisive; la vita, i luoghi eran riflessi ne’ suoi pensieri. La pineta ha gridi e dolcezze, la palude immensità e silenzio: figlio di questi elementi, ne aveva tratto l’essenza della vita.

    Ed era mite perchè aveva osservato molte albe e molti tramonti ove nessun limite ha l’orizzonte, perchè ancora la morte aveva imperato dal bianco al sanguigno.

    Eran venuti a turbe i lavoratori, li aveva visti nell’alba passare sull’argine, neri sul bianco come incisi da un forte bulino. Li aveva uditi cantare poche note sempre basse, in cadenza, su parole d’amore. Turbe di lavoratori eran passati sull’alba, nel canto e a sera nel singhiozzo.

    Così ebbe nella mente l’idea di un destino, di una forza fuori di natura; essa spingeva gli uomini alla morte. E come non si era mai ribellato nella vita a nessuno, così nell’idea di una forza malvagia che regolava l’esistenza, aveva sentito il

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