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Le cose sbagliate
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E-book301 pagine4 ore

Le cose sbagliate

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Info su questo ebook

Ognuno segue il proprio tracciato, ognuno corre verso se stesso, per poi trovarsi nel medesimo punto di partenza.
“Le cose sbagliate” riempiono la nostra vita, come quella di Sandro, Arkansas, Herman, Sara, Charles P., Lucas, Elena e Andrea, fino a diventarne il senso stesso.
Un reticolo di relazioni, rimandi, incontri, scontri e allontanamenti nel quale si agitano passioni e ossessioni: quelle per i libri e le fonti documentaristiche, per i sistemi di catalogazione delle informazioni, per la musica, per la corsa, e quella, sviluppata in maniera molto particolare, per l’arte.
Ma sono tutte passioni vissute in un modo che distorce l’immagine classica dell’amore, capace però di ritornare come un controcanto involontario nel percorso che ogni personaggio compie, ovviamente, sbagliando.
Un romanzo poliedrico in cui non c’è redenzione, in cui c’è dentro il denaro, l’amicizia, l’amore coniugale, la solitudine, il mondo denso della biblioteca, quello ammaliante dei casinò di Las Vegas, il mondo apparente di Ginevra, quello rassicurante di Calitri.
Storie che fanno parte della vita reale. La precarietà del lavoro, i compromessi da accettare, il sottile equilibrio dei rapporti coniugali.
Tutta la gente che affolla “Le cose sbagliate” sembra avere degli obiettivi, ma averli non vuol dire automaticamente raggiungerli.
Ciò che tutti loro possono fare è intraprendere una strada, percorrerla e capire se è quella giusta o sbagliata, non prima però di essere arrivati alla fine.
Una volta lì, potranno provare a trasformare la loro vera natura.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2014
ISBN9788898969005
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    Anteprima del libro

    Le cose sbagliate - Carmine Aceto

    immaginaria

    Lettere in valigia

    Leggere e scrivere sono le parti periferiche del mio essere.

    Capacità acquisite relegate nella zona professionale della mia vita, nella speranza di riuscire, grazie ad esse, a sbarcare il lunario.

    Ho poggiato una mano, la destra, sul finestrino del treno. Con le dita scandisco un codice morse, un’abitudine che ho sin da bambino e che, a dispetto di quanti consideravano per lo meno strana la mia capacità mnemonica, mi ha permesso di imparare a interpretare lingue e soprattutto codici. Quello che però non riesco a decifrare sempre più spesso sono le parole e le frasi all’apparenza semplici. Nell’immenso numero di dati e cifre che conservo sui miei computer non c’è traccia significativa di elementi capaci di permettermi di andare a fondo nei pensieri della gente. Mi limito a raccogliere segni d’inchiostro e renderli più comprensibili per i nostri occhi moderni, ma per capire dove sia fermentata la sostanza che li compone a poco servono le mie virtù autistiche.

    Il treno viaggia lento, conto gli alberi e le case anche se non voglio. La mia volontà cede alla mia natura e sprofondo nel tempo, in quello scandito da secondi e lancette, nel tempo assoluto. Un piano immenso grigio, senza forme o contorni. Lotto per non esserne attratto, ma la vittoria è sempre fugace e dura poco. L’abbandono e la resa sono molto più frequenti. Finisco nel tormento della conta dei passi o mi lascio catturare dalle dissonanze di un singolo rumore.

    Intanto, tutt’intorno, capitano altre cose. Cose che mi inglobano, mi rendono complice della vita. Senza coscienza si patisce meno, ma in sostanza non cambia molto.

    Il dolore è ugualmente smisurato e rintracciarne la radice è una perdita di tempo.

    Meglio annegare. Questo treno non annega. Ci tiene a galla con uno sciame di ferraglia. Compara le singole solitudini dei viaggiatori tra loro e innesca una solidarietà fatta di carta straccia, quella dei biglietti ferroviari con sopra stampati tariffa e chilometraggio.

    Se sommo tutte le cifre che compaiono sul mio biglietto e le inserisco in una visione globale, diversa, irreale, posso ottenere altri numeri da scorporare. Una catena di conseguenze che solo per puro caso convergono in questo viaggio, precisamente nel ritorno a casa.

    Lasciamo una stazione di mattoni gialli, ne ho contati 350 nella parte destra, quella accanto all’entrata principale. Trecentocinquanta è un buon numero, quello che il mio occhio sinistro è stato in grado di contenere. Ho chiuso, invece, l’occhio destro. Così, giusto per mostrare qualche resistenza. Per far capire che ci provo a lottare, a star fuori dall’abisso, certo non oltre i limiti del possibile.

    In quegli attimi vivo in apnea. Sommerso. Sotto la superficie. Coagulo, fisicamente, il mio respiro e lo rivolto. Nella testa un gran dolore, il prezzo giusto per andar via e non ripensare alle parole degli altri.

    Quella parte della mia nuca che degenera internamente e mi spezza, mi rende frammento. Avverto in modo preciso quel momento.

    Lo anticipo di una frazione di secondo e così, senza volerlo e senza alcun senso, raddoppio il dolore.

    Pago due volte per lo stesso viaggio.

    Mi curo. Per tutto questo e anche per altro esistono farmaci e dottori, ma la guarigione è una forma d’attrazione, un po’ come l’amore, per cui bisogna essere corrisposti. Corrispondere all’attrazione e alle sue regole, corrispondere all’amore che imperversa.

    Perché è tutta colpa dell’amore.

    Se non amassi mia moglie non avrei bisogno di guarire. Se ci fosse stato dell’amore tra Luc Havan e Jaco Pastorius in quella notte strafatta e ansiogena fuori dal Midnight Bottle Club, Pastorius sarebbe ancora vivo o forse sarebbe solo morto in modo diverso.

    Ascolto i suoi cd mentre lavoro. Mando in loop lo stesso pezzo per ore. Mentre trascrivo documenti dei primi dell’ottocento, scorporo la ritmica del suo basso. Resta sempre qualcosa di sospeso.

    Havan è uscito dal carcere dopo solo quattro mesi. Pochi minuti per piegare Pastorius e lasciarlo in strada sanguinante alle quattro del mattino del 12 settembre del 1987.

    Un posto al centro della storia conquistato annullando il protagonista.

    Io so dove abita oggi Havan. L’ho rintracciato e un giorno andrò a bussare alla sua porta, dopo aver toccato con il pollice della mano destra l’etichetta con sopra scritto il suo nome, e me lo troverò davanti. Gli ripeterò il tempo di quel pezzo di Pastorius, il tempo così come Jaco lo creava, ma Havan non capirà.

    Non riconoscerà né il tempo, né Pastorius.

    Lui mi dirà semplicemente di andare via. Non mi ucciderà. Non uccide più. Tutta colpa dell’amore, perché viene usato sempre nelle dosi sbagliate. O troppo, o troppo poco.

    Non c’è corrispondenza che non sia labile e che non utilizzi sfumature e concetti inespressi per crescere, evolversi e diventare spesso qualcos’altro. La fine.

    Nel non capirsi c’è tanto potenziale. Un modo di conoscersi di spalle, senza guardarsi negli occhi. Se anche non capendosi si passa insieme parte del tempo che ci resta, è evidente che razza di guaio sia l’amore. Irrimediabile, perché non statico. Non acquisisce una forma comparabile e danneggia ogni tentativo di ricostruzione logica. Piuttosto decostruisce continuamente ciò che ti dà.

    Nel momento stesso in cui ti sembra di acquisire delle specifiche certezze, ebbene proprio allora, i fili della trama iniziano a diventare visibili per la tua ragione.

    Verifichi con impazienza che è un gioco d’incastri.

    Sai bene come funziona nel nostro lavoro - mi aveva detto Herman, il responsabile della Fondazione prima di consegnarmi la valigetta con tutta la corrispondenza originale di un soldato italiano della prima guerra mondiale e sua moglie - La ricerca storica è vincolata ai finanziamenti. I finanziamenti sono roba politica e nella politica il sole non batte sempre dalla stessa parte. Prenditi il tempo necessario per trascrivere queste lettere e per ricostruire le vicende di questo soldato. Come al solito, sono sicuro che non lascerai niente al caso. Intanto, magari, si smuove qualcosa. Sai com’è l’Italia…

    Io sono italiano. Ho questo dato anagrafico iniziale come identificativo personale.

    Sono italiano. Sono. Verbo essere.

    Sai com’è l’Italia.

    Sai. Verbo sapere.

    Essere e sapere sono verbi diversi.

    Non lo so com’è l’Italia. Vivo in Italia anche senza sapere cos’è diventato questo posto. Mi chiedo cosa ne sappia Herman di com’è l’Italia e di come funziona il nostro lavoro, che poi è solo il mio. Il suo, fino a prova contraria, consiste nell’assumermi con contratti temporanei, nel trattenersi parte della mia busta paga e nello scusarsi fin troppo esplicitamente per non poter fare di più o di meglio. Sinceramente preferisco non provi a fare di più. Uno come Herman tutto quello che fa per te è un costo aggiunto e io di paga già prendo una miseria.

    Sto tornando a casa con una valigia piena di lettere. Sono un postino senza divisa. Portatore anomalo di storie che avevano indirizzi diversi da quello di casa mia.

    Vivi facendoti i fatti della gente. Sei una specie di investigatore privato, peccato che quello su cui investighi sia oramai immutabile - questo dice sempre mia moglie - Qualcuno penserebbe addirittura che siano ricerche inutili. Cose lontane nel tempo. Passato. Nessuno può trarre qualcosa di buono dal passato. Non in questo paese.

    Ho una valigia carica di passato, sono in un non luogo, sospeso nel viaggio tra partenza ed arrivo e avverto una forte perdita di consistenza del reale.

    Sbiadisco nel riflesso del finestrino.

    Spero di arrivare prima di evaporare del tutto.

    Anche solo un pezzo di me devo riportarlo a casa.

    Lo devo a mia moglie. L’amore è dovere.

    Sistemi di catalogazione

    Creare un sistema per rintracciare i contenuti di un insieme di documenti equivale a stabilire un ordine. Per rintracciare informazioni, recuperiamo ragionamenti logici che non potrebbero essere utilizzati in altro modo.

    Un mondo chiuso che basta a se stesso, questo è un sistema.

    Nessuna applicazione corrispondente nel reale.

    Per non perdere le tracce del passato distribuisco gli elementi su piani diversi. La priorità è semplice da capire, complicata da ottenere. Un sistema di catalogazione è un’ansia regolamentata. Una paura gestita. Non esiste fortuna, solo saper intuire le domande improbabili, uniche, quelle che formuleranno lontano da te che hai archiviato dati in files predefiniti.

    Ho paura. Paura delle domande della gente. Quando mi assegnano un nuovo lavoro avverto dei tremori lungo la linea cervicale. Scosse multiple e destabilizzanti per la mia postura. Il terrore inizia a invadermi.

    Un’invasione materiale, concreta. La curva della mia schiena viene piegata, costantemente. Anche adesso, chiuso in macchina nel ventre di cemento del garage, ho l’impressione di spezzarmi. Non riesco ad aprire lo sportello. Resto immobile, forse non deglutisco. Osservo la mia ossessione poggiata sul sedile accanto. Una valigetta piena di episodi da ordinare. Qui dentro si suda.

    Mi riservo di vivere normalmente non appena riuscirò a trovare il modo di muovermi per aprire lo sportello.

    Provo a concentrami su mia moglie. Lei è al piano di sopra che mi aspetta. Un motivo per attivarmi. L’unico. Le attese di chi ci ama. Le sue aspettative su di noi.

    Tremendo è avere paura delle domande, peggio non rendersi conto di dare risposte sbagliate. Significa fallire. Tutto diventa sfocato in quei casi e non riesco a sopportarlo.

    Nella mia ossessione c’è musica.

    Lo stereo è spento, ma Glen Gould suona ancora. Non mi allieta. Non è capace di far altro che di essere un genio. La sua ritmica esecutiva è una scelta. Suonando sceglie di rendermi consapevole della distanza che ci separa. Me la fa pesare. Non smette mai di farlo. Non smette di suonare. Superiore alle percezioni e alle intenzioni. Tanto grande da non ammettere proporzioni, relazioni. Vuole solo schiacciarmi.

    Glen Gould non mi ha mai amato.

    Questo mi commuove quando continua e continua e continua a suonare nella mia testa.

    Arriva di colpo, come uno spavento, e non se ne va più.

    Uscire da questa macchina prendere l’ascensore fino al secondo piano trovare le chiavi di casa aprire la porta finalmente vederla dopo una giornata d’inferno.

    Riprendere a respirare e poggiare la valigetta nello studio.

    Chiudersi le porte alle spalle. Tutte. Almeno fino a domani.

    Darmi una tregua e chiamarla Arkansas. È il nome di mia moglie.

    Non il nome all’anagrafe. Io la chiamo così con il nome dello stato in cui è nata. Non uso per lei altri appellativi o nomignoli. La contraddistinguo da tutto e da tutti con le sue origini. Per me è sempre stata Arkansas, in qualunque momento. A colazione come a cena, sempre.

    In questo non nome la riconosco come unicamente mia.

    Agli altri risponde quando la chiamano con un nome diverso, a me si riserva d’appartenere con questo suono che connota altre sue origini.

    Lei per me è come quell’uomo cieco nascosto dentro lo Steinway CD 318 che suonava Glenn Gould.

    Arkansas è attenta alla mia meccanica, l’uomo cieco curava quella della materia di Gould.

    L’uomo cieco si chiamava Verne Edquist. Cataratte congenite gli tapparono gli occhi dall’età di sei anni. Nel suo mondo le note erano colori, lui li vedeva da cieco distintamente e Gould li dipingeva ogni volta che toccava gli ottantotto tasti del CD 318. Ottantotto tasti e duecentotrenta corde. Ogni corda da accordare ad una particolare altezza. Se quello di Edquist non fosse stato un lavoro, sarebbe stata la vita stessa.

    Accordare, come vivere, è impossibile da terminare una volta per tutte.

    In questa registrazione di Gould che prosegue nella mia testa, si sentono i suoi sussurri. Edquist accordava anche quelli. Venivano dallo stesso freddo lui e Gould, ma da due strade opposte. Glenn era il designato. Verne il menomato.

    Nell’ambulatorio di Prince Albert, a sei anni, Verne fu legato ben stretto al tavolo operatorio e con un ago gli bucarono il cristallino dell’occhio. Non servì ad altro che a farlo soffrire al solo ricordo per tutta la vita. Tutta la musica di Edquist odora di cloroformio. Ne sento l’odore qui chiuso in macchina e sto progressivamente perdendo i sensi.

    È tutto così perfetto quando Gould mi inizia ad invadere. L’afasia che mi prende è asciutta e mi provoca delle allucinazioni visive fatte di codici a barra e numeri d’inventario. Sono malato ma è normale. Chi non è malato? Edquist lo era. Grazie alla malattia scoprì la musica.

    La prima volta che sentì distillare le note fu quando venne ricoverato in ospedale per sei settimane perché malato di scarlattina.

    L’ospedale si trovava vicino ad un negozio di strumenti musicali e lui passò la sua convalescenza al buio alla ricerca dei colori di quei suoni.

    C’è un uomo cieco dentro il pianoforte che suona Glenn Gould.

    C’è Glenn Gould dentro questa irragionevole apatia e dentro tutto questo ci sono io, chiuso nella macchina, in attesa del finale. Un finale senza applausi registrati. Non morirò neanche questa volta.

    Gould suona solo fino alla fine. Non ammette di andare oltre. Mi lascia grondante di sudore e con l’affanno. Le dita delle mani tremano contratte, non riesco a distenderle. Continuo a peggiorare, ma almeno ascolto buona musica. Anche i codici a barre sono spariti dal parabrezza.

    Il mio sudore puzza di qualcun altro. È la prova che non ero io a stare qui, ma meglio non dirlo ad Arkansas. Penserebbe che le medicine non stiano rendendo per quel che costano.

    Io ho fiducia. Persino nelle medicine.

    Finalmente apro lo sportello e riesco ad uscire dalla macchina. Una macchina grigia. Anche negli acquisti sono prevedibile. Zoppico e mi trascino fuori dal garage. Non prendo l’ascensore. Non ce la farei a venirne fuori. Salgo le scale tirandomi dietro la valigetta con l’epistolario. Ad ogni gradino tutto mi sembra più semplice. Man mano che mi avvicino alla mia terra promessa, alla mia Arkansas, cambiano le mie prospettive.

    Nella mia testa suona tutta un’altra musica, e non solo nella mia testa. Ecco, questa è una cosa che mi piace di quando sono con lei, con Arkansas. Il fatto di continuare ad ascoltare musica non da solo ma con lei. Sentire insieme che qualcuno suona per noi.

    Arrivo davanti alla porta e già sento vibrare il piano. Non è Glenn Gould. Non sta volta. Non quando sono con Arkansas.

    Lei ha messo su un cd di Keith Jarret. The melody at night, with you mi accoglie sulla soglia. Ho voglia di piangere. Piangere e guarire.

    Nel preciso ordine in cui lo dico. Voglio prima piangere e poi, solo dopo, guarire. Le due cose non sono necessariamente da intendersi come inseparabili. Non esiste complementarietà definitiva. Anzi, l’esistenza in relazione di un’altra persona è da intendersi come innaturale. Tutti nasciamo in un solo modo, soli. E la solitudine è la sola cosa inseparabile. Dividerla con un altro è già superarla, nel migliore dei casi vincerla, ma in quei casi già stiamo parlando di altro, non più di solitudine.

    Siamo soli, siamo unici. Inseparabili da noi stessi. Con i sentimenti è un po’ diverso. Sono cespugli. Non seguono le leggi della gravità.

    Cadono o stanno su per incomprensibili motivazioni.

    Ricordo la prima volta che mi resi conto di vivere chiuso nella mia scatola. Mi sentii unico, ma anche solo. Era prima di incontrare Arkansas, prima di Keith Jarrett.

    Cosa direbbe adesso Arkansas se mi vedesse fermo davanti alla porta di casa ad origliare la nostra musica? Non avrebbe bisogno di chiedermi nulla.

    Mi riconoscerebbe.

    Aspetterebbe che mi decidessi ad entrare.

    Non ce la faccio. Non per tutto basta la musica. Ad esempio, per quanta ne ascolti, non mi sembra di aver ben capito in cosa consista.

    Voglio dire, che senso ha? Detto da me che penso a cose insensate e che ancora di più ne faccio, è un duro colpo per chi s’illude di curare la psiche e i suoi disturbi con l’arte.

    La malattia è una luce non è tenebra. Il difficile è non spaventarsi quando quella luce ti mostra cosa hai dentro. Ecco perché non apro la porta. In casa non sono solo, dentro di me sì. Quella luce è solo per me.

    Per il mio vuoto. Non voglio si allunghi sulla vita di Arkansas.

    Keith Jarrett lo sa che non basta la musica, eppure lui la suona.

    Conosce questa stanchezza che non va più via. La fatica di esserci per se stessi e per gli altri. Non ricordo perché ascolto la musica. Non ricordo perché mi piace Keith Jarrett. La memoria è una valvola che si allenta e non riesco a infilare le chiavi nella serratura. Ho un bruciore nella faringe che sospetto provenga dalla mia incapacità di dire agli altri, anche alla persona che vive dietro quella porta, tutte le parole che meriterebbero di sentirsi dire da me. Sono le cose non dette. Ingolfano tutto il resto e il percorso non si completa.

    Non si guarisce così, con queste parole che non vengono fuori e che mi strappano lembi di carne.

    Perché la mia malattia sia credibile è necessario perdere sangue.

    Se non c’è sangue non c’è dolore. Anche nelle malattie siamo legati a concetti arcaici, al sangue e alle inclinazioni diuretiche. Il piano di Jarrett sembra non credere a quello che può essere la vita.

    Ha il passo dinoccolato di un gigolò d’altri tempi. Forse di quegli stessi tempi che mi porto dietro in questa valigia. Faccio quel che faccio per pensare agli altri invece che a me stesso. Sposto l’obiettivo sulle facce delle persone, su ciò che si sono presi la responsabilità di lasciarci.

    Magari non pensavano minimamente di lasciarle le loro parole.

    Sono lettere. Oggi neanche se ne scrivono più. Già per questa loro natura sono capaci di farci credere che contengano una storia. Ecco cosa devo fare. Non devo pensare a me che non ho una storia.

    Devo mettere in ordine la storia che porto nella valigia. La devo rendere chiara, limpida, scorrevole, piena di punti di riferimento storici, inserirla in contesti ampi, verificarne i possibili scenari paralleli.

    La chiave che ho messo nella serratura non è quella giusta.

    Eppure la porta si apre lo stesso.

    Qualcuno la apre per me.

    Qualcuno che ascolta Keith Jarrett con me.

    Partenze

    "L’odore è ferroso. Proviene direttamente dal corpo di quell’uomo con il viso coperto da un largo cappuccio nero.

    Agita nell’aria delle catene ossidate. Il rumore diventa sempre più forte, cresce come la massa scura del corpo dell’uomo. Caterina lo guarda senza riuscire a muovere la testa dal cuscino. Il suo corpo è incollato al materasso. Non riesce a trovare dentro di sé la capacità di muoverlo.

    Continua a guardare le catene che ronzano nell’aria accanto al suo letto e le si allarga in petto l’ansia. Vuole almeno chiudere gli occhi ma non può. Non le è permesso distrarsi, l’odore ferroso le sale nella testa attraverso le narici. Quel gusto di metallo le impasta la bocca e condensa tutta la saliva in un’unica piccola goccia che scivola fuori dalle sue labbra socchiuse.

    L’uomo non alza la testa e le catene la sfiorano. Un tocco d’aria gelida le imballa tutto il corpo sotto le pesanti coperte. Non sembra possibile che l’uomo finisca la sua esibizione. Non parla, non c’è suono in tutta questa paura. L’odore mette la nausea e riempie la mente di Caterina. Sa di essere sola in quel letto e in quella stanza.

    Il mondo è troppo lontano, è partito la sera prima con una corriera disperata. L’ha lasciata lì ad aspettare il ritorno.

    Caterina è in un sogno che si ripete. Ininterrotto e uguale. Un sogno che basta un secondo per essere sognato e il secondo dopo è ancora ripetuto. Non c’è un punto né una virgola. Lo stesso sogno rifatto tutto d’un fiato anche se il fiato, almeno quello di Caterina, non torna.

    L’uomo scuote la testa e avanza. Procede senza passi, semplicemente si sposta. Ha movimenti rapidi. Caterina raduna le sue forze e chiude gli occhi, ma anche con gli occhi chiusi vede tutto. Non c’è modo di scappare o di far finta che tutto ciò non stia accadendo. Non lo racconterà a Don Mercurio, non l’ha mai fatto prima e non intende farlo adesso che è rimasta sola, con un marito partito per fare la guerra in un posto che lei non crede sia proprio l’Italia.

    Ma di questo non può esserne certa. Lei non ha studiato. Conosce il nome di poche cose e anche Italia è un nome curioso.

    Non ne farà parola con nessuno. La gente, anche i preti, chiacchierano. Si tengono compagnia con i fatti degli altri e più sono strani i fatti e più si cercano i colpevoli. Caterina non lo sa se c’è colpa nel vedere quest’uomo che gira nell’aria le sue catene, ma è sicura che se lo raccontasse in giro nessuno la riterrebbe innocente.

    L’uomo deve sapere tutto di lei. Deve aver visto partire il marito e sa che questa notte lei è sola nel freddo dello stanzone. È venuto perché sicuro di trovarla già addormentata e stanca.

    La stanchezza non le ha permesso di resistere alla comparsa e all’odore del ferro. Se avesse lavorato di meno avrebbe avuto più forza per risvegliarsi e scacciarlo.

    Adesso però è troppo tardi per tutto questo. Può solo accettarne la presenza e sperare che con la resa e l’abbandono la furia dell’uomo incappucciato si plachi. Però non le sembra possibile che tutto possa finire senza vincitori né vinti. Per poco che conosce gli uomini, sa che non si scomodano per una donna se non per ottenerne qualcosa.

    Che poi non è vero che quell’uomo è venuto perché lei è da sola.

    È già stato

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