Il taglio del diamante
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Anteprima del libro
Il taglio del diamante - Giulia "pallina" Torelli
VENTOTTESIMO
IL TAGLIO DEL DIAMANTE
ovvero Le quattro C
L’AUTRICE - Breve biografia
Giulia Torelli, Pallina
, è lo pseudonimo di una signora divorziata e riaccompagnata, nata poco più di una quarantina di anni fa nella Capitale, dove vive e lavora come dirigente in un’azienda del lusso
. Scrittrice non professionista di brevi storie umoristiche, passa con questo suo primo romanzo ad un genere totalmente diverso rispetto a quello trattato sino ad oggi. La rappresentazione dei personaggi, delle situazioni e specialmente degli stati d’animo che illustra, resta però originale e minuziosa. Il lessico adottato è quello a lei più congeniale e cioè lo stesso delle sue novelle: ironico e leggero, reso a tratti più profondo dalla delicatezza degli argomenti affrontati. Uno stile che punta nello stesso modo a stuzzicare curiosità e riflessioni anche se, ampliando di molto il suo raggio d’azione, diventa spesso scandaloso
, come i contesti che descrive.
LA COPERTINA - E’ un quadro della pittrice Dominga Pascali www.domingapascali.it
Al mio Lui
"Se non ci fossi tu non ci sarebbe nemmeno questo romanzo, perciò voglio ringraziarti più volte.
Grazie per la tua presenza fisica, per la sicurezza che mi infondi e per l’amore che mi dimostri giorno dopo giorno: sapere che ci sei mi è indispensabile.
Grazie per aver accettato i miei tempi, lasciandomi vivere serena, accanto a te, la fase più complessa della mia vita, sentimentale prima, sessuale poi.
Grazie per avermi accompagnata in questo viaggio e per averne compreso ansie, timori e tentennamenti.
Grazie infine per aver reso possibile la realizzazione di questo libro, con il supporto fondamentale che hai fornito alla stesura ed al perfezionamento dell’intero lavoro con la competenza, la calma ed i sentimenti da persona buona che ti contraddistinguono da sempre".
IL TAGLIO DEL DIAMANTE
ovvero Le quattro C
PREFAZIONE
Per ricavare un diamante da un frammento di carbonio la Terra impiega mediamente un miliardo di anni, ma da soli non bastano a regalarcelo in tutto il suo splendore: è grezzo, è poco più di un sasso.
Il valore ultimo è determinato in base a dei parametri che solitamente vengono indicati come le quattro C
, dalle iniziali dei vocaboli in lingua inglese Colour (colore), Clarity (purezza), Carat (caratura, cioè peso) e Cut (taglio).
Le prime tre C
sono caratteristiche intrinseche del minerale, la quarta è compito dell’uomo. E’ pertanto indispensabile un suo intervento per fissare su quel sasso la bellezza abbagliante che ci si aspetta quando, ad esempio, si pensa ad un ‘solitario’.
Sempre tre C
in prima lettera, Charme, Curiosità e Carattere, possono definire i tratti fondamentali di una persona. Anche quest’ultima, come il minerale, sarà in grado raggiungere il suo valore più alto mediante il sapiente Cut
di un abile agente esterno.
Quella che segue è una parte importante della vita di Giulia, protagonista e voce narrante di questa storia. Una donna in possesso di tre C
veramente notevoli, ma anche segnata da un grave fallimento: un matrimonio ormai in pezzi che appanna irrimediabilmente il suo Charme e le tarpa sul nascere qualsiasi Curiosità, mortificandone aspirazioni e Carattere.
Lei però non cede alla rassegnazione, continuando a credere con forza nelle sue qualità. E fa bene, perché sarà premiata dall’arrivo di un uomo nuovo. Apparirà all’improvviso per offrirle una quarta C
ai massimi livelli, tale da trasformarla da pietra grezza a diamante, da bozzolo a farfalla, affinché possa riprendere finalmente il volo e puntare con lui il cielo, verso orizzonti mai immaginati prima.
Seguiremo la nascita ed il consolidamento di un legame sincero, non banale, sorprendente, destinato a divenire man mano più profondo anche, ma non soltanto, in virtù di esperienze particolari che la coppia affronterà. Sempre insieme, sempre in armonia.
Un nuovo stile di vita che finirà per mettere in discussione l’accezione comune di molti vocaboli fra i quali serietà
, dignità
, fedeltà
, moralità
, purezza
, rispetto
e dei loro sinonimi o contrari, che hanno da sempre una connotazione ed una collocazione ben precisa nelle menti di ognuno.
Nel libro si intrecciano vicende sentimentali ed erotiche, esposte da un punto di vista in prevalenza, ma non soltanto, femminile. Il loro trait d’union è una profonda introspezione psicologica volta, fra l’altro, ad individuare ed illustrare i motivi per i quali un rapporto d’amore debba essere alimentato sempre, ma in modo assolutamente imprescindibile quando si desidera osare di più
.
Oppure, più semplicemente, le vicende di Giulia possono essere considerate delle finestre aperte su situazioni ed avvenimenti fuori dall’ordinario, ma forse molto più frequenti di quanto la buona società
sia disposta ad ammettere.
Nell’insieme, un modo per comprendere meglio, e valutare oltre i canoni della morale corrente, donne e uomini molto spesso sommariamente etichettati come dissoluti. Persone che potrebbero avere dentro di loro non soltanto curiosità considerate ai limiti del patologico e desideri scabrosi, ma anche grande concretezza e pregi insospettati.
Senza generalizzare, come logica impone. Non tutti infatti amano rapportarsi con quell’entità che apparirà quasi alla fine, con un colpo di scena. Un’altra C
iniziale.
La quinta, addirittura.
CAPITOLO PRIMO
Pochi minuti alle otto di sera di un sabato come tanti altri.
Fra non molto sarebbe tornato a casa lui e come al solito, al massimo cinque secondi dopo aver varcato la soglia d’ingresso, reduce dall’immancabile partita settimanale di calcetto, mi avrebbe detto: Sera, tutto bene?
Ed aggiunto, un attimo dopo: Cosa c’è per cena?
La chiave, anche quella sera, girò nella toppa con puntualità cronometrica. Eccolo, con il solito ritornello, parola per parola:
Sera, tutto bene?
Un nanosecondo e ci incollò l’immancabile: Cosa c’è per cena?
La cena: ecco il punto importante, dopo aver passato una giornata lontani. Altre richieste, a parte quella, nessuna. Altre esternazioni, idem.
Risposi direttamente alla seconda domanda, ritenendo inutile farlo alla prima, formale, come da abitudine: Risotto al radicchio e gorgonzola, arrosto di vitello ed asparagi viola al forno. Va bene?
"Uhm, può andare. Ma l’acqua già bolle? Perché per il riso ci vuole un po’di tempo, non vorrei essere ancora a tavola quando comincia la partita, poi non mi va né su né giù, lo sai.
Piuttosto, la carne l’hai comprata alla macelleria della Sora Cesira? Quella del banco in piazza non mi piace, non è mai abbastanza tenera ed ha sempre qualche nervetto, ma tanto sai anche questo. Ah! Gli asparagi, sicura che siano proprio quelli viola?"
Certo, certo. Tutto secondo le direttive di sempre: la carne della Sora Cesira e gli asparagi con i riflessi viola come la maglia della Fiorentina, tanto per usare un linguaggio a te comprensibile. Anzi, mi dispiace averli acquistati al mercato, non ho fatto in tempo ad andare ad Albenga, a coglierteli di persona per scegliere i più belli. La prossima volta però mi organizzo meglio, in quindici ore di macchina fra andata e ritorno, dovrei farcela
.
Spiritosa… ma come, non hai ancora apparecchiato? E cosa aspetti, che lo faccia io?
Non sia mai detto! Lo faccio immediatamente. Ai suoi ordini! Signorsì, signore!
La nostra comunicazione si limitava a questo. Lui ad impartire ordini ed io ad accondiscendere alle sue richieste, visto che le sue preoccupazioni più forti erano per il cibo. Tutto il resto era scontato, ordinario, nessun argomento che meritasse una menzione od un approfondimento. Una tristezza. I suoi interessi non permettevano scambi di idee o pensieri più articolati che mostrassero nei miei confronti un’attenzione non dico particolare, ma almeno più umana.
Giovanni, mio marito, non aveva mai notato, ad esempio, in oltre tredici anni di matrimonio, che non era quello il modo in cui preparavo il risotto. Adottavo, spesso con lui presente, un sistema molto più elaborato.
Cucinavo sempre con grande applicazione, a volte anche ricorrendo a preziosi consigli di grandi chef, cercati nei ricettari che compravo appositamente per avere sempre dei risultati di eccellenza, sebbene non li meritasse. Stupida io, che quella sera avevo anche chiuso il negozio in anticipo, per imbandire la tavola con più calma.
Avrebbe trangugiato quei manicaretti, fra l’altro riusciti alla grande, con la stessa indifferenza e con l’atteggiamento distratto con il quale si mangia un panino imbottito. Uno mediocre, per giunta.
Mai nessun commento, men che meno apprezzamenti o complimenti. Né in cucina né per niente altro, d’altronde.
In poco più di mezzora, secondo la più scontata delle previsioni, si sarebbe accomodato sul divano per seguire l’anticipo serale del campionato italiano di calcio, dopo aver ingurgitato quelle prelibatezze con l’imbuto.
Non che ce l’avessi con quei bambinoni milionari che vedevo correre e saltare inseguendo una sfera griffata sui campi di tutto il mondo, tutt’altro: erano diventati per me una mezza salvezza, degli alleati puntuali e onnipresenti.
Serie A, TIM Cup, Champion’s League, Uefa League, anticipi e posticipi, spesso anche la Serie B, lo tenevano perennemente occupato, con mio grande sollievo.
In quel frangente, come in moltissimi altri, tutte le sere e per sempre, avrei voluto una seconda partita ed eventualmente una terza in sequenza finché lui, vinto dal sonno e dalle emozioni sportive non fosse stramazzato dove era, addormentandosi fino al giorno dopo ed evitandomi così il prosieguo della serata. Quello, cioè, che mi pesava di più.
Molto spesso mi veniva alla mente una storiella abbastanza conosciuta, nella sua banalità molto simile a quello che sarebbe potuto accadere a lui nella realtà e che spesso gli ricordavo, più per irriderlo che altro.
Narra di due amici, quel che è peggio adulti. Il primo diceva al secondo, mostrandogli la figurina di un calciatore:
Lo vedi questo? Questo è un mito, lo sai chi è?
No, non lo so, chi è?
Questo è Goran Pandev… vacci allo stadio, ogni tanto!
Il giorno dopo, con un’altra figurina: E questo, lo sai chi è?
No, non lo so
.
Questo è Stefano Mauri… vacci allo stadio, ogni tanto!
Ed il terzo giorno: Non mi dire che non conosci nemmeno questo
.
No, non conosco nemmeno questo
.
Questo è Tommaso Rocchi… vacci allo stadio, ogni tanto!
Finché l’altro, quello che non conosceva i giocatori, si presentò un giorno al suo amico con una foto in mano, dicendo:
E tu, lo conosci questo?
Mmm… mi sembra di no. Chi è, con quale squadra gioca?
Questo non gioca a calcio. E’ il tipo che si porta a letto tua moglie quando sei allo stadio… stacci a casa, ogni tanto!
Alla fine cercavo sempre di sottolineare la morale, evidente, fra l’altro. Avrebbe potuto, gli dicevo, rivelarsi utile a tutti quegli individui le quali passioni diventano alienazioni.
Anche a quelli che, come lui, in gran parte si erano trasferiti, con il passare degli anni e l’avvento delle pay-tv, dalle poltroncine degli stadi alle più comode poltrone o ai divani del salotto di casa. Serviti e riveriti, magari, peggio ancora… per chi doveva sorbirseli.
Parole al vento ampiamente sottovalutate, che al massimo gli strappavano qualche sorrisetto di scherno.
C’era poco da ridere, invece. Aneddoti a parte, in quel periodo era proprio la fine che avrebbe meritato mio marito.
Lo scorrere del tempo però, si era portato via lentamente, insieme all’amore, quella voglia prepotente di rivalsa che irrita e porta litigi, certo, ma che è anche il sintomo di un sentimento ancora vivo. Lasciavo pertanto che le giornate scorressero con quell’inedia che era diventata da anni un ritmo di vita. La nostra intesa si era dissolta e con essa sensazioni, emozioni e sorrisi peraltro, da parte sua, elargiti sempre col misurino. Tutto, o quel poco, era ormai un lontano ricordo sfocato.
Dal fischio d’inizio in poi lui non esisteva più, aleggiava, come del resto faceva in tutte le circostanze che non lo riguardassero direttamente. Prestazioni di ogni genere a parte, era come se non ci fossi. Il vuoto assoluto, in sostanza.
Durante l’incontro la sua presenza si percepiva solo sporadicamente da qualche imprecazione del genere: Porca puttana, e tira, imbecille!
Ce l’aveva naturalmente con qualcuno della sua squadra del cuore, formata praticamente da camaleonti: assi quando vincevano, somari quando fallivano un intervento o se alla fine perdevano il match. Tipico del suo modo di ragionare, non soltanto riguardo al calcio. Tutto doveva girare nel modo che voleva lui o che in qualche modo gli recava vantaggio, altrimenti erano sempre gli altri a sbagliare.
Si ricordava di me solo durante gli intervalli per chiedermi di portargli il whisky, le sigarette o il portacenere. A fine incontro, qualunque fosse stato il risultato, il mio destino era comunque segnato.
Mi tornava spesso alla mente una vecchia pubblicità che sentivo allo stadio da bambina, quando mio padre riusciva a trascinarmi a forza allo stadio Olimpico di Roma insieme al più grande dei miei fratelli. Per far cosa poi? Per vedere una squadretta dai colori sbiaditi della quale era tifosissimo e della quale divenni acerrima nemica, schierandomi decisamente sull’altra sponda del Tevere, forse per rivalsa verso di lui. Recitava così: la vostra squadra del cuore ha pareggiato? Stock 84. Ha perso? Consolatevi con Stock 84. Ha vinto? Brindate con Stock 84!
Altro che brindare, io già rabbrividivo pensando al dopo partita. Non subito dopo il triplice fischio, magari! Riflettevo angosciata su quello che mi aspettava alla fine di tutto l’evento perché, sino a che non scompariva l’ultimo carattere dei titoli di coda, Giovanni non si staccava dalla tv.
Come lasciava il divano però, io dovevo essere lì, immediatamente disponibile, sveglia e pronta. Poco gli interessava che mi assopissi (o che facessi finta di farlo). Il sabato sera era serata di sport e di sesso, non c’era scampo: secondo un cliché ormai consolidato, dopo il calcio toccava a me.
Non gli importava nemmeno che usassi per scoraggiarlo frasi che avrebbero dissuaso anche il più incallito degli stupratori seriali, tipo: Mannaggia, ho una bocca… mi si è aperta una carie o non dovevo mettere l’aglio nei contorni
.
In alternativa: Fastidiosissima questa irritazione vaginale, oltre al prurito mi provoca delle maleodoranti perdite biancastre…lunedì dovrò andare dal medico
. Non sortiva effetto nemmeno questa. Terribile, oltretutto!
Naturalmente tiravo in ballo anche le mestruazioni che mi ‘facevo venire’ con un ritmo assai superiore alla media, ma alle quali non potevo certamente ricorrere per due sabati di fila.
Il canonico mal di testa l’avevo già usato da poco ed alla scusa della bimba che ‘ci sentiva’ non potevo attaccarmi: durante quel fine settimana era in gita scolastica.
Snocciolavo questa fantasiosa varietà di montature, si sarà capito, per cercare disperatamente di evitare un vero e proprio sacrificio umano. Il mio.
Io, ligia alle regole da sempre a causa di un’educazione rigida e tradizionalista, non riuscivo proprio a scrollarmi di dosso con decisione quegli scrupoli atavici che mi rendevano perennemente succube. Di conseguenza non mi sentivo in grado di opporre dei rifiuti netti a quelle avances, a quelle pretese anzi, alle quali ero sottoposta con cadenza settimanale e quasi sempre di sabato sera.
Di questo dovevo ringraziare il mio genitore padre-padrone e tutto il suo casato, di stampo tradizionalmente patriarcale. Un po’ anche mia mamma, per la verità, donna amabilissima, soprattutto con noi figli, però debole. Non aveva mai avuto la forza non dico di ribellarsi, ma nemmeno di farsi sentire.
Purtroppo Giovanni assomigliava moltissimo a mio padre, soprattutto nei modi e ci andava, guarda caso, anche perfettamente d’accordo.
Il mio sacrificio del sabato notte lo chiamavano ‘dovere coniugale’! No, dico, ma vogliamo scherzare? E’ un’aberrazione, il retaggio di un’usanza medioevale, un concetto nato per imporre la supremazia di un maschio arrogante e prevaricatore. Un vero e proprio stupro, anche se c’è un assenso apparente.
Poco importa che ci sia scritto da qualche parte che quell’essere è tuo marito, in quel momento è uno che non desideri e che ti ansimerà addosso, magari sudando, contro la tua reale volontà. Era paradossale per me arrivare a considerare ‘dovere’ una pratica che ritenevo esclusivamente piacere, come era all'inizio, quando il matrimonio era ancora amore, desiderio, considerazione reciproca, rispetto, passione. Come ci eravamo ridotti cosi? Praticamente due corpi estranei, il mio anche refrattario.
Quando mi trovavo proprio con le spalle al muro ricorrevo alla frase standard: Va bene, ma devi fare presto, domani dobbiamo alzarci di buon’ora per andare a… per fare questo o quello… per incontrare Tizio o Caio…
eccetera eccetera.
Devi fare
, non Dobbiamo fare
. Parole pesanti, delle quali lui non percepiva nemmeno lontanamente la gravità. Infatti, non funzionavano neanche quelle.
Giunto il fatidico momento, rassegnata e con circa un’ottantina di chili di carne sopra di me, guardavo il lampadario in penombra, seguivo le sue curve e soffrivo in silenzio, sbirciando di tanto in tanto l’orologio sul polso di un braccio che per umana pietà gli cingeva il collo.
Avrei voluto accelerare il tempo. Mi dicevo: Dai, coraggio, tanto durerà poco, come al solito
. Lui non si rendeva conto, o non voleva farlo, che lo abbracciavo soltanto per dare una minima parvenza di partecipazione, a causa di quel filo di compassionevole affetto che ancora provavo e che mi teneva, sempre più flebilmente, legata a lui.
Così, mentre ‘quel bruto’, senza un bacio –in fondo, meglio così- senza tatto, senza un minimo accenno di tenerezza, incedeva nel suo meccanico su e giù, io pensavo, con le lacrime agli occhi, al romanticismo, alla passione, all’amore sincero che avrei voluto donare e ricevere, con gioia e partecipazione. Alla persona giusta però, quella che si ama e che si desidera senza riserve.
Chissà se arriverà mai, mi chiedevo, dal momento che nessuno aveva sostituito, nemmeno nella mente, quell’uomo verso il quale non provavo più nulla di coinvolgente, di forte, di vibrante, da tempo immemore. Soltanto repulsione e rabbia repressa.
L'energia positiva che nonostante tutto ancora percepivo dentro di me, ma che avvertivo anche inesorabilmente scemare, quanto sarebbe durata?
In quanto tempo si sarebbe trasformata in quella malinconica rassegnazione che vedevo da anni negli occhi di mia madre e di tante altre donne, addirittura molto più giovani di lei?
Vivevo quella fase della vita in costante conflitto, fra la speranza di tornare a vivere di nuovo a tutto tondo, con un nuovo compagno, nuovi interessi, nuovi stimoli e l’angoscia che non mi rimanesse altro da fare che valutare un modo tranquillo per affrontare il futuro con mio marito, rassegnata come mia madre con mio padre.
La mamma ricordava spesso che si teneva ancora accanto ‘quell’essere’ con grande sacrificio, solo per compagnia e reciproca assistenza e voleva rappresentare lo stesso per lui.
Continuava a rimanerci per facciata e soprattutto per noi figli, anche se già da ragazza avevo cominciato a dirle, quando la vedevo particolarmente affranta ed eravamo sole: A ma’, guarda che per me non ci sono problemi, fa’ quello che senti. In ogni caso io sono con te e vengo con te, fino in capo al mondo
. La risposta, purtroppo per lei, era sempre la solita: Figlia mia, avrei dovuto farlo prima… ormai sono vecchia, dove vado, che faccio?
Recentemente mi aveva confidato che aveva finalmente smesso di fare l’amore, per sua scelta e con suo grande sollievo sostenendo, ma non era vero, di aver raggiunto inesistenti limiti di età. A causa della sua ignoranza, o del tempo che per fortuna passava anche per lui, mio padre le credette.
In cambio di una certa tranquillità, maggiormente sotto ‘quell’aspetto’, lei gli aveva anche confermato il suo ruolo di sempre e cioè quello della domestica-tutto-fare-che-deve-obbedire-e-basta-e-meno-parla-e-meglio-è.
Una prospettiva di esclusivo mutuo soccorso è un’eventualità normale, e neanche tanto, per chi si appresta ad affrontare gli ultimi anni della vita. Assolutamente prematura per me, una donna in fin dei conti ancora giovane non soltanto per l’anagrafe, ma anche nel fisico e nella mente.
Vedevo ancora lontanissima la data del mio ‘pensionamento’, ripetendomi spesso: ‘Troppi anni di contributi dovrò versare prima di arrivarci!
Mi sentivo come un’esodata, a volte: troppo ‘vecchia’ per provare le più belle sensazioni della vita, per prime quelle che suscita l’amore e troppo giovane per pensare alla pensione e rassegnarmi.
Poteva ritenersi conclusa così, la mia esistenza ‘attiva’? Non mi restava altro che vivere di ricordi e di godere soltanto della felicità di Arianna, quell’unica figlia che rappresentava la sola cosa grandiosa, la più bella, la più vera, del mio matrimonio?
Per quanto amore potessi portarle, in quel momento della vita mi sembrava sinceramente troppo presto per dichiararmi finita e vivere di riflesso, dedicandomi esclusivamente a lei. Intanto il tempo passava, incurante dei miei tormenti…
CAPITOLO SECONDO
Non ho ben presente che giorno fosse, ricordo soltanto che era in mezzo alla settimana e che pioveva a catinelle.
Mi giravo i pollici nel punto vendita calzature uomo-donna-bambino di mia proprietà, un locale molto ampio nelle dimensioni ma che gestivo da sola, spesso avvalendomi della collaborazione di Daniela, una mia amica di infanzia. Non si era ancora visto un cliente sin dall’apertura ed eravamo già a mattinata inoltrata.
Capita sovente, specialmente nei piccoli centri, ma è difficilmente digeribile per i commercianti. E’ comprensibile che con un tempo simile nessuno se ne vada in giro per compere se non strettamente necessarie, però gingillarsi in negozio fissando il vuoto, irrita. Gli impegni vanno rispettati: i pagamenti alle aziende, le scadenze, le bollette, non tengono conto dei fattori atmosferici.
Non era più il periodo ‘delle vacche grasse’, tuttavia la mia attività ancora reggeva, anche abbastanza bene.
Stavo pensando, a mo’ di esorcismo, di telefonare a Daniela per chiederle di sostituirmi. Malgrado il tempaccio mi era venuto in mente di tornare a Roma, una trentina di chilometri circa da dove vivo e lavoro, per fare un salto in Piazza di Spagna. La settimana prima, in un’altra mezza giornata di permesso che mi ero concessa, avevo visto nello show room di Les Copains un meraviglioso completo giacca-pantalone con tanto di camicia in seta abbinata.
Poiché il furbetto mi sorrise a lungo, strizzando l’occhio e facendomi innamorare, sarebbe stato molto probabile, se non sicuro, che rivedendolo gli avrei ceduto. Gratificarmi di tanto in tanto con l’acquisto di un capo ‘importante’, mi aiutava a tener alto il morale.
Una mastodontica BMW X6 color argento parcheggiò proprio davanti ad una delle mie vetrine e mi distolse da quelle riflessioni. Era la prima che vedevo dal vero, essendo in commercio da poco. Casualmente l’avevo vista in televisione proprio la sera prima in uno spot pubblicitario: bella macchina, di mio indubbio gradimento. Osservai l’uomo che ne usciva di corsa, appariva decisamente interessante e sembrava dirigersi in negozio. Pensai in automatico di rimandare la telefonata, un cliente con un’auto così, con quel tempo era una manna dal cielo.
Eccolo alla porta, infatti.
Buongiorno signora
disse automaticamente entrando di fretta e sbattendo i piedi sul tappetino all’ingresso, quasi senza guardarmi. Prima di percorrere i pochi metri che ci separavano, scostò il giornale con il quale si stava riparando la testa dalla pioggia. Alzò lo sguardo, mi vide bene ed assunse immediatamente un’espressione sorpresa e compiaciuta, quella che indico, nel mio personalissimo ‘Classificatore conoscenze, amicizie & affini’, nella lettera ‘F’ come: ‘Faccia di bronzo con sguardo classico da pesce lesso'. Eccone un altro
, pensai.
Stavo in piedi davanti alla cassa in un paio di jeans scoloriti e piuttosto stretti, infilati dentro stivali morbidi di camoscio blu, senza tacchi, che arrivavano ad una decina di centimetri dal ginocchio. Sopra, un pullover a ‘V’, corto, di cachemire, anch’esso blu.
Questo insieme, oltre a mettere in risalto un lato B di cui vado ancor oggi particolarmente fiera, mi dava un’aria birichina da giovincella, da ‘pischella’, come spesso mi definiva mia figlia quando indossavo mise del genere. Ero invece prossima ad entrare in maniera irreversibile, e con una punta di amarezza, nei temuti ‘anta’. Questione di pochi, pochissimi anni.
Per mia buona sorte mi riconoscevo dei punti di forza che avrei desiderato immutabili.
In un ovale particolarmente aggraziato avevano preso posto a suo tempo due grandi occhi color nocciola screziati di nero, un naso regolare leggermente all’insù, un paio di belle labbra carnose e zigomi armoniosamente sporgenti, della serie ‘quella s'è rifatta i connotati'. Aveva opportunamente pensato a tutto la Natura, invece.
Sopra, dei lunghi capelli biondi, lisci e setosi, divisi da una riga nel mezzo.
Sotto, un corpo magro e tonico. Altezza nella norma, centosessantotto centimetri distribuiti bene e tutte le curve al posto giusto, senza eccessi né carenze evidenti.
Quella mattina, sentendomi sotto meticolosa osservazione da parte dello sconosciuto appena arrivato, ripassai velocemente il quadro generale appena descritto.
Sinceramente lo feci con relativa tranquillità. Sapevo che, sotto il punto di vista estetico, non avevo nulla da temere. Ogni tanto mi ripetevo sorridendo: Non ho mica gli specchi di legno, a casa. Riflettono bene e quando ci passo davanti vedo anche una bella immagine!
A tal proposito mi tornava in mente la mamma di mio padre, Giulia anche lei, che quando ero bambina soleva dirmi, con saggezza tipicamente popolare e paesana: Lodete da sola, bella de nonna, che er vicinato è cattivo
.
Era inoltre un modo per risarcirmi della totale assenza di gratificazioni da parte di mio marito, che sembrava da lunghissimo tempo non rendersi più conto di chi avesse a fianco: una gran bella donna, a detta dei più educati, un gran bel pezzo di f., per gli altri.
Esternazioni di ogni genere a parte, gli avventori occasionali dell’esercizio accentuavano nel vedermi quelle espressioni di gradimento tipicamente maschili, evidenziando così un atteggiamento che nel classificatore di prima compare nella lettera ‘P’, voce ‘Piacione’. Quest’ultimo non fece eccezione, passò dalla ‘F’ alla ‘P’ in una frazione di secondo.
Tutti uguali, considerai… mah, una questione genetica, probabilmente. Ad ogni buon conto avevo smesso da un pezzo di meravigliarmi, né mi dispiaceva in modo particolare. Ormai ci avevo fatto l’abitudine. A dirla tutta mi sentivo anche lusingata, pur conoscendo la naturale inclinazione del maschio latino ad ostentare sempre una speciale attenzione verso la donna, purché ‘appena passabile’. Valutazione un solo gradino più in alto del deprimente ‘basta che respiri’.
Dopo avermi salutata, l’uomo della BMW si presentò, con un sorriso che mise in evidenza due file di denti bianchissimi: Mi chiamo Paolo Rossetti, sono l’agente di zona della ‘Fashion Shoes’. Prima che mi dica che non le serve niente, mi lasci almeno spiegare il motivo di questa visita, sarebbe imperdonabile da parte sua lasciarsi scappare un’occasione così
.
A quelle parole, il mio primo impulso fu di mandarlo a quel paese, anche per la delusione. Mi aspettavo un potenziale cliente ed invece uff, un venditore… e faceva pure lo spiritoso. Comunque, un po’ per gentilezza innata, un po’ perché incuriosita dalla persona e da quel tono di voce caldo, avvolgente ed ironico nello stesso tempo, decisi di lasciarlo continuare, guardandolo come per dire: Vada pure avanti
.
Lui comprese e proseguì: "Vede signora, come lei certamente saprà, il suo è l’esercizio più accreditato di questa cittadina.
Per motivi strategico-aziendali e molto sinceramente anche per certi sintomi che lasciano presagire l’insorgere di una crisi, l’azienda ha deciso di voler essere presente anche nei comuni con meno di ventimila abitanti come questo, fino ad oggi ritenuti di scarso o nullo interesse per la politica di sviluppo del marchio fin qui sostenuta. Dal momento che suppongo lei lo conosca, saprà di conseguenza del prestigio di cui gode, così pensavo di offrirglielo. In esclusiva, neanche a dirlo".
Mentre inanellava quelle frasi probabilmente preconfezionate, ascoltavo quasi distrattamente le sue parole, pensando ad altro: Quanti anni potrà avere? All’incirca come mio marito… Ma no, no, non può avere passato i quarantacinque, ne avrà sicuramente meno. In ogni caso, qualsiasi età abbia, come si presenta bene, mannaggia!
In giacca e cravatta, alto, magro e dall’aspetto distinto. Dovevo ammetterlo: l’individuo davanti a me, con il suo sorriso rassicurante, con la sua parlantina disinvolta, aveva davvero un bel modo di porsi. Anche fascino da vendere… oltre alle calzature.
Il signor Rossetti, intanto, si apprestava a concludere l’illustrazione della sua offerta: Posso porre sul piatto delle condizioni economiche che la strabilieranno, senza per questo chiederle un investimento molto impegnativo. In questo modo potrà considerare con serenità e senza eccessive preoccupazioni finanziarie l’eventuale introduzione dei nostri prodotti in negozio. Un ingresso ‘soft’ insomma, in punta di piedi… anzi, è proprio il caso di dirlo, in punta di Fashion Shoes!
Non sono abituata a dire subito di sì, né in ambito commerciale né in altri contesti. Non ce l’ho proprio nelle corde, neanche quando persone o affari mi interessano in modo particolare. In quel preciso momento non avrei saputo dire se quel tipo mi interessasse in qualche modo, per quanto ero disabituata a simili ragionamenti. Di getto avrei detto di no, ma andando avanti un leggero dubbio cominciò subdolamente ad affiorarmi nel cervello. Non sapevo o non volevo chiedermi se riguardasse la persona o l’affare.
Il sospetto che stesse per scatenarmisi un conflitto interiore mi fu confermato dai pensieri che si susseguirono subito dopo le considerazioni iniziali: Ma certo, tonta che non sei altro, è un rappresentante, vuoi che non si presenti bene? Vuoi che non sappia parlare? Vuoi che non ti aduli un po’? E’ il suo lavoro, bella addormentata nel bosco, svegliati! Magari è pure sposatissimo, che ne sai? Oddio! E questo che c’entra, adesso?
Che avesse cominciato ad intrigarmi era ormai fuori di dubbio, ma perché? Sperai in una semplice, spontanea, generica curiosità, da sempre fra le mie peculiarità più spiccate. Scelsi comunque di fargli sudare il mio assenso, al momento ancora altamente improbabile, per cui risposi, abbastanza acidina: Senta, signor …?
. Ricordavo bene come si chiamava, me l’aveva detto cinque minuti prima. Era mia intenzione dimostrargli scarsa attenzione e di conseguenza poco interesse.
Rossetti
ripeté prontamente ma può chiamarmi Paolo
.
Senta signor Rossetti…
Dissi volutamente ‘signor Rossetti’ e non ‘signor Paolo’ o addirittura ‘Paolo’ per fargli capire chiaramente che desideravo mantenere le distanze.
"Sono veramente lusingata dal suo interessamento, però sono a posto così. Ho un assortimento che soddisfa pienamente la clientela e che diversi suoi colleghi giudicano, a dir poco, invidiabile. Lei