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Waterloo: I cento giorni leggendari
Waterloo: I cento giorni leggendari
Waterloo: I cento giorni leggendari
E-book378 pagine5 ore

Waterloo: I cento giorni leggendari

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Info su questo ebook

Isola d’Elba, febbraio 1815. Il giovane Giacomo Boschi, scudiero di Napoleone, idealista, profondo ammiratore dell’imperatore e cavallerizzo esperto, riceve una grossa delusione d’amore quando Elisa Mancini, la ragazza di cui è segretamente innamorato, va in sposa a un ufficiale britannico. Per lui la fuga di Napoleone è l’occasione di liberarsi dai tormenti sentimentali, e seguirlo in Francia gli permetterà di vivere cento giorni entusiasmanti, con indosso la divisa da corazziere e un nuovo amore nel cuore. Nel frattempo Elisa si reca con il marito a Bruxelles, dove gli alleati si radunano per affrontare la battaglia decisiva a Waterloo.
LinguaItaliano
EditoreBookRoad
Data di uscita21 mar 2019
ISBN9788833220550
Waterloo: I cento giorni leggendari

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    Anteprima del libro

    Waterloo - Matteo Bruno

    frontespizio

    Matteo Bruno

    Waterloo – I cento giorni leggendari

    ISBN 978-88-3322-055-0

    © 2019 BookRoad, Milano

    BookRoad è un marchio di proprietà di Leone Editore

    www.bookroad.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Ai miei piccoli nipoti, Federico e Riccardo,

    che un giorno lo leggeranno.

    Mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto

    da la sinistra parte e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo.

    Allora dico che io poggiai la mia persona simulatamente ad una pintura (...),

    levai li occhi, e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice.

    Dante Alighieri, Vita Nova, 7 (XIV) 4

    PARTE PRIMA:

    «ETRURIA, O MORTE!»

    UNO

    … impressionabile, sempre pronto a discutere,

    senza disciplina, sospettoso dei suoi capi, turbato

    dalla paura del tradimento e perciò forse suscettibile

    di panico, ma agguerrito e amante della guerra,

    spasimante per la vendetta, capace di sforzi eroici e

    di slanci furiosi, e più focoso, più esaltato, più ardente

    di qualunque altro esercito repubblicano o imperiale,

    tale era l’esercito del 1815. Napoleone non aveva mai

    avuto in mano uno strumento di guerra così temibile,

    né così fragile.

    Henry Houssaye, storico.

    Quel giorno Giacomo Boschi era furente. Galoppava su una giumenta bianca e il vento di mare gli soffiava impetuoso tra i capelli, annaffiandolo dell’odore dello iodio e della macchia che ammantava le creste dell’isola. Era inverno. Il mar Ligure, che scorgeva tra le chiome dei lentischi a bordo strada, sembrava una piatta distesa color ardesia sporcata da righe di onde increspate, simili a venature nel marmo.

    La strada che dalla Villa di San Martino scendeva verso Portoferraio, un nastro di terra battuta solcato dalle ruote dei carretti, era tutto un susseguirsi di curve e controcurve che il ragazzo conosceva a memoria e che affrontava con la sicumera dei suoi ventitré anni. Una spavalderia così sfacciata da averlo spinto a montare senza permesso il cavallo più robusto e più veloce della scuderia, Desirée, uno dei prediletti dall’imperatore Bonaparte. Era un rischio enorme prenderlo, soprattutto se l’animale si fosse malauguratamente azzoppato nell’affrontare la strada, ma lui aveva fretta di raggiungere il porto ed era disposto a qualunque cosa per arrivarci prima che il piccolo sloop ormeggiato al molo salpasse. Mentre percorreva i tornanti, il giovane Boschi poteva ancora intravedere tra le chiome dei pini lo scafo della piccola nave pitturato a bande gialle e nere, che lo faceva somigliare a una vespa. L’unica vela era ancora imbrigliata alle cime e un paio di scialuppe facevano la spola con la terraferma, così come una chiatta con barili, bagagli e casse. Forse sarebbe riuscito ad arrivare in tempo, pensò. «Forza, Desirée» sussurrò nell’orecchio della bella giumenta. «Corri come il vento.»

    Il sole era nascosto dietro una grigia coltre di nuvole, la giornata volgeva al termine e presto le tenebre sarebbero calate sul giorno più brutto della sua giovane vita. Elisa si era sposata, e per questo era furibondo.

    La sua Elisa!

    Ancora non ci credeva. La conosceva fin dalla nascita, e con lei aveva condiviso la spensieratezza dei giochi infantili. Crescendo, era diventata la splendida donna che sognava ogni notte. Purtroppo lei lo aveva sempre considerato nulla più che un amico, e nulla aveva fatto per indurlo a pensare diversamente. Eppure Boschi aveva ugualmente immaginato mille volte di giacere accanto al corpo caldo di Elisa, di accarezzarne la pelle bianca come porcellana pregiata e i capelli odorosi di violetta, di immergersi nel suo abbraccio e di perdersi a ogni risveglio nei suoi grandi occhi del colore delle nocciole, solcati da rigagnoli d’ambra.

    Adesso però Elisa Mancini era una donna sposata. E aveva scelto per marito un arrogante inglese di nome James Spencer. Un capitano dell’esercito per di più, una di quelle maledette giubbe rosse che avevano ammazzato suo fratello in Spagna.

    Boschi sentiva ribollire il sangue nelle vene. Non era che un modesto scudiero, ma aveva il privilegio di lavorare nella Villa di San Martino, presso la residenza dell’imperatore francese ormai deposto, ricca di destrieri superbi. Tra loro Marengo, il fedele cavallo arabico dalla criniera bionda con cui Napoleone aveva scalato i vertici della Francia rivoluzionaria, e anche la snella Desirée, che era tra le favorite dell’imperatore. «Vola, Desirée» ripeté il ragazzo, mentre la giumenta al galoppo superava un carretto, sollevando con gli zoccoli una nuvola di polvere che aveva fatto tossire una donna a bordo. Sembrò che la bella giumenta volasse davvero sulla stretta strada che conduceva in città, tanto fu veloce. Boschi affrontò gli ultimi tornanti e arrivò di fronte alla garitta da cui un baffuto soldato della Guardia gli intimò dapprima di fermarsi, ma poi lo lasciò passare subito, dopo averlo riconosciuto. Tutti sull’isola d’Elba conoscevano Giacomo Boschi. Suo padre era un agiato dottore che viveva nel paese di Rio e suo fratello maggiore, ufficiale nel 113° reggimento Etruria, era caduto eroicamente in Spagna quattro anni prima. La famiglia Boschi pullulava di ardenti rivoluzionari. Nel piccolo studiolo di famiglia, che affacciava su un balcone rivolto a oriente, da cui, nelle giornate più limpide, s’intravedeva la costa italiana, oltre a svariati testi di medicina, si potevano trovare rare edizioni degli illuministi francesi più noti: Voltaire, Montesquieu, d’Alembert e Diderot; ma i preferiti di Boschi erano gli antichi scritti di Plutarco sulle gesta di Alessandro Magno, di cui, ai suoi occhi, l’imperatore francese era la reincarnazione, e testi come Il Principe di Machiavelli nei quali si vagheggiava di un’Italia unita. 

    Oltre che di intellettuali, la sua era anche una famiglia di uomini d’azione. Suo padre, da giovane, aveva servito nella cavalleria francese ai tempi di Luigi XVI, e aveva insegnato ai suoi due figli a cavalcare e a maneggiar di sciabola. Un giorno, quando i due fratelli erano ancora bambini, era tornato dal mercato di Portoferraio con un maiale non ancora macellato e, facendosi aiutare da un domestico, l’aveva appeso in cortile vestito con una giubba sdrucita di ispido panno.

    «Questa è la cosa più simile a un uomo che sono riuscito a trovare» aveva spiegato ai due. «Montate a cavallo, prendete le sciabole da cavalleria e fingete che sia il vostro peggior nemico. Voglio vedere quel che sapete fare.»

    Boschi aveva ripetuto quell’esercizio per anni, due ore alla mattina e due ore al pomeriggio, anche dopo la partenza del fratello per la guerra; in questo modo i movimenti del polso per menar fendenti gli erano diventati naturali, così come il sibilo del vento ogniqualvolta la lama affilata calava sulle povere carcasse dei maiali, che d’abitudine passavano dal cortile prima di finire in pezzi sul tavolo della cucina. «È una sciabola, non uno scudiscio, accidenti a te!» lo rimbrottava severo suo padre quando lo vedeva sferrare svogliati fendenti orizzontali. «Devi calarla dall’alto in basso, diagonalmente.»

    Boschi aveva imparato a impugnare l’arma con la mano sinistra, la stessa con cui scriveva, e a effettuare la letale torsione del braccio in modo quasi meccanico. «Essere mancini può risultare utile» gli aveva detto il genitore, senza far nulla per correggere quel difetto che aveva fatto inorridire il maestro di scuola. «Nessun nemico si aspetta di essere attaccato da sinistra, e il più delle volte non sa difendersi. Dunque continua a usarla, ragazzo mio» l’aveva incoraggiato, dandogli un buffetto. 

    Da adulto, con una singola sciabolata ben assestata, Boschi poteva facilmente spezzare l’osso della zampa di un maiale, e prevedeva di poter fare altrettanto con il braccio di un uomo. Gli mancava però di sperimentare le sue abilità contro un vero avversario, poiché le lunghe guerre che avevano insanguinato l’Europa erano finite da oltre un anno. Napoleone era stato sconfitto, aveva abdicato ed era stato confinato in una piccola isola del Mediterraneo, un regno infinitesimale, nulla più che un simulacro della grandezza di Bonaparte, quasi oltraggioso per colui che era stato il novello Alessandro il Grande.

    Certo, per Boschi era stata una fortuna che l’imperatore fosse capitato proprio sulla sua isola, e che si fosse stabilito proprio nella villa in cui lavorava come scudiero, un incarico che amava perché gli permetteva di stare a contatto quotidiano con i cavalli. Senza contare che aveva potuto vedere l’imperatore, parlarci addirittura! Mai nei suoi sogni di ragazzo aveva immaginato di potersi rivolgere al conquistatore del mondo, al generale ammantato di leggenda che, con le sue spettacolari campagne, aveva sconvolto la carta politica del continente e indotto un sacro terrore nelle viscere di ogni testa coronata d’Europa.

    Una volta, porgendo le redini di Marengo a Napoleone, l’imperatore lo aveva persino chiamato per nome. «Ti ringrazio, Giacomo» gli aveva detto, imbeccato da Bernardo Mancini, un ufficiale che era spesso al fianco di Napoleone e che era anche uno dei molti fratelli di Elisa.

    Il pensiero di lei tornò alla mente di Boschi.

    Quel giorno d’inverno, facendo rallentare la corsa di Desirée sul pavé acciottolato delle vie di Portoferraio, si rammaricò di non avere con sé la sciabola. Aveva tentato in ogni modo di sabotare il matrimonio tra Elisa e l’inglese, con l’appoggio segreto dello stesso Bernardo, che aveva visto nell’invaghirsi della sorella per il barbaro un tradimento nei confronti delle recenti tradizioni belliche di famiglia. Ma non c’era stato nulla da fare. Elisa si era innamorata ed era ricambiata, così i Mancini avevano ceduto, pretendendo in cambio che il matrimonio si celebrasse all’Elba.

    Procedendo al passo, tra vie ingombre di gente che s’affrettava a rincasare, Boschi giunse davanti al palazzo della Biscotteria, fatto edificare secoli prima dal governo fiorentino per produrre il cibo necessario alla guarnigione dell’isola. Il molo era davvero vicino e ormai nulla gli avrebbe impedito di rivedere un’ultima volta la sua amata.

    Scorse un piccolo capannello di damigelle e di uomini, sia in divisa che in abiti civili, tutti elegantemente vestiti. Udendo l’avvicinarsi degli zoccoli della giumenta, gli invitati si voltarono e videro un destriero regale montato da un cavaliere abbigliato da pezzente, con una camicia sgualcita di flanella, una maglia di lana rammendata in più punti e un ciuffo di capelli bruni spettinati dal vento. L’attenzione di Boschi fu subito catturata dallo spuntare di un lungo abito bianco dai polsini di pizzo, sopra al quale una mano premurosa aveva appoggiato un soprabito per riparare una giovane donna dal freddo; costei indossava anche un cappellino dalle falde larghe e i capelli le erano stati acconciati in onde voluttuose e racchiusi da un elegante fermaglio d’avorio all’altezza della nuca. Era bellissima, in mano stringeva una corona di fiori d’arancio e all’anulare le brillava un anello d’oro, segno che tutto era compiuto. «Giacomo, che ci fai qui?»

    «Elisa!» proruppe, inghiottendo l’amarezza che l’assalì.

    «Dovevo rivederti, prima che partissi.»

    Tutta la rabbia che Boschi aveva tanto a lungo covato svanì nell’istante stesso in cui vide il suo amore con indosso l’abito da sposa, lasciandolo soltanto preda di un senso di spossatezza e vuoto.

    Elisa lanciò un’occhiata al marito, poi s’avvicinò a Boschi, che balzò dalla sella di Desirée e si spinse in mezzo al gruppetto degli invitati, cercando di inghiottire il disagio che lo stava assalendo. «Sei felice, Elisa?» domandò, sentendosi terribilmente idiota.

    «Sai che lo sono.»

    Che ti eri aspettato, stupido?, pensò. Lanciò un’occhiata in tralice all’inglese, e constatò che aveva pressappoco la sua età. Tirato a lucido come un damerino, era anche piuttosto belloccio e infinitamente paziente: immaginò che al suo posto, di fronte a un rompiscatole venuto a guastargli il matrimonio e a insidiargli la sposa, avrebbe già estratto la sciabola.

    «Abbi cura di te, allora» biascicò, dopo una pausa dovuta all’improvvisa consapevolezza della propria rassegnazione.

    Elisa annuì, altrettanto imbarazzata, poi fece un passo indietro continuando a guardarlo.

    «Tu devi essere Giacomo, lo scudiero» intervenne il marito, in tono neutro. «Mi hanno parlato di te, e non ti biasimo per essere affezionato a Elisa: è una donna meravigliosa.» Boschi strizzò gli occhi, tentato di sferrargli un pugno e di spaccare la faccia da cicisbeo del barbaro. Invece rimase imbambolato, spiazzato dalla reazione fin troppo conciliante di quel James Spencer che aveva immaginato del tutto diverso. Idealmente i due erano stati nemici durante le lunghe guerre europee, poi anche rivali in amore, e Boschi era uscito sconfitto da entrambe le battaglie. Si era augurato di suscitare una reazione diversa, magari di provocare un bel duello, cosa che almeno avrebbe potuto appagare il suo orgoglio e gli avrebbe permesso di sfogare la rabbia, invece la calma di Spencer lo sconcertò. 

    «Andiamo, ragazzo. Levati di torno» esclamò un altro ufficiale inglese dalle spalline filettate d’oro, forse un generale. L’alto ufficiale gli volse le spalle, si calcò un bicorno frangiato sulla testa e s’incamminò verso la lancia che lo avrebbe condotto, insieme ai novelli sposi, a bordo dello sloop in attesa.

    Boschi restò inebetito a guardare Elisa e Spencer prendere posto sulle panche dell’imbarcazione, preceduti dall’ufficiale e seguiti da una mezza dozzina di rematori con lunghi capelli incatramati. Si sentì morto dentro, e una fitta lancinante gli devastò il cuore. Il sorriso di Elisa, che fino a quel giorno aveva dato senso alla sua vita al pari degli ideali suscitati da Napoleone, se ne stava andando per sempre, e con esso la sua giovinezza. Il futuro era nebuloso come un orizzonte ammantato di nebbia. Avrebbe dovuto trovare un’altra ragione di vita per riempire il vuoto doloroso in cui si sentì sprofondare, eppure non aveva mai dichiarato il suo amore alla ragazza, trattandola sempre come un’amica e accontentandosi di portarla a fare lunghe passeggiate a cavallo, picnic sui prati o escursioni sulla cima del monte Capanne.

    Perché non aveva mai chiesto la sua mano?

    Il rimpianto lo fece rodere fino ai gomiti.

    «Riporta Desirée alla scuderia, prima che l’imperatore se ne accorga» gli disse il fratello di Elisa, distogliendolo dai suoi pensieri. «Sei un incosciente, Giacomo, ma hai un coraggio da leone.»

    Boschi non era in vena di sorridere al complimento. Continuò a fissare la figura bianca dentro la lancia che, vogata dopo vogata, si rimpiccioliva allontanandosi dall’isola.

    «Vieni, piccolo bamboccio». Era il soldato baffuto che poco prima lo aveva visto entrare in città dalla garitta. Si chiamava Otello Zamparini ed era uno dei molti elbani reduci 

    dalla guerra spagnola. Gli cinse le spalle con un braccio, con l’altra mano gli afferrò rudemente la mascella e lo costrinse a distogliere lo sguardo dalla sagoma dell’amata, per fissarlo sul suo, più burbero. «Lascia perdere quella femmina, c’è una cosa che devo dirti» aggiunse in un sussurro, con l’aria complice.

    Al dondolare delle onde, Elisa guardò il familiare profilo dei campanili di Portoferraio rimpicciolirsi nel grigio del crepuscolo. La luce calante, soffusa dietro le nuvole invernali, anneriva la sagoma del forte sulla collina e rendeva indistinti i colori della terra. Era la prima volta che si allontanava dalla sua isola per un tempo indefinito. Qualche volta era stata in Italia, in Toscana, per alcuni fugaci soggiorni di piacere, e una volta a Roma, dove aveva ammirato a bocca aperta il colonnato seicentesco di San Pietro, provando pena a causa delle capre che pascolavano tra le antiche pietre del Foro abbandonate all’incuria. Stavolta era diverso. Era una donna, ed era sposata. Il marito l’avrebbe condotta su un’isola molto più vasta della sua, e molto più a settentrione: l’Inghilterra. La famiglia di James Spencer era una delle più antiche del regno, nota in tutto l’Oxfordshire per il suo stemma araldico formato da una spada dorata su fondo verde e azzurro. «Credo che il verde rappresenti i prati che ricoprono l’Inghilterra, e l’azzurro potrebbe essere il mare che la circonda» aveva ipotizzato un giorno il capitano inglese, mostrandole il blasone inciso sul coperchio del suo orologio da taschino.

    «E la spada, che significa?»

    Spencer aveva spiegato che le origini dei suoi avi erano antichissime e misteriose. Probabilmente risalivano a un condottiero sassone che si era distinto durante l’invasione dell’isola, al tempo in cui gli antenati degli inglesi l’avevano strappata alle originarie popolazioni celtiche.

    «Quando saremo in Inghilterra, abiteremo in una villa a Oxford» aveva continuato, mentre Elisa, riparata dal sole sotto un ombrellino, lo prendeva sottobraccio e lo conduceva a passeggio lungo la spiaggia. «Ma ti porterò spesso a Londra, una città che di sicuro amerai, perché vedere Londra è come vedere tutto il mondo.»

    «In che senso?»

    «Nel senso che vi si può incontrare gente di ogni razza, si possono assaggiare cibi e vedere animali di ogni dove.»

    «Dev’essere stupenda. Ma la mia isola mi mancherà, l’Inghilterra sembra così diversa.»

    «Lo è, infatti. Gli odori e i colori non somigliano affatto a quelli del Mediterraneo.»

    Spencer non parlava come un militare ligio e ottuso, aveva uno spirito sensibile ed era istruito, per questo era piaciuto così tanto a Elisa. Non possedeva nessuno dei tratti del barbaro feroce con i quali, nelle chiacchiere della famiglia Mancini, erano stati talvolta dipinti gli inglesi.

    «E tuo padre? Credi che mi accetterà?»

    Spencer aveva fatto spallucce. «Sono sicuro di sì» l’aveva poi rassicurata, anche se in realtà non aveva mai avuto un buon rapporto con il genitore, un gentiluomo che aveva sempre preferito la compagnia dei suoi terrier a quella del figlio.

    Spencer aveva la stessa età di Giacomo Boschi, cioè ventitré anni, due più di Elisa. Era alto e aitante, con lunghi capelli biondi stretti in un codino sulla nuca, e ogni volta che la giovane sposa lo guardava negli occhi non poteva far a meno di pensare a quanto doveva essere stato bello quel suo antenato al tempo selvaggio dei sassoni. «È stata una fortuna per me che l’esercito ti abbia mandato all’Elba.»

    «La fortuna è stata conoscere la Commedia di Dante. È grazie alla sua opera se ho imparato la tua lingua» sorrise Spencer, ricordando come si fosse appassionato fin da ragazzo alla lettura di quello strabiliante viaggio immaginario che aveva condotto l’autore dall’Inferno al Paradiso, il tutto per amore di una donna, Beatrice.

    «Ed è proprio perché parli italiano che, appena arruolato, l’esercito ti ha mandato qui quale aiutante di sir Campbell, non è vero?»

    Spencer annuì, lanciando un’occhiata al generale seduto a poppa della lancia, che sbuffando lesse per l’ennesima volta un biglietto color lavanda estratto dalla tasca. «Esatto, mia cara. Il reggimento cui sono assegnato, il 52°, si trova in questo momento nelle caserme dell’Oxfordshire. Non ho mai conosciuto nessuno tra gli altri ufficiali, né tantomeno tra la truppa.»

    Elisa sapeva che questo era uno dei maggiori crucci del marito. Il reggimento era reduce dalla lunga guerra di Spagna, ma Spencer aveva avuto i gradi da capitano solo dopo il ritorno vittorioso dell’esercito; non aveva mai ricevuto il battesimo del fuoco e, pur essendo orgoglioso che il suo Paese avesse vinto, non si sentiva parte di quella vittoria.

    «Sto pensando a Giacomo» riprese la donna dopo qualche istante di silenzio, mentre la barca stava quasi per raggiungere lo sloop e già si poteva udire il lungo fischio del nostromo che avrebbe accolto sir Campbell e i due sposi.

    «Dimmi di lui. Non mi è sembrato una testa calda, pur essendo uno che si comporta come se lo fosse.»

    «Io e Giacomo siamo amici dall’infanzia» rispose Elisa, sostenendo con fermezza lo sguardo del marito per fargli capire che non aveva nulla da nascondere. «Tra noi non c’è mai stato nulla, però mi è molto affezionato, soprattutto da quando ha perduto il fratello in guerra.»

    «Capisco.»

    «Se me lo permetti, vorrei scrivergli una lettera.»

    «Certo. Se questo legame con la tua terra ti rende felice, non sarò certo io a reciderlo.»

    Elisa sorrise. Sapeva che il suo James avrebbe capito. Era un uomo buono, sensibile e giusto.

    Intanto sir Campbell continuava ad agitarsi sul sedile di poppa, sbirciando con sempre maggior frequenza il breve testo del biglietto profumato. A Elisa parve evidente che non vedesse l’ora di salire a bordo del Partridge e di levare l’ancora. «Ha fretta di arrivare a Livorno» commentò Spencer a bassa voce. «Pare che una graziosa signora lo abbia invitato a trascorrere qualche giorno in sua compagnia.»

    La donna ridacchiò. «Parla piano, potrebbe sentirti.»

    «Non capisce un’acca di italiano. E poi ha la testa presa da ben altri pensieri.»

    In qualità di ambasciatore britannico presso il minuscolo regno di Napoleone, ruolo che sfumava in quello di carceriere, poco prima sir Campbell era salito alla Villa di San Martino e si era congedato dall’illustre padrone di casa adducendo quale scusa quella di doversi consultare con un medico sulla terraferma. Napoleone lo aveva trattato con cortesia, si era interessato alla sua presunta malattia e gli aveva persino strappato la promessa di far ritorno entro la fine del mese, quando avrebbe dato una grandiosa festa da ballo.

    Sir Campbell non sospettava minimamente di essere stato ingannato. In realtà, il deposto imperatore aveva architettato ogni particolare per levarselo dai piedi al più presto. 

    Stava per calare la sera quando l’ombra di un uomo vestito con un pesante pastrano di lana e una larga feluca si allungò sulle mattonelle del cortile della Villa di San Martino. Avanzò di alcuni passi facendo risuonare il ticchettio di un paio di alti stivali neri, dentro i quali portava pantaloni bianchi accoppiati con una redingote verde scura. Si diresse deciso verso il centro del piazzale illuminato da una miriade di lampade, ai lati del quale decine di servitori attendevano con pazienza. Alcuni avevano gli occhi umidi. «Signori, vi annuncio la mia partenza da quest’isola» esordì l’imperatore. «Vi ringrazio per il calore con cui mi avete accolto, porterò l’Elba sempre nel cuore, ma la Francia mi chiama. Il Borbone la porta alla rovina e non posso restare sordo al lamento della Patria.»

    Giacomo Boschi era poco distante. Aveva avuto modo di vedere spesso Napoleone negli ultimi mesi, e sulle prime gli era sembrato curvo e grassoccio, ben diverso dalle descrizioni che tutti i reduci ne avevano dato, ma quella sera gli sembrò miracolosamente ringalluzzito. La schiena era ben dritta, lo sguardo fermo, la voce autorevole.

    L’imperatore strinse le mani di tutti i presenti, una domestica s’abbandonò al pianto e gli baciò i palmi. Poi chiese le briglie di Marengo e Boschi gliele cedette, avanzando da un angolo con il maestoso cavallo imperiale. Napoleone balzò sulla sella con insolita agilità, s’aggiustò il cappello con un gesto studiato, assunse un’espressione autorevole e di colpo il suo carisma e il suo fascino leggendario riemersero dall’appannamento, cancellando gli infelici eventi succeduti all’abdicazione. 

    Era questo l’uomo che aveva conquistato il mondo, pensò Boschi, non certo il piagnucoloso individuo che aveva conosciuto in precedenza, fiacco e lamentoso, capace solo di giocare a carte, di rimirare l’orizzonte e di girovagare senza pace da una residenza all’altra con l’aria delusa di un toro preso per le corna. Era con questo cipiglio che doveva essere apparso alle schiere radunate sotto il tricolore francese quando aveva guidato l’esercito rivoluzionario oltre le Alpi, quando lo aveva sostenuto nelle sabbie ardenti dell’Egitto e nel gelo di Austerlitz: maestoso, fiero, ispiratore. Adesso era finalmente risorto dalle proprie ceneri, e di nuovo era pronto a condurre le insegne rivoluzionarie alla vittoria.

    «In marcia!» comandò, mettendosi alla testa di un lungo corteo che scese verso il porto dietro la bandiera elbana, bianca con una trasversale rossa ornata da tre api dorate. L’atmosfera era singolare, un misto di gioia e tristezza pervase gli isolani accalcati alle ali del corteo. Da una parte erano consapevoli di vivere un momento grandioso della loro storia, dall’altra non volevano che il sovrano partisse.

    Era domenica, il 26 febbraio dell’anno 1815. Napoleone, che già da mesi meditava un ritorno in grande stile, aveva deciso che era il momento buono per agire. Di recente, infatti, era stato raggiunto da una spia travestita da marinaio, la quale gli aveva portato notizie fresche da Parigi, dove l’insofferenza per il nuovo re Luigi, sprezzantemente definito «il grassone», aveva raggiunto livelli preoccupanti, facendo pentire anche molti tra coloro che all’inizio si erano indolenziti le ginocchia davanti al suo trono.

    Per compiacere le potenze vincitrici, infatti, il grassone aveva accettato di ridimensionare i confini della Francia, e aveva anche cancellato la pensione ai reduci di guerra, pesando enormemente sull’economia di molte famiglie e generando un’ondata di malcontento. «I bellimbusti riuniti a Vienna sono come cani che, dopo aver fatto fronte comune per allontanare il più grosso del branco, adesso si contendono un osso sgranocchiato» aveva detto Otello Zamparini a Boschi, dopo essere accorso al molo per evitare che il ragazzo facesse qualche follia. «Tanto più che quello storpio di Talleyrand sta complottando con gli austriaci per far trasferire l’imperatore su un’altra isola.»

    «Un’altra isola?»

    «Le Azzorre, forse. O forse Sant’Elena, che non so nemmeno dove sia.»

    Boschi era rimasto pensoso. «Come fai a sapere queste cose?»

    «Ricordi quel marinaio venuto di nascosto a portare informazioni da Parigi? Amava il vino, e il nostro sergente gliene ha fatto scolare un intero otre.»

    Zamparini gli aveva svelato anche che l’imperatore rimuginava sulla fuga. Sperava che per il giovane la prospettiva di far parte del seguito che lo avrebbe ricondotto in Francia fosse più forte delle pene d’amore, e così era stato, perché Boschi era apparso subito entusiasta all’idea.

    Quella sera d’inverno, pertanto, il ragazzo era in mezzo al lungo serpentone che, al rullo dei tamburi, stava per imbarcarsi verso la nuova avventura del grande sovrano. Con lui c’erano quattrocento veterani della Guardia, un reggimento di fanteria e un piccolo distaccamento di lancieri. Boschi non era un militare, ma aveva il compito di prendersi cura di Marengo e di Desirée, gli unici cavalli che sarebbero stati imbarcati sulla flottiglia.

    Il piccolo porto cittadino era affollato di velieri, il più grande dei quali era il brigantino Inconstant. Nei giorni precedenti Napoleone aveva fatto raschiare la carena per renderlo più veloce e ridipingere lo scafo in giallo e nero per farlo assomigliare a quelli della Royal Navy, sicché adesso l’imbarcazione pareva un tozzo favo galleggiante che sarebbe facilmente potuto passare per britannico. Accanto a esso erano alla fonda una mezza dozzina di altre imbarcazioni: piccole golette, modeste cannoniere, persino una barca da pesca rozzamente riadattata. In pratica, ogni natante dell’isola in grado di tenere il mare era stato requisito allo scopo di imbarcare il redivivo esercito imperiale.

    Era ormai quasi buio quando Napoleone salì sulla passerella che lo condusse a bordo dell’Inconstant. Senza una parola, l’imperatore volse lo sguardo al profilo montagnoso dell’isola, forse colto dal presentimento che non l’avrebbe rivista, si sfilò la feluca e salutò la folla con un ampio gesto che idealmente raccolse tutti in un grande abbraccio.

    «Vive l’Empereur!» gridò un vecchio con le stampelle.

    Il grido venne ripreso dalle migliaia di cittadini ammassati alle finestre e sulle banchine del porto. Una giovane donna si accarezzò il rigonfiamento sul grembo e lanciò un bacio a un soldato che si sporse a fianco del sovrano.

    Boschi s’imbarcò sul brigantino con un nodo di emozione stretto alla gola. Pensò che tra quella gente doveva esserci anche suo padre, l’unica persona cara che gli fosse rimasta sull’isola dopo la partenza di Elisa e la morte del fratello e della madre, avvenuta anni prima. «Vieni bella, vieni Desirée» disse, conducendo la giumenta recalcitrante sulla passerella, dopo averla bendata. «Io e te andremo d’accordo, me lo sento. Quella che sta per iniziare sarà un’avventura leggendaria.» Mentre lo diceva, prese consapevolezza che la

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