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Questione di accenti
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E-book262 pagine3 ore

Questione di accenti

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Info su questo ebook

Proserpine lavora al Bureau des objets trouvés della metropolitana di Parigi, le portano oggetti disparati, lei li cataloga e cerca di restituirli. Il suo impiego è peculiare ma l’approccio della ragazza lo è ancora di più perché dietro a ogni ritrovamento si nasconde una perdita, parola che Proserpine conosce fin troppo bene. È proprio grazie alla scoperta di un oggetto particolare che la sua vita fin troppo ordinata e schematica verrà stravolta costringendola a ricomporre il puzzle di un passato perduto, come lo è la memoria che un misterioso giovane tenta disperatamente di ritrovare.
LinguaItaliano
Data di uscita6 dic 2023
ISBN9791222481227
Questione di accenti

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    Anteprima del libro

    Questione di accenti - Bianca Bracardi

    Prefazione

    di Giovanna Botteri

    Il titolo evoca trattati di filologia, raffinate analisi metriche e linguistiche, e può trarre in inganno.

    Perché in realtà Questione di Accenti si adegua allo spirito del lettore senza imporsi.

    Può essere letto come un romanzo noir... Mistero, segreti, ombre del passato, vissute a due voci, distanti e sempre più vicine.

    Potrebbe essere una storia di cronaca... Adulti che si perdono, giovani donne che non riescono a ritrovarsi. Tracce confuse che si fanno, pagina dopo pagina, più nitide, affinché i fili sparsi alla fine possano riannodarsi.

    C’è chi lo leggerà come un puzzle letterario, fatto di tanti pezzi accatastati come gli oggetti dell’ufficio dove lavora la nostra giovane eroina, che man mano si incastrano fino a delineare un grande disegno completo, intero.

    E sicuramente potrebbe trovare anche qualche lettore in cerca di una guida alternativa di Parigi, alla scoperta delle sue strade, piccoli angoli caratteristici, odori e rumori, quartieri affollati e piazze deserte, secondo un itinerario meno turistico e più intimo, personale.

    Magari mi sto completamente sbagliando, e Questione di Accenti è solo un piccolo Bignami sentimentale di letteratura francese scritto per studenti distratti.

    O forse è tutto questo, poliziesco, sentimentale, parigino, letterario, poetico.

    Perdóno e pèrdono... Perdent e pardon... L’accento che in italiano gioca con parole e significato, in francese diventa calembour.

    1

    Ho sempre amato profondamente le ombre. Sin da quando ero bambina.

    In un’ombra puoi vedere qualsiasi cosa. Ti ci puoi perdere dentro o pensare di essere da tutt’altra parte. Puoi immaginare mondi nuovi e non vedere i piccoli particolari di te stesso.

    Perché un’ombra, alla fine, è solo una macchia proiettata dal sole sul terreno, o su un albero, o su un muro.

    La cosa strana è che mi sono andata a ficcare nell’unico posto al mondo dove le ombre non ci sono e le poche che si riescono a scorgere sono in angolazioni strane e proiettate su piccole mattonelline bianche e blu che riflettono la luce di tanti neon. Quella stessa luce che illumina le banchine da dove treni stridenti emergono dal ventre della terra sferragliando e strepitando.

    In un posto del genere è semplice perdersi e perdere.

    Perdere la cognizione del tempo. Perdere l’orientamento. Perdere gli oggetti.

    Quelle stesse cose che aspettano solo me per essere ritrovate.

    Buffo, no? Con un nome come il mio potevo solo finire metri e metri sottoterra a smistare cose perdute. Da altri.

    Dimenticavo, mi chiamo Proserpine. E scovo le cose perdute.

    Uno

    Odore di disinfettante.

    Luci che mi trapassano le palpebre e un ticchettio infernale che mi penetra in testa come un rullo compressore.

    Rullo compressore?

    Ho questo nome in testa da non so quanto tempo, ma ora che ci penso non ho la più pallida idea di cosa sia.

    Ho percezioni di oggetti che dovrei conoscere. Sono sicuro di questo. Ma non riesco a formare un’immagine nella mia testa.

    So che quello che sto muovendo a fatica è un piede, laggiù in fondo, coperto da un telo bianco.

    Ho aperto gli occhi.

    L’odore di disinfettante è dovunque. Persino le piccole particelle di polvere che riesco a vedere controluce ne sono piene; sento che mi entra anche negli occhi.

    Gli occhi. Quelli bruciano. Tantissimo.

    Faccio terribilmente fatica a stare sveglio.

    Ho azzardato a muovere un braccio alcuni momenti fa, ma per quello che ne so potrebbero persino essere passati giorni dall’ultima volta che ci ho provato.

    L’unica cosa di cui ho memoria è che l’ho visto attaccato a un tubicino trasparente collegato a un buffo aggeggio appeso sopra di me. Una volta sapevo il nome anche di quello.

    Ma è sparito tutto.

    Come la diavoleria che mi tiene attaccato all’unico ente esterno di cui ho percezione.

    Ricordo?

    Credo che qualcuno mi abbia rivolto alcune domande ma non saprei dire quando o di che tipo fossero. Era qualcosa legato a me, ne sono sicuro, ma dagli occhi che mi scrutavano da sopra le mascherine deduco che le risposte che ho dato non hanno sortito l’effetto sperato.

    Ho l’impressione che il mio cervello sia una poltiglia senza capo né coda.

    Mi sono svegliato parecchie volte da quando sono qui. Ma ogni volta che provo a pensare alle immagini che si sono formate nel mio cervello, quando le mie palpebre erano chiuse, vedo solo bianco. Un bianco lattiginoso senza confini e orizzonti.

    Come il mare in un giorno di nebbia. Anche di quello ho ricordo, una spiaggia interminabile circondata da un pulviscolo senza consistenza, di un metallico grigio. Chiudo gli occhi e lo vedo ma non riesco ad afferrarlo, come la maggioranza degli sprazzi di pensieri che mi vorticano in testa.

    Ho solo sensazioni.

    A volte, ma non saprei quantificarlo - potrebbero essere infinite come una - mi pizzicano terribilmente le dita come se fossero state abituate a tenere qualcosa premuto contro di loro.

    Ovviamente non ho la più pallida idea di cosa rappresenti quel qualcosa né tantomeno cosa questo voglia dire.

    Ho provato a dirlo a Pauline.

    So chi è. So il suo nome semplicemente perché l’ho letto sul cartellino quando si è chinata per alzarmi dai cuscini. Ha un buon profumo di rosa addosso. L’ho sentito da qualche altra parte. Dove non saprei, ma le mie narici l’hanno riconosciuto. Sensazioni, percepisco solo questo. Non riesco a collocare nulla, sono come una nuvola sospesa nel cielo, talmente spumosa da essere quasi inconsistente.

    Pauline, già. Lei sì che mi trattiene a terra. È un’infermiera e, come tutti i paramedici, la sua replica è stata vaga. «Non si preoccupi. Il dottore arriva subito. Stiamo facendo degli accertamenti.»

    Ho voglia di dirle che dovrebbero accertare il perché di questo persistente fastidio al dito medio della mano destra proprio sotto il polpastrello, ma dubito che mi ascolterebbe. Un dolore come tanti di cui i medici ne hanno fin sopra i capelli. Alla fine una persona ne diventa assuefatta. Un po’ come un tic. Ma anche tutte le ripetizioni di questo mondo non basterebbero.

    Preso singolarmente nessun tic e nessun dolore basta per capire le domande che affliggono gli uomini dai tempi dei tempi: chi sono? E da dove vengo?

    2

    L’ufficio che mi era stato destinato era grande non più di tre metri per tre, che diventavano facilmente un metro per uno nel momento in cui una persona di media stazza era costretta a dover muovercisi dentro, sovrastata dalle scartoffie di diversi colori che lo riempivano. Si era creato una sorta di strano habitat al suo interno ed ero solita pensare che, nascoste tra quelle pile di fogli di carta, si potessero venire a nascondere intere famigliole di lepisma saccharina, meglio conosciuto come pesciolino d’argento: un tenero insetto di non più di un centimetro di lunghezza che risulta essere ghiotto di tutto quello che la carta, di qualunque tipo, può mettergli a disposizione. Mi ero spesso fermata a pensare che bella vita facesse questo piccolo animaletto, perso nel suo mondo costituito dal più semplice tran tran: cercare cellulosa, sminuzzarla, mangiarla e così via fino alla fine dei suoi giorni. Non male vivere senza pensieri che non fossero il mero sostentamento.

    Se la stanzetta che doveva essere il mio ufficio era illuminata da una piccola lampadina che pendeva dal soffitto tramite un filo di età non classificabile e che andava a proiettare un fascio di luce sulle pareti scrostate verde pistacchio - utile sì e no per guardarsi la punta delle mani quando erano ad almeno due centimetri dal viso - lo stesso non poteva dirsi dello stanzone antistante il buco dove lavoravo.

    Un immenso bunker circondato da scaffalature a più ripiani con un’illuminazione degna del suo nome era stato allestito dalla RATP, la Régie autonome des transports parisiens, per colloca re, sistemare, catalogare, smistare, listare, rubricare, schedare, ordinare, inventariare tutti gli oggetti che venivano smarriti quotidianamente sui mezzi del servizio pubblico della città di Parigi.

    Il numero non era quantificabile.

    O almeno questo era quello che mi era stato comunicato appena avevo messo piede lì dentro tre anni prima.

    Serviva qualcuno che si occupasse di contare, mi avevano riferito.

    E io, fresca della mia laurea in matematica e strenuamente convinta della fiducia che solo i numeri potevano darmi, avevo pensato bene che potesse essere un impiego interessante. Dopotutto non potevo minimamente immaginare cosa la gente riuscisse a dimenticare durante un breve viaggio. Prima del mio incarico mi ero ritrovata a perdere solo un paio di occhiali - mi erano costati un occhio della testa a pensarci bene - ma mi ero scusata dicendomi che, viste le dimensioni degli stessi e la fretta, poteva succedere. Ora mi rendevo conto che ero una novellina in quel campo.

    Biciclette, valigie, una libreria IKEA non montata, segnali stradali, una pianola elettrica; avevo scovato perfino un’antica spada samurai che avevo scoperto chiamarsi katana e la cui procedura di pulizia variava dalle due alle cinque ore.

    La mia conoscenza si allargava a vista d’occhio.

    Ancora dovevo capire come le persone potessero essere capaci di dimenticare oggetti che fossero più grandi di una mano. Perché fino a che si parla di cose piccole potevo ben credere alla disattenzione, ma dimenticarsi di una cosa grande come una bicicletta era praticamente impossibile per una mente matematica come la mia. Ma se l’aritmetica, la geometria e l’algebra mi avevano insegnato qualcosa…beh, quella era che nell’universo non sempre un oggetto cadrà dove vuoi tu, ci sono troppe incognite da dover controllare.

    Il mio lavoro consisteva nel fare avanti e indietro in quel percorso da marines tentando di non rompermi l’osso del collo tra un’andata e un ritorno e catalogare tutte le suppellettili che, con cadenza regolare, mi venivano consegnate da solerti autisti e svogliati pendolari nelle lunghe giornate che trascorrevo nei meandri della terra.

    «È inutile che cerchi di capire chi sia il proprietario, ormai quell’oggetto non ha più un proprietario.»

    La voce di Émile, un canuto vecchietto con la pelle raggrinzita che oramai era diventato un tutt’uno con l’arredo dell’ufficio oggetti smarriti, seguitava a rimbombarmi nella testa a ogni pezzo catalogato. Ma io, nonostante la realtà dei fatti, non volevo cedere: ero sicura che, prima o poi, il proprietario dell’oggetto sarebbe ritornato a reclamarlo e che quindi la storia avrebbe avuto il suo bel lieto fine. Émile, dal canto suo, mi guardava, scuoteva la testa, timbrava con foga la scheda della nostra nuova acquisizione, spariva nei meandri del caveau delle cose perdute e a fine giornata si dimenticava di tutti gli oggetti che gli erano passati fra le mani durante le ore lavorative.

    Non lo capivo, ma mi consolavo con l’idea, non trascurabile, che in quell’ultimo scampolo della sua vita lavorativa forse l’abitudine aveva vinto sulla curiosità.

    Io, invece, perseveravo nel pensarci. Anche dopo ore, giorni, mesi. Quando riemergevo dall’oltretomba per sentirmi solleticare la pelle dal sole settembrino di Parigi o farmi bagnare fino alle ossa da un temporale non previsto. È buffo, ma quando sei sottoterra è difficile riuscire a regolarsi al ritmo delle stagioni. Passi ore e ore senza vedere la luce del giorno, nel tuo stadio di calma apparente e di tempo immoto tanto che, alla fine, non sai nemmeno se, quando esci all’aria aperta, l’unica persona viva al mondo sei tu o chi ti circonda.

    Forse era per questo che Émile era in quel modo. Non appena ne avevo avuto la certezza, dopo che per l’ennesima volta mi aveva bofonchiato parole senza senso in merito al piantarla di cercare indizi all’interno di uno zainetto indie che una signora delle pulizie mi aveva gentilmente recapitato in ufficio, avevo giurato a me stessa che mai e poi mai sarei diventata come lui. Se lui voleva vivere nella consolante sicurezza che tutti quegli oggetti non sarebbero mai più appartenuti a nessuno… io, dal canto mio, non mi sarei mai arresa all’evidenza: ogni cadeau che mi veniva recapitato doveva essere appartenuto a qualcuno e io avrei speso tutte le ore del mio tempo per cercare di riunire la borsa alla mano della persona che l’aveva impugnata o il buffo maglioncino blu di lana (completo di orsacchiotti marroni) al bimbo che lo aveva indossato.

    Era più forte di me. Non potevo farne a meno.

    Non ero mai stata una bambina con tendenze compulsive. Non avevo mai accumulato oggetti tanto per averli. Ma d’altro canto ero perfettamente conscia che tutti i giocattoli che mi circondavano nella mia cameretta avessero un proprietario. Me. E questa realtà, come la fatina dei denti, Babbo Natale e gli elfi irlandesi era, agli occhi di me cinquenne, una certezza difficilmente contestabile.

    Quando ero poco più di una bimbetta avevo perso il mio portafortuna preferito, un piccolo braccialetto su cui era incisa una frase in latino: quaerit, invenit, cerca, trova.

    Me l’aveva regalato mio nonno, un omone alto e segaligno che sin dalla gioventù si era dilettato con le incisioni su metallo.

    Rivivevo quando, novello Efesto, aveva percorso lentamente le scale che portavano alla mia camera da letto e, con l’inconfondibile odore di fumo che lo seguiva dovunque e le manone che si erano colorate di quella che lui chiamava l’ombra del metallo, mi aveva consegnato quel nuovo ninnolo da indossare

    «Cara Proserpine», aveva esordito, «tu porti il nome di una dea che fu costretta da Zeus a restare sepolta nel sottosuolo per la metà di un anno solare. L’autunno e l’inverno costretta negli Inferi e la primavera e l’estate sulla Terra. Sottosopra. Ma con questo al braccio saprai sempre come trovare la strada di casa. Cerca, trova, piccola mia.» Mi aveva sorriso e con un gesto rapido mi aveva legato al braccio destro un piccolo braccialetto di metallo a maglie fini con una targhetta su cui era inciso il motto: Cerca. Trova. E non sarai più sola.

    Lì per lì lo avevo stretto al petto come il gingillo più prezioso dell’universo, totalmente inconscia della possibilità che, nel tempo, lo avrei potuto smarrire.

    Ma si sa, i bambini giocano. E io ero sempre stata assennata sì, ma anche palesemente pestifera. Non avevo mai tolto il braccialetto. Me lo rimiravo ogni giorno e quelle due piccole parole mi ronzavano in testa con lo stesso battito d’ali di un’ape nelle vicinanze di un fiore.

    In un bel mattino terso, però, quando ero troppo occupata a pensare alle vacanze e alle bianche spiagge della Costa Azzurra, il braccialetto era scomparso.

    Avevo cercato ovunque e inquietato mia mamma quando, neanche minimamente turbata della possibilità che un essere umano possa stare senza aria sott’acqua solo per pochissimo tempo, me ne ero tornata a riva quasi cianotica e in preda a una crisi di pianto da manuale.

    Mia mamma, dal canto suo, non si era fatta prendere dall’ansia. Ultima nata in uno stabile in cui i figli dei proprietari erano soliti giocare insieme da mattina a sera, era stata costretta a subire sin da bambina altre sparizioni e questa in particolare era niente in confronto alle chiusure a doppia mandata in vecchi armadi la cui serratura, nonostante l’età, era decisamente più affidabile del legno tarlato che li componeva. Mi aveva cullato, fino a quando i miei singhiozzi non si erano calmati, sussurrandomi che tutto ciò che mi apparteneva avrebbe trovato la strada per ritrovarmi, se solo avessi avuto la perseveranza di cercare.

    Mi ero impegnata per tutto il giorno, ma nonostante guardassi con ostinazione il braccio abbronzato dove, solo fino alla notte prima, faceva bella mostra di sé il mio portafortuna, questo non era magicamente ricomparso. Avevo pregato intensamente di ritrovarlo ma senza successo. Quando il sole ormai era calato sulla spiaggia avevo perso le speranze.

    «Perché sei triste, piccolina?»

    Nella spiaggia vuota la voce greve mi era arrivata stranamente squillante.

    Mi ero voltata quel tanto che bastava per vedere al mio fianco una signora anziana.

    Era piccola, alta quanto me tanto stava piegata su sé stessa e aveva la pelle del viso stropicciata - sì, avevo pensato proprio quell’aggettivo, stropicciata. A quell’età quel volto mi sembrava molto simile alla carta di alluminio già adoperata che ci facevano utilizzare all’asilo per costruire gli angioletti di Natale (mi chiedevo sempre come mai le loro estremità dovevano essere di quel metallo brillante se poi le ali di una farfalla erano di un peso inconsistente).

    «Ho perso il mio portafortuna signora. E non so come fare», avevo reagito di rimando.

    In quel frangente non avevo certo considerato che non dovevo parlare con gli sconosciuti ma quella vecchietta, o meglio, i suoi occhi incredibilmente verdi, mi dicevano che non c’era nulla da temere.

    «Povera piccola. Ma nulla è perduto. Mai per sempre. Credici.»

    L’aveva espresso con una tale solennità che mi ero ritrovata ad annuire mio malgrado, come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo.

    «Ti insegno una cosa…» si era fermata impercettibilmente.

    «…Proserpine, è così che mi chiamo» avevo finito la frase come un automa, stupita di non averle ancora rivelato il mio nome. Di solito ero più educata. Avevo guardato di sottecchi mia madre che, pochi metri più in là, ci osservava godendosi la scena.

    «Sì, beh ecco Proserpine, ti insegno una cosa. Quando avevo all’incirca la tua età e gli uomini sapevano ancora sognare, un giovane uomo si era imbarcato nella più bella delle avventure: scrivere un libro. Ne avevano parlato tutti così bene che mia madre aveva deciso di regalarmelo. Sono sempre stata un’amante delle parole…»; si era girata verso il mare come se un bagliore avesse attirato la sua attenzione ma era stata questione di un attimo, come lo scintillio di una lucciola in una notte d’estate, e poi aveva ripreso a parlarmi «…scusami, sto divagando. Beh, in quel libro c’era una frase che ho sempre tenuto a mente.»

    Improvvisamente ero diventata curiosa. Volevo sapere.

    «Cosa signora? Che c’era scritto?» mi ero sporta verso di lei tanto da riuscire a sentire il suo profumo, un misto di lavanda, rosa e gelsomino, come se tutta la Provenza

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