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Le Rovine di Babele
Le Rovine di Babele
Le Rovine di Babele
E-book434 pagine6 ore

Le Rovine di Babele

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Info su questo ebook

Nell'estate del 1980 un'autobomba con le insegne del consolato iracheno si dirige verso l’ostello della gioventù di Wedding, a Berlino vest. L’ostello ospita il congresso dell’AKSA, l’associazione degli studenti curdi in esilio, ma l’attentato fallisce all’ultimo momento grazie a una soffiata che provoca l’intervento dell’antiterrorismo.
Due giorni più tardi una bomba distrugge la stazione di Bologna e la vita di Stefano cambia per sempre. I suoi genitori, che dovevano andare a prenderlo a Berlino dove stava trascorrendo le vacanze scolastiche presso la zia, sono tra le vittime della strage.
Trent’anni più tardi l’incontro con un uomo misterioso, Hassan, costringerà il quarantaduenne Stefano, che lavora come archivista presso la Staatsbibliothek di Berlino, a fare i conti con il passato.
Il suo destino si intreccerà con quello del giovane curdo Aso. Il ragazzo è sbarcato clandestinamente sulle coste italiane dopo un naufragio drammatico. In tasca ha un numero di telefono e una meta da raggiungere ad ogni costo: la Germania. Prima però dovrà risalire la penisola italiana e l’impresa sarà tutt’altro che facile.

LinguaItaliano
Data di uscita29 mar 2018
ISBN9788869343773
Le Rovine di Babele

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    Anteprima del libro

    Le Rovine di Babele - Edoardo Laudisi

    Edoardo Laudisi

    Le rovine di Babele

    Drammatico

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, Marzo 2018

    Isbn 9788869343773

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti sono riservati.

    Disegno di copertina:Eureka3 S.r.l.

    www.eureka3.it

    Edoardo Laudisi

    Nato a Genova nel 1967 è scrittore e traduttore per il tedesco.

    Laureato in Economia, ha lavorato in diverse aziende nel settore dell’export.

    Nel 2001 pubblica il romanzo Zenone (Prospektiva Letteraria), nel 2015 il romanzo Sniper Alley (Elison Publishing). Appassionato di poesia, nel 2007 produce e dirige il documentario Poesia Final con interviste ai maggiori poeti contemporanei.

    Attualmente vive a Berlino dove collabora a diversi progetti di scrittura on line.

    "Non sapere la verità con certezza

    rende più forte il potere".

    Prologo

    «Onorevole, innanzitutto grazie per aver accettato l’invito, nonostante l’argomento non certo facile per voi.»

    Il presentatore, un uomo sulla sessantina, si sfregò le mani come se si preparasse ad assaggiare un piatto gustoso. Vestiva un completo blu scuro di alta sartoria che indossava con la disinvoltura di chi era abituato a vestire capi costosi. Prima di cedere la parola all’ospite fece un inchino impercettibile, una specie di velocissima riverenza che gli scattava come un riflesso condizionato ogni volta che si trovava davanti a un uomo di potere.

    «Mhhm» l’onorevole si schiarì la gola. Nonostante il vestito dal taglio elegante, l’uomo rimaneva rozzo. Il naso grosso sul quale era disseminata una colonia di punti neri, alcuni dei quali delle dimensioni di una capocchia di spillo, era piazzato al centro di un volto grezzo, volgare. Due ciuffi di capelli grigio topo duri come stoppa – l’uomo li portava con un’incredibile riga nel mezzo che disegnava ogni mattina, convinto che gli desse un look da macho – si aprivano a sipario su una fronte bassa e poco spaziosa. Gli occhi piccoli, dello stesso colore dei capelli, non erano particolarmente vivi né intelligenti, ma sprigionavano un’energia aggressiva che si posava con violenza sulle cose.

    «Ma, vede, noi non abbiamo proprio nessuna difficoltà. Non proviamo imbarazzo come hanno scritto certi giornaletti. Noi siamo sempre stati chiari su questo punto. Il popolo non ama i clandestini. E questo è un fatto. Il popolo del nord non vuole la società multietnica. Non vuole quella roba lì.»

    «Però, insomma Onorevole, le cannonate sui gommoni forse è stata un’espressione un po’ infelice, almeno questo vogliamo dirlo?»

    Il conduttore gongolò e si umettò le labbra. Questo era il genere di argomenti che prediligeva. Sospirò e pensò a quanto fosse fortunato, fortunato e bravo, a fare quel lavoro.

    «Vabbè, ma quelle sono cose che si dicono così, nei comizi. Queste sono polemiche da comare, sono strumentalizzazioni.»

    Il presentatore si avvicinò all’uomo politico. Si sporse in avanti con le mani giunte, come se lo volesse confessare, i suoi occhi brillavano di felicità. Il personaggio politico aveva messo in imbarazzo il Governo con le sue sparate ad effetto e ora il conduttore poteva osare, sentiva che poteva perché era stato investito di questo compito dal Governo stesso che voleva rimettere in riga il ministro ribelle. In quel momento capì che stava assolvendo ad un compito fondamentale, vitale per gli equilibri politici del Paese e pensò che era bellissimo, bellissimo e perfino eccitante, poter premere un po’ sull’acceleratore; non tanto ma sufficiente a fare impennare gli indici d’ascolto che lo avrebbero confermato il re dei giornalisti. The King. Era veramente bellissimo.

    «Onorevole, però alcuni di questi in mare ci lasciano le penne…» disse in tono teatralmente grave, ma che non nascondeva una punta di vitalità, di complicità col pubblico a casa che avrebbe sicuramente apprezzato l’ironia dell’affermazione.

    L’onorevole si voltò verso il conduttore, sorrise in modo beffardo come se la frase gli avesse fatto piacere, poi guardò la telecamera di fronte a lui, quella con la lucina rossa accesa.

    «Muoiono tante persone in viaggio, io sono dispiaciuto solo quando vedo i nostri morti sulle nostre strade. Degli altri me ne frego.»

    - 1 -

    5 giorni all’inferno

    Quando si spezzò il secondo motore era già buio. Avvenne con uno scoppio secco come un colpo di tosse, poi il rumore dell’elica si fece più debole a ogni giro, sempre più debole, infine cessò.

    Aso guardò il volto terrorizzato dei compagni e si stupì di trovarsi calmo. Una cosa del genere l’aveva messa in conto prima di partire perché, nonostante l’età, aveva appena compiuto diciassette anni, nella vita gli erano già capitate molte cose brutte, più di quante capitino mediamente a una persona normale.

    Prima di partire, quando aveva visto l’imbarcazione che doveva portarli dall’altra parte del mare (e chiamarla imbarcazione era fare un torto a tutte le barche del mondo che si erano guadagnate onestamente quel nome), una bagnarola a due motori che non era neanche di legno ma di plastica, avrebbe voluto vomitare.

    «Quindici persone, quattro ore di traversata, se va per le lunghe accendo il secondo motore e siete arrivati» aveva urlato lo scafista.

    Qualcuno protestò facendo notare che erano molto più di quindici, ma lo scafista scrollò le spalle lasciando intendere che era così, prendere o lasciare.

    «Si parte adesso e chi se la fa sotto perde tutto.»

    Faceva la voce grossa perché il suo compagno aveva il kalashnikov e soprattutto perché avevano tutti pagato in anticipo.

    Aso salì sul gommone cercando un posto lontano dai due. Diffidava di chi puzzava d’alcool e stringeva un kalashnikov in mano. Fu sorpreso di vedere i volti dei compagni di viaggio distendersi appena il gommone lasciò la costa. Pensò che fosse troppo presto per rilassarsi, troppo facile. Forse perché era la prima volta che vedeva il mare, anche se gli avevano raccontato che si trattava di un mare piccolo, quasi un lago, oppure erano i due ubriachi al timone a preoccuparlo. Sugli scafisti giravano delle strane storie probabilmente vere, come tutte le storie strane. All’imbarco gli avevano sequestrato il coltello che portava infilato nella scarpa come un plantare e ora si sentiva nudo e indifeso. Invece gli altri sembravano spassarsela. Ridevano, si guardavano intorno allegri come se fossero in gita, parlavano a voce alta tranquilli e sereni come se si trovassero già dall’altra parte.

    Già, l’altra parte. Ma cos’era l’altra parte? Quando tornavano al villaggio quelli che dall’altra parte ci erano stati per davvero, si davano un sacco di arie con le loro incredibili storie di donne, sesso e soldi facili. Gli credevano in molti, soprattutto quelli che non sarebbero mai partiti perché gli mancava il coraggio. Credevano a tutto quello che gli veniva detto, quegli stupidi, e pendevano dalle labbra dei migranti come dei poppanti. Tutti tranne Aso. Per lui era diverso. Diffidava dei chiacchieroni e loro diffidavano di lui. Di solito si riunivano al caffè della piazza. Sedevano al tavolo all’ombra dell’ulivo e si facevano offrire da bere. Col tempo il tavolo era diventato la loro casa e ci avrebbero perfino dormito se il proprietario non avesse provveduto ogni sera a scacciarli via con la sua scopa di legno nodoso. Quando arrivava Aso, abbassavano il tono di voce e si mettevano a bisbigliare come se stessero parlando di chissà quali segreti. Non era sempre stato così, all’inizio nessuno faceva caso a lui, per degli eroi come loro quel ragazzetto sbarbato e secco come un cespuglio del deserto era assolutamente innocuo. Fu solo quando Aso osò interrompere uno dei loro racconti fantastici che iniziarono a guardarlo storto.

    «Se te la spassavi tanto perché stai qui? Dovrebbe farti schifo.»

    L’osservazione era schioccata come una fucilata nell’aria fresca della sera e il gruppo di ascoltatori rannicchiato ai piedi dell’eroe emigrato fu destato da quella domanda come da una sveglia fastidiosa. Stupiti dalla semplicità della contraddizione alla quale non avevano mai pensato, e che adesso non potevano assolutamente ignorare, gli ascoltatori iniziarono a riflettere.

    «Già Samer, perché sei tornato?»

    Era come la caduta degli dei. Samer si guardò intorno, timoroso di aver perso l’ascendente sul gruppo. La domanda esigeva una risposta immediata. Una risposta altrettanto dura, secca, un colpo deciso per ristabilire le gerarchie altrimenti nessuno gli avrebbe più offerto da bere.

    «Almeno io ho avuto le palle per partire. Tu invece Aso cos’hai fatto fino adesso, a parte nasconderti sotto la sottana di tua madre?»

    La risata del gruppo tranquillizzò Samer, anche se capiva che la sua reputazione aveva subito un duro colpo. Decise allora di rincarare la dose.

    «Invece di stare qui a criticare, che non sappiamo cosa farcene delle critiche di un moccioso noi, perché non ci fai vedere quanto sei coraggioso? Parti Aso, in fondo lo hai appena detto che qui ti fa schifo. Voglio proprio vedere se ne sei capace.»

    «Ma cosa vuoi che faccia quello. Lascialo perdere e continua a raccontare» disse qualcuno del gruppo.

    Era per aver voluto rispondere a quella provocazione che adesso si trovava su una bagnarola strapiena in mezzo al Mediterraneo. Gli sarebbe bastato scrollare le spalle e andarsene, invece l’aveva sfidato, gli aveva promesso non solo che sarebbe partito, ma che avrebbe fatto meglio di lui. A quel punto Samer, forte della presenza degli altri, lo invitò a presentarsi al bar la mattina seguente con tremila dollari e un ricambio di vestiti. Ci avrebbe pensato lui a metterlo in contatto con le persone giuste. Il gruppo accolse la proposta con un urlo d’entusiasmo e a quel punto il destino di Aso cambiò per sempre.

    Il gommone si bloccò con uno strappo improvviso, seguito da uno scoppio rauco del motore. Fino a quel momento la traversata era stata tranquilla, anche se nessuno aveva un’idea precisa di quanto sarebbe durata, così quando la barca si piantò in mezzo al mare piatto e denso come gelatina, molti pensarono di essere arrivati. Lo stupore fu grande quando si accorsero di fluttuare in mezzo al nulla. Il colore grigio del mare si mescolava con quello altrettanto scuro del cielo formando una cappa, una specie di velo sporco dalla forma convessa che aveva sostituito i confini del mondo. Il mondo scomparso nel nulla grigio fece rabbrividire Aso che maledì Samer e se stesso per aver accettato d’imbarcarsi in una zattera di gomma. I passeggeri si strinsero gli uni agli altri come se avessero paura che quel mare cinereo potesse inghiottirli nei suoi fili lanosi. Il brusio delle loro voci che recitavano preghiere nervose copriva il suono stanco e molliccio delle onde che battevano contro lo scafo. Lo scafista tolse la sicura al kalashnikov.

    «Non è niente – disse in un inglese rozzo – adesso ripartiamo.»

    Il secondo uomo si piegò sul motore, aprì il portello di metallo e diede un’occhiata agli ingranaggi, ma quando vide salire il fumo spesso e nero scosse la testa. Quello col mitra gli assestò una gomitata con il braccio che reggeva l’arma mormorandogli qualcosa in una lingua incomprensibile. L’altro si alzò e rispose. Parlava veloce gesticolando in modo frenetico. Aso non capiva quello che si dicevano, ma la situazione era fin troppo chiara. L’uomo con il mitra si avvicinò al motore, tirò un paio di volte la leva di avviamento senza risultato, imprecò, sputò e diede un calcio alla fiancata della barca. Il suo volto era rosso di rabbia. L’altro lo spinse via, si chinò sul fuoribordo e iniziò ad armeggiarci dentro con delle grosse pinze sporche d’olio.

    «Cosa succede?» domandò un passeggero avvicinandosi ai due. Lo scafista lo colpì col manico del mitra facendolo indietreggiare verso il fondo del gommone dove si erano ammassati gli altri e si piantò al centro della barca davanti alla torretta del timone, le gambe divaricate, il mitra puntato contro gli uomini.

    «Il primo che fa il furbo lo stendo. Adesso ripartiamo ho detto.»

    L’uomo posò il dito sul grilletto del kalashnikov e puntò alle pance.

    «Tu» disse indicando Aso con la canna del mitra. Aso non osò muoversi. «Sei sordo? Vieni avanti e contali.»

    Aso uscì dal gruppo. Ora era a un passo dall’uomo col mitra. Alle sue spalle sentiva le imprecazioni del secondo scafista impegnato in un corpo a corpo con gli ingranaggi del motore.

    «Non sai contare? Sbrigati, coglione.»

    Erano 33. Tutti uomini, nessun bambino.

    «Bene. Torna nel gruppo.»

    Per un motivo oscuro la conta sembrava aver tranquillizzato l’uomo, o forse era Aso che si era tranquillizzato quando aveva visto il dito scivolare via dal grilletto.

    «Ascoltate. Adesso rimettiamo a posto il motore e in un’ora vi sbarchiamo. State calmi e andrà tutto bene. Provate a fare i furbi e vi butto tutti quanti a mare. Capito?»

    Aso andò a sedersi sul bordo del gommone. La prua oscillava appena seguendo il movimento lento e regolare delle onde che scivolavano sotto la chiglia con fruscii appena percettibili. Per quanto prima di partire si fosse sforzato di immaginare il mare aperto, doveva ammettere che quello che vedeva non aveva niente a che fare con le sue fantasie. Adesso che il sole era tramontato la distesa interminabile di acqua grigia aveva perso ogni contatto con la realtà. Era diventato un buco liquido, un’enorme botola di buio che si muoveva strusciando e gemendo. Un respiro profondo, lento, ossessivo. Un pensiero onnipotente che dominava su tutto e di tutto decideva il destino.

    «Secondo te ci sono i pescecani?»

    Il ragazzo gli si era seduto vicino senza fare rumore. Aso guardò nel buio e riuscì a riconoscere un volto di quindici, forse sedici anni. Due grandi occhi neri, umidi, pieni come tuorli d’uovo lo fissarono in cerca di conforto.

    «Naa» fece sforzandosi di nascondere l’inquietudine che gli aveva provocato quella domanda. Chissà quali mostri orribili si nascondevano sotto quelle acque di petrolio. Cercò di non pensarci.

    «Io sono Sherivan. Non sai come sono contento di potere parlare la mia lingua. Allora niente pescecani, eh?»

    Sherivan abbozzò un sorriso fiducioso e ad Aso venne in mente il sorriso di suo fratello minore Hajair, quando andava a rifugiarsi nel suo letto perché aveva paura del buio. Col buio iniziavano le esplosioni e Hajair era convinto che fosse il rimbombo dei passi del gigante che stava distruggendo il mondo. Un gigante orribile, grande come una montagna e più forte di tutti gli eserciti del mondo. Il gigante si nutriva di carne umana e aveva sempre fame. Più ne mangiava e più ne voleva, senza sosta, senza pause. Aveva uno stomaco grande come il più grande dei mari del mondo, per questo non era mai sazio. Allora Aso gli raccontava che il gigante non poteva più fare nulla perché l’avevano incatenato come Zohak ad una roccia enorme e le catene erano così forti, così resistenti che ci sarebbero voluti almeno cento giganti che volevano distruggere il mondo per spezzarle. Quelle parole erano diventate una specie di rito, una cura che funzionava benissimo. Alla fine Hajair si rilassava, sorrideva e tornava nel suo letto rassicurato.

    «Non ci sono pescecani qui, te lo prometto.»

    Le parole gli erano uscite da sole e avevano fatto bene anche a lui. Sherivan sorrise ancora e si avvicinò quasi a cercare protezione.

    «Ma tu non sei il giovane Aso, il figlio di Reema di Kirkuk?» disse una voce che tradiva una certa eccitazione.

    «Sì, sono io» rispose Aso all’ombra che si era avvicinata a lui e Sherivan.

    «È incredibile, non sai che gioia… sebbene in questa situazione. Io sono Shoukut e ti ho tenuto in braccio quando avevi due anni.»

    Aso cercò di ricordare, ma il volto non gli diceva niente.

    «Sono il cugino di Reema… certo, lei è un po’ più anziana, ma eravamo molto legati. Da quando ho lasciato Kirkuk non è passato mese che non ci siamo scritti e lei mi parlava sempre di te. Sei diventato un uomo forte da quanto vedo.»

    Aso conosceva bene i racconti sul cugino partito per la guerra contro Saddam. Per lui Shoukut era un mito. Un esempio di eroismo e di coraggio. Shoukut combatteva contro il gigante che voleva distruggere il mondo, esclamava, ma quando sua madre lo sentiva parlare in quel modo si arrabbiava di brutto. Piuttosto ti aiuterò a lasciare questo paese sfortunato, diceva e c’era da credergli, farò dei sacrifici, troverò i soldi per il viaggio, ma in guerra tu non ci vai fino a quando sono viva io almeno.

    «Shoukut!» Aso lo abbracciò, ma invece di ricambiare il sorriso il volto di Shoukut diventò serio come quello di un guerriero che parlava ai suoi uomini prima di un attacco.

    «Aso, ascoltami bene. Siamo in un brutto guaio. Ne parlo con te perché ormai sei un uomo, ma agli altri per ora è meglio non dire nulla. Sono ancora dei ragazzini, la maggior parte di loro non ha neanche quindici anni, dunque per il momento saremo noi due a dividere queste informazioni.»

    Shoukut fece un respiro profondo e avvicinò il suo volto a quello di Aso.

    «Ecco la situazione: quegli imbecilli hanno fatto un gran casino e dubito che abbiano la minima idea di come venirne fuori» disse lanciando un’occhiata ai due scafisti. «Poco dopo la partenza ho visto che avevano messo in acqua il secondo motore. Solo che invece di farli andare normali li hanno spinti al massimo. Questo lo so perché non li ho persi di vista un attimo. Dopo dieci minuti ho notato una luce rossa, una spia sul motore destro che lampeggiava. All’inizio non mi sono preoccupato troppo, ho pensato si trattasse della spia del serbatoio di carburante, ma visto che alla partenza avevano caricato delle taniche di gasolio non mi sono allarmato. Poi si è accesa anche la spia del secondo motore e poco dopo è uscito il fumo. Quando si sono bloccati di colpo ho capito che avevano fuso. Ma non è tutto...» Shoukut mostrò ad Aso la mano bagnata. «Deve essere successo qualcosa alla batteria. Forse si è fusa, o si è rotta, sta di fatto che ha iniziato a perdere liquido e il liquido della batteria è un acido. In qualche modo è arrivato fino al fondo e l’ha bucato. In altre parole stiamo imbarcando acqua. Dunque la situazione è questa: ci troviamo in mezzo al Mediterraneo senza motori, senza viveri e stiamo imbarcando acqua. Kawa a confronto stava in una botte di ferro. Shoukut si alzò e guardò dentro al buio come se potesse penetrarlo con i suoi occhi neri. «E si sta alzando il vento.»

    «Gran figlio di puttana.»

    «Taci pezzente e rimetti a posto ‘sti cazzo di motori. Sei tu l’esperto, no?»

    L’uomo si sollevò dal motore brandendo la chiave inglese come una mazza. Il volto paonazzo era percorso da rigagnoli di sudore che colavano lungo il collo e sparivano dentro il colletto della camicia sudicia.

    «Coglione, come te lo devo dire che questi non ripartono più! Sono rotti, finiti, kaputt. Non c’è un cazzo da fare. Li hai fusi brutto rotto in culo di merda.»

    L’uomo si voltò e puntò il mitra contro il compagno.

    «Che cosa vuoi fare adesso? Che cazzo vuoi fare, eh? Mi vuoi sparare? Mi vuoi buttare a mare? Avanti testa di cazzo, cosa aspetti. Spara, spara, dai, forza, dai coglione spara e in un attimo quel branco di pezzenti laggiù capiranno in che razza di casino li hai cacciati e allora sai cosa faranno? Puoi immaginarlo, brutta testa di cazzo? Ti fanno a pezzi quelli.»

    «Sono un branco di mocciosi e io ho il mitra.»

    «Oh già, certo. Tu hai il mitra. Eccome no. E dimmi, coglione, il tuo mitra forse sa far muovere questa bagnarola? No, perché se è così, allora non capisco perché stiamo a perdere tempo a parlare. Coraggio, usa il tuo bel mitra russo e portaci via di qui, avanti. O forse hai intenzione di usarlo come remo fino in Italia! Ma certo, che stupido che sono, perché non ci avevo pensato prima… ma vaffanculo, sei inutile.»

    L’uomo gettò le chiavi inglesi e afferrò la bottiglia di liquore.

    «Non è il momento di bere» disse quello con il mitra, guardando nervosamente il carico umano.

    «Rilassati merda, quelli mica sono scemi come te. Hanno già capito tutto. L’unica cosa da fare è sperare che ci trovino in fretta. Ma molto in fretta.»

    «Te le fai sotto, eh? Io non ho paura di quelle schifezze. Anzi, sai cosa ti dico, sai cosa faccio? Adesso tiro una bella mitragliata in mezzo al mucchio. Una bella sventagliata di kalashnikov così vediamo se gli viene voglia di fare i furbi a ‘sti merdosi.»

    «Ma lascia perdere, idiota. Non è di loro che ti devi preoccupare, ma di questo.»

    In quell’istante una sferzata di vento investì il gommone come un pugno invisibile facendolo inclinare di lato. Al vento seguì un’ondata che scavalcò i bordi bassi della barca facendo cadere tutti per terra. Le urla non erano ancora cessate che una seconda ondata li travolse con più forza della prima.

    «Rimanete giù, rimanete giù, sono onde isolate, calma» urlò Shoukut e, come se il mare lo avesse ascoltato, le onde cessarono e tornò la calma.

    «Ascoltate, capite tutti la mia lingua?» Shoukut parlava con voce incredibilmente calma come se in lui non ci fosse la benché minima traccia di paura. I ragazzi risposero di sì. «Ecco cosa facciamo. Ora vi passo una corda. Voi dovete legarvi stretti alla corda, capito? Vi legate come un pacco, ognuno di voi deve essere legato. Controllate che il vostro vicino sia legato bene. Ognuno controlli che il proprio vicino sia legato stretto. Mi avete capito?»

    «Non vedo più Amange, non vedo più il mio amico Amange.»

    La voce disperata di un ragazzo rimbombò nel buio nella notte.

    «Bachtiar, dov’è Bachtiar?» urlò un’altra voce.

    «Guardate bene fuoribordo, forse sono ancora aggrappati.»

    Aso si sporse fuori, ma il buio era un muro nero, una porta liquida che si chiudeva su ogni cosa restituendo soltanto il fruscio ossessivo delle onde.

    «Fermi, non sporgetevi» urlò Shoukut. Poi, dopo aver tirato indietro Aso, aggiunse in un tono duro che non ammetteva repliche: «Controllate bene: siete tutti legati?»

    I ragazzi risposero di sì sottovoce. Alcuni lanciavano occhiate terrorizzate nel buio del mare sperando di vedere il compagno risalire su per la fiancata, ma non accadde nulla.

    Shoukut legò la corda intorno a un gancio che spuntava dal pianale di legno al centro del gommone. I suoi movimenti erano rapidi, precisi e sicuri come se eseguisse un esercizio ripetuto molte volte in passato. Aso lo guardava con ammirazione immaginando lo zio mentre guidava un assalto notturno alla postazione della guardia repubblicana. Il volto contratto, le mascelle chiuse che non lasciavano filtrare nessuna emozione, nessuna paura, lo sguardo fisso verso l’obbiettivo. Nella sua immaginazione Shoukut era sempre stato così. Un guerriero.

    «Come facevi a sapere che le onde sarebbero cessate?» domandò Aso.

    Shoukut gli posò una mano sulla spalla e sorrise e, in fondo a quel sorriso, Aso intuì un dolore trattenuto, una voragine e una disperazione contro la quale gli occhi dello zio lottavano da una vita. Una lotta selvaggia iniziata chissà quando e che forse non sarebbe finita mai.

    Le onde ripresero a battere lentamente sullo scafo facendolo dondolare dolcemente e, se non fosse stato per la terribile situazione nella quale erano precipitati, Aso avrebbe perfino trovato piacevole farsi cullare da quel movimento regolare come il respiro di un gigantesco essere addormentato sulla schiena. D’un tratto però la sua mente fu turbata dal pensiero angosciante che quell’essere fatto d’acqua scura potesse svegliarsi e scrollarsi di dosso il piccolo insetto che gli stava sulla pancia. Osservò Sherivan che sembrava immune ai pensieri negativi e dormiva con la nuca appoggiata sul bordo di gomma. Con gli occhi chiusi e le labbra semiaperte Sherivan non mostrava più di tredici anni. Lo invidiò per quello che era capace di fare, dormire sulla pancia del mostro non era impresa facile. Forse Sherivan non era consapevole del pericolo, forse fino a quel momento la vita era stata clemente con lui e l’aveva risparmiato consentendogli quel lampo d’incoscienza che gli permetteva di dormire in una notte come quella. O forse, più semplicemente, era crollato dalla stanchezza.

    Un corpo gli scivolò accanto distraendolo dai suoi pensieri. Era Shoukut che tornava dopo aver controllato che fossero tutti legati.

    «Ne abbiamo persi tre» disse in tono brusco e Aso pensò che quello doveva essere il modo con il quale comunicava le perdite dopo un’incursione in territorio nemico. Non c’era spazio per il dolore in quelle parole, non c’erano emozioni né sensazioni. Soltanto il dato freddo, tre morti, che faceva presagire altre perdite, altri corpi in fondo al mare.

    «Ce la faremo?» domandò Aso e subito si pentì di quella domanda stupida, ma quando Shoukut gli mise il braccio intorno alle spalle e strinse forte come per dirgli che lui c’era, che non l’avrebbe lasciato per nulla al mondo, che poteva contare su di lui, dovette sforzarsi per non piangere.

    «Inshallah» disse Shoukut.

    Quando Sherivan si svegliò il sole era alto sopra l’orizzonte. Ma quello che lo terrorizzò non fu tanto il ricordo della perdita dei compagni, quanto il fatto che l’acqua era salita di almeno venti centimetri. Si alzò di scatto e vide che gli altri erano tutti in piedi.

    «Stiamo sprofondando, stiamo sprofondando dentro il mare» urlò Sherivan con lo sguardo stravolto dalla paura.

    Il mare era mosso e il gommone vacillava in modo impressionante. Ogni tanto un’onda entrava e aggiungeva acqua grigiastra a quella penetrata da sotto.

    «Dannazione ma quei miserabili…» Shoukut si mosse verso poppa in direzione degli scafisti che stavano seduti sul bordo del gommone.

    «Abbiamo bisogno di secchi, secchi per svuotare la barca» urlò in inglese e mimò il movimento di uno che immerge un secchio nell’acqua e lo svuota fuoribordo.

    «Che cazzo vuole la scimmia?» l’uomo con il mitra si alzò minaccioso.

    «Secchi» ripeté Shoukut.

    «Fermo dove sei. Non un passo o ti stendo, hai capito?» urlò l’uomo posando il dito sul grilletto.

    «Vuole un secchio» disse l’altro in tono apatico.

    «Eh? E che cazzo ci fa con un secchio?»

    «Forse si sono messi in testa di svuotare il mare, che cazzo ne so cosa vuole farci. Chiede un secchio.»

    «Sei ubriaco da fare schifo. Quante cazzo di bottiglie ti sei scolato stanotte, coglione? Tutta la scorta scommetto.»

    «E a te che te ne frega. Pensa a dargli il secchio, così l’orango si calma.»

    «Che se lo metta in culo… niente secchi!» urlò l’uomo a Shoukut. «Niente secchi, hai capito? No secchi e adesso tornatene dai tuoi e non rompere. Sciò, via, torna nella stalla.»

    L’uomo agitò il mitra in aria come se volesse spingere un gregge dentro l’ovile. Quel gesto fece infuriare Aso che scattò in avanti prima che Shoukut potesse fare qualcosa.

    «Non siamo animali bastardo!» urlò, ma quando tastò la scarpa per sfilare il coltello si ricordò che glielo avevano sequestrato al momento dell’imbarco.

    L’uomo con il mitra prese la mira con calma.

    «No, nooo!»

    Con una spallata Shoukut gettò a terra Aso e si pose davanti al gruppo con le mani alzate.

    «Non sparare, vogliamo soltanto un secchio per svuotare la barca» disse con voce umile e sottomessa. Una voce che alle orecchie di Aso suonò vile come quella di un servo impaurito.

    «Dagli ‘sto cazzo di secchio, così la piantano.»

    L’uomo con la bottiglia lanciò un secchio di metallo arrugginito in direzione del gruppo rannicchiato a prua. Shoukut lo afferrò al volo e si mise svuotare il gommone in modo frenetico. Immergeva il secchio fino all’orlo, si girava di scatto e buttava l’acqua fuoribordo in pochissimi secondi. I suoi movimenti erano meccanici e precisi come quelli di una marionetta e Shoukut li eseguiva senza alzare lo sguardo, umile e sottomesso come uno schiavo.

    «Ma tu guarda quel pazzo. Cazzo, questo sì che è uno spettacolo. E tu che non gli volevi dare il secchio.»

    Lo scafista portò la bottiglia alle labbra e buttò giù un lungo sorso. Poi si sistemò sul bordo del gommone per godersi lo spettacolo.

    «Hi hi» rise, «quello crede di svuotare la barca con un secchio del cazzo. Un fottuto secchio del cazzo. È fantastico, hi hi.»

    In quel momento un’onda più forte delle altre penetrò rombando dentro la barca e Shoukut non si fermò neanche un secondo, continuando con maggior vigore.

    «Non trovi che sia meraviglioso?» urlò l’uomo al suo compare, «Lui svuota il mare con un secchio, tu fai la guardia con il tuo bel mitra russo e io bevo. Uhuhuhu, è fantastico! No, dico, proprio una bella rappresentazione del mondo» prese un altro lungo sorso. «Dio come ce l’abbiamo nel culo. E tutto perché ho dato retta a una testa di cazzo che mi ha riempito la barca peggio di una stalla!»

    «Dacci un taglio» sibilò rabbioso l’uomo con il mitra.

    «Perché, altrimenti spari? E fallo cazzo, fallo che a questo punto mi faresti un piacere. Non hai ancora capito che stiamo affondando; a-f-f-o-n-d-a-n-d-o – coglione e per colpa tua.»

    Tirò la bottiglia vuota addosso al compare mancandolo di un soffio. L’uomo si voltò di scatto serrando l’arma sotto il braccio.

    «Uh, che paura mi fai.» Lo scafista ubriaco si alzò lentamente sulle gambe tremolanti. «Secondo i miei calcoli, perché io ho tutto in testa sai, l’avrò fatta almeno una cinquantina di volte questa rotta del cazzo e non è mai successo niente, secondo i miei calcoli dicevo, saremo a 50 miglia dalla costa orientale e 70, 80 da quella italiana. In altre parole siamo nella merda fino al collo. Aggiungi che se quello regge il ritmo e non scoppia prima, forse un giorno, un giorno e mezzo ‘sta bagnarola a galla ci sta, ma poi è veramente finita.» L’uomo si accucciò su una cassa di legno, tirò fuori un’altra bottiglia e l’aprì, strappando il tappo con i denti. «Dunque preparati a rendere l’anima al diavolo. Per quanto mi riguarda posso solo maledire il giorno che mi sono messo in affari con te. Cazzo, avevo quasi finito di pagare il mutuo, era tutto a posto, tutto pronto; i documenti in ordine, l’orticello con vigneto, la terrazza sul mare. Una casetta squisita, ti dico, un vero tesoro nascosto in un’isoletta dell’Egeo. Dio mio, ma cosa ho fatto di male per meritarmi questa fine… avevo pure il progetto di fare un’azienda, una di quelle cose che attirano i clienti, ma non quei turisti del cazzo che non c’hanno un soldo e rompono solo i coglioni, no, io avevo in mente una roba per signori, per gente che spende… agriturismo mi pare che si chiami.»

    «Senti…» l’altro gli si era avvicinato per parlargli all’orecchio, «Io avrei pensato a una cosa…» tolse la bottiglia di mano al compare e ne prese un sorso. «È chiaro che meno siamo su questa bagnarola e più possibilità abbiamo di rimanere a galla. Giusto? Bene allora adesso io mi alzo e li faccio fuori tutti così noi due avremo almeno una possibilità di farcela.»

    L’altro si riprese la bottiglia e lo fissò come se guardasse un idiota.

    «Sei veramente un genio. E tu pensi che con tutta l’acqua che s’è preso quel coso funzioni ancora? Ti va già bene se non ti esplode in mano. Coglione.»

    «Cazzo almeno ne faccio fuori un po’.»

    «Bravo, così quando s’inceppa, perché s’incepperà, ce li troviamo tutti addosso. Ma vaffanculo, merda.»

    Aso si era rifugiato a prua. La scena di Shoukut che spalava acqua come uno schiavo lo aveva disgustato. Anche se, a ben vedere, provava più vergogna che disgusto. Si vergognava per Shoukut, il grande guerriero, ridotto a spalare acqua con un secchio arrugginito sotto lo sguardo beffardo degli scafisti ubriachi. Come faceva a non capire che quei due lo stavano prendendo in giro, come poteva stare al loro gioco? Svuotare la barca con un secchio, lui, che aveva assaltato i T-72 di Saddam. Una cosa del genere non sarebbe venuta in mente neanche all’ultimo dei servi. Eppure eccolo là, a darci dentro come un forsennato, come se veramente ci fosse una possibilità di salvare la barca, la loro barca. La barca di due schiavisti. Diede un’occhiata in basso; invece di diminuire l’acqua arrivava ai polpacci e tra poco avrebbero potuto sedere solo sul bordo, con il rischio di finire in mare al primo scrollone. Guardò i volti dei compagni. In una notte erano invecchiati di dieci anni. I loro volti erano tirati, magri, rugosi, gli occhi stralunati come quelli dei folli con le palpebre secche, spesse, rosse, le bocche arse, sigillate dal sale, smorte e su tutti la stessa espressione depressa di chi non sperava più, di chi si era arreso. E quello pensava di mettere a posto tutto con un secchio.

    «Io non posso morire non posso morire non posso morire. Io non devo morire non devo morire non devo morire. Io non morirò io non morirò io non morirò.»

    Mam interruppe la cantilena e fissò Aso con i suoi grandi occhi rotondi che occupavano tutta la parte superiore del viso.

    «Non è per me, ma per mia sorella.»

    Aso scrollò la testa. Non capiva. Cercò di sorridere, ma gli venne fuori un ghigno a metà tra un sorriso e una smorfia.

    «Mi ha ordinato di tornare, altrimenti si rifiuterà di guarire.»

    Aso si avvicinò al montanaro in miniatura che non doveva avere più di tredici anni. Mam drizzò le spalle come se volesse apparire più grande.

    «Il dottore ha detto che ha bisogno di medicine che esistono solo in Europa. Lì, da qualche parte, vive mio fratello, ma lui non può muoversi altrimenti non lo fanno più rientrare, e allora sono partito io per prendere queste medicine che mio fratello non sa neanche cosa siano.» Mam tirò fuori da sotto la camicia un foglietto di carta tutto stropicciato. Lo aprì con cura, facendo attenzione a non strapparlo. «Ecco vedi, qui c’è scritto il nome della medicina.»

    Sul foglietto c’era uno scarabocchio quasi illeggibile, seguito da una frase scritta in inglese.

    «Non c’era nessun altro che poteva venire al tuo posto?»

    Mam lo guardò come

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