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Laguna Blu
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E-book264 pagine3 ore

Laguna Blu

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Info su questo ebook

Vittime di un naufragio, i piccoli Dick ed Emmeline approdano su un’isola deserta al largo del Pacifico. Inizialmente in compagnia di un vecchio marinaio, e poi da soli, i due bambini si ritrovano a crescere sperduti nella natura incontaminata.
Passano gli anni, Dick ed Emmeline crescono selvaggi ma felici, ormai immemori del mondo esterno, alle prese con i pericoli nascosti nell’isola e con la furia degli elementi. Finché un giorno non scoprono l’amore...
Classico senza tempo, romanzo di enorme successo sin dal suo esordio, Laguna blu è famoso anche per le numerose trasposizioni cinematografiche.
LinguaItaliano
Data di uscita20 feb 2023
ISBN9791222067827
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    Anteprima del libro

    Laguna Blu - H. De Vere (Henry De Vere) Stacpoole

    Copertina

    75

    Henry De Vere Stacpoole, Laguna blu

    1a edizione Landscape Books, febbraio 2023

    Collana Aurora n° 75

    © Landscape Books, Roma 2023

    Titolo originale: The Blue Lagoon: A Romance

    Traduzione di Maria Luisa Fagnocchi, riveduta e aggiornata. L'editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti di traduzione senza trovarli. Resta ovviamente a disposizione per l'assolvimento di quando eventualmente dovuto.

    www.landscape-books.com

    Edizione digitale a cura di WAY TO ePUB

    Henry De Vere Stacpoole

    Laguna blu

    Libro Primo. Parte prima

    I.

    Dove brilla la lanterna a olio

    Seduto su una cassa, col violino contro la spalla sinistra, il signor Button suonava lo Shan van vaught, accompagnandone l’aria col ritmico battere del calcagno sinistro sul ponte.

    Oh i francesi son nella baia,

    Dice Shan van vaught.

    Era vestito con una salopette, una camicia a righe, e con una giacca di ruvida flanella – verdastra per il sole e la salsedine. Tipico vecchio guscio di conchiglia, dalle spalle tonde, e dalle dita adunche, ricordava vivamente la forma di un granchio. La sua faccia, rossa come la luna attraverso le nebbie dei tropici, assumeva, al dispiegarsi del suono, un atteggiamento di viva attenzione, quasi che il violino andasse narrando racconti molto più belli della vecchia pedestre storia sulla baia di Bantry. Pat il Mancino era il suo nome di bordo; non perché veramente fosse mancino, ma solo perché ogni cosa che faceva la faceva alla rovescia – o quasi. Che dovesse serrare terzaroli o ammainare, o maneggiare un barilotto di grasso – se capitava qualche guaio, era colpa sua.

    Era di origini celtiche, e tutti i mari salati interposti fra lui e il Connaught, nel corso di quarant’anni e più, non avevano potuto cancellare l’elemento celtico dal suo sangue e nemmeno la credenza nelle fate dalla sua anima. Il carattere celtico è di tempra tenace; e l’anima di Button era tale che, quantunque egli, imbarcato a viva forza da Lorry Marr in Frisco, si fosse poi ubriacato quasi in ogni parte del mondo, avesse navigato con capitani yankee e si fosse trovato alle prese con nostromi pure yankee, tuttavia custodiva ancora in sé le sue fantasie, e gran parte dell’innocenza originaria.

    Proprio quasi sopra la testa del suonatore dondolava un’amaca dalla quale spenzolava una gamba; altre amache, sospese nella semioscurità, richiamavano alla mente i lemuri e le nottole degli alberi.

    La lampada a petrolio, oscillando, proiettava la luce in avanti, oltre la base del bompresso fino agli "apostoli¹"; e, qua rischiarava un piede scalzo sporgente dalla sponda di una branda, là un viso con la pipa in bocca, da una parte un petto coperto di scura peluria, dall’altra un braccio tatuato.

    Era il tempo in cui le doppie gabbie non avevano ancora ridotto gli equipaggi delle navi, e il ponte del Northumberland era al completo: una folla di topi di bordo, quale spesso si può trovare sulle navi che doppiano il capo Horn. Americani olandesi, uomini che fino a tre mesi prima lavoravano come agricoltori e guardiani di maiali nell’Ohio, marinai veterani come Paddy Button – un miscuglio di ciò che c’è di meglio e di peggio sulla terra – quale non si può trovare in nessun altro luogo che nel breve spazio di un ponte di nave.

    Il Northumberland, superata una terribile burrasca nel doppiare il capo Horn, aveva passato trenta giorni lottando contro venti contrari e tempeste, laggiù dove i mari sono così vasti che tre onde bastano a coprir con la loro ampiezza più d’un miglio di superficie acquea; e, trascorsi poi altri trenta giorni al largo di capo Stiff, proprio allora, al momento di questa storia, sorpreso da una calma, si trovava immobile a sud dell’equatore.

    Button finì la canzone sfiorando con la mano il violino, e si passò la manica destra del camiciotto sulla fronte. Poi tirò fuori una pipa fuligginosa, la riempì di tabacco e l’accese.

    «Patrick», disse una voce strascicata, dall’amaca da cui pendeva la gamba. «Che cos’era quella storia che stavi per raccontare l’altra sera su un Lepre-con

    «Un Lepre-con?» chiese Button, gettando uno sguardo al fondo dell’amaca, tenendo alto il fiammifero per la pipa.

    «Era su una cosa verde», borbottò da una branda una voce assonnata dall’accento olandese.

    «Ah! Un Leprecauno vuoi dire. Sicuro, la sorella di mia madre ne aveva uno laggiù nel Connaught».

    «Com’era fatto?» domandò l’assonnata voce olandese, così lenta che sembrava riflettere la calma che, in quegli ultimi tre giorni, aveva reso il mare simile a uno specchio, riducendo nel frattempo l’intero equipaggio allo stato d’inerte ozio.

    «Com’era?» insisté la voce.

    «Come un ometto non più grande di un grosso ravanello biforcuto, e verde come un cavolo. Mia zia ne aveva in casa uno là nel Connaught, ai miei tempi beati. Oh quei bei tempi! Ebbene, puoi credermi o non credermi: ma te lo saresti potuto mettere in tasca tanto era piccolo; e la sua testa verde come l’erba, anche a premerla, saltava sempre fuori. Lo teneva, sì in credenza, ma, se c’era una fessura, ecco che scappava fuori; perfino sotto i letti lo si trovava, o addirittura dentro le scodelle del latte; capace di tirarti via di sotto lo sgabello, o di farti qualche altro scherzo. Inseguiva il maiale, il piccolo! riducendolo magro di paura con le costole fuori come un vecchio ombrello, e sottile come un levriero in corsa; o metteva in disordine le uova, tanto che galli e galline non riuscivano più a riconoscerle e i pulcini nascevano con due teste e ventisette gambe davanti e di dietro. E se pretendevi d’acchiapparlo, ti succedeva come a tesare la vela di maestra: ti scappava via, e avevi un bel rincorrerlo, finché non decideva d’andarsi a chiuder di nuovo nella credenza».

    «Era un troll dunque», mormorò la voce olandese.

    «Ti sto dicendo che era un leprecauno, e non si sapeva mai che diavolerie combinasse. Poteva tirar fuori il cavolo dalla pentola che bolliva sul fuoco, e sbattertelo in faccia; o, se gli mostravi il pugno, lasciarci cader dentro una moneta d’oro».

    «Vorrei che fosse qui!» mormorò una voce da un pancone vicino agli apostoli.

    «Paatrick», prese a dire lentamente la voce dall’amaca di sopra. «Che cosa faresti per prima cosa, se ti trovassi con venti sterline in tasca?»

    «E me lo chiedi?» rispose Button. «A che cosa servono a un marinaio venti sterline in mare, dove non c’è che acqua da bere e carne di cavallo da mangiare? Dammele a terra, e ti faccio veder io che cosa ne faccio!»

    «Lo so che cosa ne fai: ti precipiti nella prima mescita d’acquavite con una tal corsa da sollevare nuvolette di polvere», disse una voce con l’accento dell’Ohio.

    «Certo che mi precipiterei», replicò Button «ma anche tu mi seguiresti volentieri. Al diavolo l’acquavite e chi la vende!»

    «È facile dirlo», rispose quello dell’Ohio «tu mandi al diavolo l’acquavite quando sei in mare e non puoi averla, ma, appena hai toccato terra, eccoti ubriaco fradicio».

    «Mi piace ubriacarmi» disse Button; «lo confesso; e quando ho l’alcool dentro, sono un demonio. Eppure l’alcool sarà la mia morte, se devo credere alla mia vecchia madre. Pat, mi disse la prima volta che tornai a casa dopo essere stato in mare, puoi scampare alle tempeste, puoi scampare alle donne, ma l’acquavite ti prenderà. Quarant’anni son passati, quarant’anni!»

    «È vero», disse quello dell’Ohio «ma non t’ha ancor preso».

    «Non m’ha preso», rispose Button «ma mi prenderà».


    ¹ Nell’ossatura della nave in legno prendono questo nome le due estremità dell'ultimo quinto di prua tra le quali passa l’albero di bompresso (N.d.T.).

    II.

    Sotto le stelle

    Era una notte meravigliosa sul ponte, sotto la luce maestosa delle stelle, nella calma tropicale. Il Pacifico dormiva; un lieve ondeggiare, fluente ampio nella notte, dal lontano Mezzogiorno, sollevava e abbassava il Northumberland sui suoi flutti con un ritmo che assecondava lo sbattere della velatura e il cigolio occasionale del timone; mentre su in alto nel cielo, vicino all’ardente arco della Via Lattea, stava sospesa, simile a un aquilone spezzato, la Croce del Sud.

    Stelle nel cielo, stelle nel mare, stelle a miriadi e miriadi; tante, queste luci, che il firmamento dava l’impressione di una grande città popolosa – benché nessun’eco di vita giungesse da tutto quel vivo e brillante splendore.

    Giù nella cabina, o saletta, come con amabile indulgenza veniva chiamata, erano seduti i soli tre passeggeri della nave; uno leggeva davanti al tavolo, gli altri due giocavano sul pavimento.

    Il passeggero seduto presso il tavolo, Arthur Lestrange, teneva gli occhi, grandi e infossati, fissi su un libro. Era visibilmente ammalato di consunzione e ormai prossimo a scorgere l’inutilità di quel lungo viaggio di mare, accettato come ultimo disperato rimedio.

    Emmeline Lestrange, la sua nipotina – otto anni, una bimba esile e piccola per la sua età, ma già un po’ chiusa e taciturna, per una sua innata tendenza alla meditazione, con gli occhi dalle grandi pupille, quasi porte spalancate ai sogni, e con un volto che pareva essersi appena affacciato in questo mondo prima di ritrarsene all’improvviso – sedeva in un angolo cullando qualcosa tra le braccia, e seguendo nel dondolio il ritmo interiore dei pensieri. Dick, il figlioletto di Lestrange, che aveva poco più di otto anni, stava seminascosto sotto la tavola. Erano di Boston, diretti a San Francisco, o piuttosto verso il sole e lo splendore di Los Angeles, dove Lestrange aveva comprato una piccola tenuta, sperando di godervi ancora la vita, rinvigorito dal lungo viaggio in mare.

    Mentre continuava a leggere, la porta della cabina si aprì, e apparve una spigolosa figura femminile. Era la signora Stannard, la governante, e la signora Stannard voleva dire che era ora di andare a letto.

    «Dicky» disse Lestrange, chiudendo il libro e sollevando di qualche centimetro la tovaglia, «è ora di andare a letto».

    «Oh, non ancora, papà!» uscì di sotto la tavola una voce spaurita e assonnata. «Non sono pronto. Non voglio andare a letto, io… ehi, ahi!».

    La signora Stannard, che sapeva il fatto suo, si chinò sotto la tavola, e, afferratolo per i piedi, tirò fuori a forza il fanciullo che recalcitrava furiosamente singhiozzando.

    Quanto a Emmeline invece, compreso dopo una breve occhiata l’inevitabile, si alzò, e senza abbandonar la brutta bambola di stracci fino allora cullata, che continuava a penderle da una mano a testa in giù, rimase ad aspettare, finché Dick, fatti per vezzo gli ultimi piagnucolii, improvvisamente s’asciugò gli occhi e sollevò il viso imperlato di lacrime perché il padre lo baciasse. Allora anch’ella presentò solennemente la fronte allo zio, e, ricevutone il bacio, sparì, condotta per mano, in una cabina a sinistra della saletta.

    Lestrange s’immerse di nuovo nella lettura; ma non aveva scorso molte pagine che la porta della cabina si riaprì, ed Emmeline, in camicia da notte, riapparve, con un pacco di carta scura in mano, non più grande del libro che leggeva lui.

    «La mia scatola» disse; e mentre la teneva in alto, a riprova d’averla tuttora con sé, il viso infantile parve assumere una sembianza d’angelo: aveva sorriso. Quando Emmeline Lestrange sorrideva, era proprio come se la luce del Paradiso le si fosse improvvisamente irradiata sul volto: la più incantevole forma di bellezza infantile d’improvviso vi si apriva davanti agli occhi, e appena vi aveva abbagliati subito svaniva. Poi la bimba scomparve con la sua scatola, e Lestrange chinò di nuovo gli occhi sul libro. La scatola di Emmeline, sia detto tra parentesi, aveva dato più da fare all’equipaggio, che non tutto il bagaglio degli altri passeggeri.

    Le era stata regalata alla partenza da Boston da una signora sua amica, e il suo contenuto restava un profondo mistero per tutti a bordo, tranne che per la proprietaria e per lo zio. Era già una donna, o almeno una donna in miniatura se – fatto di cui non si può non tener conto – custodiva tanto gelosamente in sé questo segreto. Il guaio era che la scatola si perdeva spesso. Diffidente, come chi, rapito nei suoi sogni, si muova a disagio in un mondo infido, la bambina soleva portarla sempre con sé, per esser certa di non smarrirla; salvo poi a sedersi, dimentica, a ridosso di qualche rotolo di cavi, e a immergersi così in una delle sue fantasticherie; finché non fosse di nuovo richiamata alla realtà dalle manovre dell’equipaggio che serrava terzaroli o ammainava vele, o attendeva a qualche altro lavoro, e levatasi in piedi, distratta dal viavai, non s’accorgesse d’improvviso d’aver dimenticato chissà dove il suo tesoro. Cominciava allora a vagare per tutta la nave, un po’ qua un po’ là, sbirciando giù nel boccaporto di prua o spiando in cucina, con gli occhi spalancati e un’espressione desolata in viso, sempre in cerca come un irrequieto fantasma, ma senza mai dire una parola né emettere un lamento; quasi che, vergognosa di confessare ciò che aveva perduto, non volesse che altri venisse a saperlo. Tutti invece se ne accorgevano subito non appena la vedevano vagabondando come diceva Button, e si mettevano alla ricerca. E ben strano era che di solito fosse proprio Paddy Button a trovarla: egli che non ne azzeccava una per i grandi, le indovina tutte per i piccoli.

    I bambini infatti, quando potevano stare con Button, andavano in visibilio. Egli aveva per loro un’attrattiva pari a quella di uno spettacolo di marionette o di una banda d’ottoni, o poco meno.

    Lestrange dopo un po’ chiuse il libro che stava leggendo, si guardò intorno e sospirò.

    La saletta del Northumberland era una stanza piuttosto allegra, abbellita anche dal legno liscio dell’albero di mezzana che l’attraversava, ricoperta con un tappeto di Axminster, e adorna di specchi inseriti in pannelli di pino bianco. Lestrange guardava fisso l’immagine del suo viso riflessa in uno di questi specchi, posto proprio di fronte a lui. Il suo aspetto emaciato era impressionante, e forse solo in quel momento egli, per la prima volta, si rese conto che non solo era condannato a morire, ma a morire presto. Distolse lo sguardo dallo specchio, e rimase per un po’ col mento sulla mano, e gli occhi fissi a una macchia d’inchiostro sulla tovaglia; poi s’alzò, e, attraversata la cabina, salì con fatica su per la scaletta al ponte di poppa.

    Quando s’appoggiò alla murata per riprendere fiato, di fronte allo splendore e all’incanto della notte del sud, ebbe una stretta al cuore. S’abbandonò su una sedia del ponte e volse lo sguardo in alto, alla Via Lattea, il grande arco trionfale formato di soli che l’alba avrebbe spazzato via come un sogno.

    Si può scorgere nella Via Lattea, vicino alla Croce del Sud, una immane voragine a guisa di gorgo: il Sacco di Carbone. Entro quei suoi contorni netti, pare che si sprofondi tanto, che la sua vista dà alla fantasia un senso di vertigine.

    L’occhio nudo la vede nera e tetra come la morte, ma il più piccolo telescopio basta a rivelarla invece bella e popolata di stelle.

    Gli occhi di Lestrange andavano da questo mistero alla croce splendente, alle stelle senza nome e senza numero che s’abbassavano fino alla linea del mare dove impallidivano svanendo alla luce della luna nascente. A un tratto notò una figura che passeggiava sul cassero.

    Era il vecchio.

    Un capitano di mare è sempre il vecchio, qualunque sia la sua età. Il comandante Le Farge poteva avere quarantacinque anni: marinaio del tipo di Jean Bart, di origine francese, ma di nazionalità americana.

    «Non capisco dove sia andato a cacciarsi il vento» disse Le Farge mentre s’avvicinava alla figura semisdraiata sulla sedia in coperta. «Va a finire che, a furia di soffiare, s’è aperto un buco nel firmamento, ed è scappato dall’altra parte».

    «Il viaggio è stato lungo per me, capitano» esclamò Lestrange «e, credo, sarà lungo ancora! Il mio porto non è Frisco. Lo sento».

    «Non pensate a queste cose», disse l’altro, sedendogli accanto. «Sono sempre vane le previsioni fatte un mese prima. Ora che siamo in clima caldo, vedrete che vi rimetterete benissimo e sarete forte e arzillo come uno di noi, prima che si giunga alle Porte d’Oro».

    «Penso ai bambini», disse Lestrange, come se non avesse badato alle parole del capitano. «Se dovesse capitarmi qualche guaio prima che raggiungiamo il porto, vorrei che faceste qualche cosa per me. Soltanto questo: occupatevi voi del mio corpo, ma senza che i bambini se ne accorgano. Da parecchi giorni volevo chiedervi questo. Capitano, quei bimbi non sanno nulla della morte».

    Le Farge si mosse con imbarazzo nella sedia.

    «La madre della piccola Emmeline morì quando la bimba aveva due anni, suo padre, mio fratello, morì prima che fosse nata. Dicky non conobbe mai sua madre, morta anch’essa nel darlo alla luce. Mio Dio, capitano, la morte ha davvero calato una mano pesante sulla mia famiglia; potete quindi comprendere perché io abbia tenuto nascosto anche il nome della morte alle due creature che amo».

    «Eh sì», disse Le Farge «è triste!»

    «Quand’ero bambino», continuò Lestrange, «piccolo come Dick, la mia governante soleva spaventarmi con storie di morti. Mi diceva che dopo la morte sarei precipitato nell’inferno se non fossi stato buono. Non vi so dire quanto questo m’abbia amareggiato la vita, poiché dai pensieri della fanciullezza, capitano, derivano i pensieri degli anni maturi. E possono da un padre malato nascere figli sani?»

    «Credo di no».

    «Appunto per questo mi son proposto che quando queste due delicate creature mi fossero state affidate, le avrei protette con tutte le mie forze dai terrori della vita, o, meglio, della morte. Non so se ho fatto bene, ma l’ho fatto per il meglio. Avevano una gatta, e un giorno Dicky venne da me e mi disse: Papà, la micia è in giardino addormentata, e non riesco più a svegliarla. Lo portai subito fuori con me a passeggio: c’era in città un circo, e ve lo condussi: lo spettacolo lo divertì tanto che finì col non più pensare alla gatta. Solo il giorno dopo mi chiese ancora di lei. Evitai di dirgli che era stata sepolta in giardino: risposi che doveva essere scappata. Dopo una settimana già non se ne ricordavano più: i bambini dimenticano presto».

    «Questo è vero», disse il capitano. «Ma,

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