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Meone il Saggio e Billynvisibile
Meone il Saggio e Billynvisibile
Meone il Saggio e Billynvisibile
E-book181 pagine2 ore

Meone il Saggio e Billynvisibile

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Ispirato agli eventi che portarono alla chiusura, nel 2012, del laboratorio di sperimentazione animale Green Hill, dove, secondo l’accusa, vennero uccisi di 6023 beagle, “Meone il saggio e Billynvisibile” è una storia avventurosa e leggera, dove gli animali hanno il ruolo principale, mentre gli umani, pur presenti e importanti, siedono nel sottofondo di una quinta teatrale. Buoni e cattivi si alternano. Meone il Saggio, gatto randagio, ma ultimo discendente dei Sacri Grigi di Betlemme, decide di provare a liberare gli animali tenuti prigionieri nella Valle Infernale. Il suo lungo viaggio verso nord sarà irto di pericoli e incontri, che cambieranno il suo destino e quello dei compagni, animali d’ogni specie, che si raccoglieranno attorno a lui durante il cammino. Si tratta di una storia che, pur pensata come un cartone animato, sotto la superficie giocosa è fatta di coraggio, amicizia e sacrificio, che si contrappongono alla viltà, al sopruso e agli interessi dell’egoismo umano.
LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2018
ISBN9788833281209
Meone il Saggio e Billynvisibile

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    Anteprima del libro

    Meone il Saggio e Billynvisibile - Claudio Strauss

    Strauss

    I – Borgo Felino

    In un giorno gocciolante d’Autunno e precisamente il terzo giovedì d’ottobre successe che…

    A Borgo Felino le campane della vecchia chiesa di Santa Gertrude suonarono le sei della sera, fredda e piuttosto umida; ci si era messo anche il vento.

    Poche auto in quelle strade da poco asfaltate in una periferia al confine del mondo, soprannominata, a causa della forma, Bocca delle Sette Vite, nascosta a nord-ovest dal Deserto Minore. Periferia di un immenso territorio chiamato Cranio del Promontorio, dominato dalla grande Montagna Inviolata.

    Altri rintocchi a Borgo Felino. Don! don! don! E in successione i passi di un gruppo di persone che s’affrettavano per l’ultima funzione del giorno.

    Lungo Strada Gagliarda, precisamente in Via del Mozzo, s’accese una luce sopra il portoncino di una casetta dal tetto color caffè e con due finestre dipinte di verde.

    Una donna anziana scese zoppicando i due gradini e chiamò una micia. Si chinò vicino ai vasi di fiori e lasciò in terra una ciotola di latte con i biscottini e un pezzo di pane. Soddisfatta, la Vecchina dalla mantella blu si ritirò per la cena.

    Dalla fessura del finestrino anteriore di un veicolo abbandonato in men che non si dica balzò giù un’ombra. Tata il suo nome, dal manto pezzato tricolore e due occhi d’ambra penetranti. Conosciuta come Tata Streghetta per via del carattere poco accomodante, restia a socializzare con i suoi simili, il pelo sempre arruffato sul corpo snello e la testolina triangolare nera come la pece.

    Guardò a destra e a sinistra e, scongiurati eventuali scocciatori, si mise a slinguazzare il latte, attaccò quindi i biscottini, scansando il pane, che detestava. Mentre mangiava con molta calma, sapendo d’esser spiata da due fessure all’insù, sorniona sorrise. Dal fogliame, con gran trambusto, balzò fuori un enorme gatto, che con il riflesso lunare sembrava screziato d’argento. Strusciò il fianco sulla ruota posteriore della piccola auto miagolando sonoramente.

    Tata d’istinto soffiò girandosi: «Miaooo, grrr Pagnottella, quante volte ti ho detto di non invadere il mio territorio!» soffiò ancora, facendo segno con l’unghia a lato della testa. «Toc-Toc, Toc-Toc, c’è nessuno da quelle parti? Cos’hai, ti sei bevuto il cervello?»

    Così dicendo gli lanciò il pezzo di pane, che Pagnottella infilzò al volo.

    «Maoo! Vacci piano Streghetta, ricordati che quando hai bisogno ci sono sempre, quindi buona con le parole Strrreghetta!» replicò Pagnottella, ridendo e leccandosi i baffi, dopo aver inghiottito in un sol boccone la leccornia.

    Soddisfatto per lo scherzo la guardò dalle fessure a mandorla e rincarò la dose: «Lo sai bene chi ti tiene lontano dalle scocciature… ehm, dai grrrossi pericoli, potrei pentirmene bada bene!»

    Piegando di lato la testona, rizzò il pelo, per apparire ancor più alto e minaccioso.

    «Non c’è che dire, una bella messinscena. Clap clap!»

    Battendo le zampe Tata applaudì, ma senza ombra di sorriso, e si avvicinò: «Te lo ripeto un’ultima volta, vedi la mia dimora? Ecco, stai due metri indietro, intesi?» Spinse l’indice sul petto di Pagnottella. «O devo ricordarti come andò a finire l’ultima volta? Eppure quella cicatrice sul fianco è ancora lì in bella mostra, per cui smamma e non abusare della mia pazienza!»

    È vero che Pagnottella, senza timore di smentita, era il gatto più forte del quartiere, altrettanto vero che non si era dimenticato della batosta ricevuta quella volta che aveva osato trasgredire le regole. Durante un bisticcio dovette subire l’ira della gatta lunatica, beccandosi un’artigliata profonda. Non ne era intimorito, ma la rispettava, e, dettaglio importante, gli passava sempre quei succulenti pezzi di pane con la crosta che lui rosicchiava con gusto. Pensò tra sé che ci poteva stare.

    «Bene Tata, messaggio ricevuto, sempre convincente!» Pagnottella alzò gli occhi al cielo. «Vado a sdraiarmi sotto il grande pino laggiù e vedi di non svegliarmi prima di due ore.»

    Fece finta di levarsi un cappello immaginario, un breve inchino e se ne andò sotto lo sguardo attento della bisbetica. Il loro era un rapporto di mutuo soccorso che durava da qualche tempo. L’una poteva languire pigramente, e farsi gli affari propri, protetta dall’enorme certosino, l’altro mangiava a sbafo tutti i giorni.

    Spesso Borgo Felino era territorio di furti e soprusi da parte di gang cittadine che si aggiravano impunemente nell’oscurità, ma anche di giorno. Giusto la sera prima la Polizia aveva pizzicato un delinquente della Banda dei Lord, che taccheggiava alcuni commercianti, terrorizzandoli. Lord, elegantemente vestito, era il loro capo. Vi erano poi la Gang dei Rossi, capeggiati da una infida gatta rosso-arancione, che occupavano la zona centrale della Bocca, con la Piazza come base, e i Musi Lunghi, che non ridevano mai e in cui ogni elemento della banda era maschio e completamente grigio.

    Poi c’erano altre bande minori che si dividevano il territorio.

    Trascorrevano bighellonando le giornate, che si facevano man mano più corte e più fresche.

    Ogni giorno, quando l’orologio segnava le undici del mattino, sempre in Via del Mozzo, all’angolo con Via di Buona Volontà al numero 13, come da copione Carcassa usciva di casa, faceva pochi passi e si sedeva sotto la solita panchina a osservare il mercatino del sabato in Piazza. Si divertiva ad ascoltare le contrattazioni tra mercanti e clienti, i battibecchi e gli insulti che a volte volavano, ed erano uno spasso. Con un po’ di fortuna ci scappavano delle zuffe. Ciononostante il posto era un ricettacolo di storie e notizie che i nomadi commercianti portavano dalle zone limitrofe.

    Carcassa era il gatto più vecchio di Borgo Felino; antiche dicerie sostenevano che avesse cent’anni e più. Spelacchiato e stinto, s’appoggiava al bastone Liscadipesce, efficace come sostegno, ma anche ottimo arnese da difesa ogni volta che era stato obbligato a farne uso.

    Una volta era successo proprio contro i Rossi, che erano allora una combriccola di tre gatti, i classici bulli di paese che tiravano fuori coltelli tanto affilati da spaventare chiunque incontrassero. La gatta arancione dagli occhi color smeraldo che comandava la cricca era decisamente più piccola degli altri micioni, ma della perfidia aveva fatto virtù. Si chiamava Rubinia, snella, veloce come la luce, scaltra e sempre pronta ad architettare machiavellici piani per fregare il prossimo. Abile nel corpo a corpo, la mente sempre in fermento per escogitare modi per ricattare i malcapitati con estorsioni e prestiti a strozzo.

    Della Gang dei Rossi facevano parte anche due gemelli, uno si chiamava Sfregio e l’altro Iena, in virtù della sua risata isterica; due gattoni mastodontici, rossicci e goffi, ma tremendamente forti e resistenti. Stavano passando tra le bancarelle e, avendo visto Carcassa, si tennero saggiamente alla larga da Liscadipesce, di cui proprio Sfregio aveva avuto modo di assaggiare l’efficacia: il segno profondo all’occhio destro era il ricordo di quell’incontro.

    Sfregio però non poté fare a meno di provocare: «Vecchia Carcassa, sempre a zonzo a controllare tutti, eh? Alla tua età forse sarebbe ora di riposare le ossa, o no?» Lo sbeffeggiò, con voce bassa e rauca, strizzando gli occhi.

    «Chi ti ha dato il permesso di parlare grrrr, shhh» disse Rubinia, soffiando e colpendolo sul muso, «chiudi quella boccaccia, idiota!»

    Iena ridacchiò: «Ihiiii uhahaha ihhhihi, sei il solito scemo Sfregio ihihi», ma subito si quietò, fulminato dallo sguardo di Rubinia, che non ammetteva repliche.

    Carcassa rispose divertito: «Hai ragione Sfregio, le mie ossa sono stanche, ma la mia testa non fa difetto, lo stesso non si direbbe della tua!» Fece oscillare Liscadipesce come se fosse un serpente. «Che vuoi farci, non ho altri impegni che tenere d’occhio le canaglie a Borgo Felino, e qualcuno lo deve pur fare, o no?»

    Sorrise arricciando i lunghi baffi bianchi.

    «Tranquillo Carcassa, non ti disturbare vecchio mio… non vedo canaglie qua in giro, e voi ragazzi?» disse Rubinia con fare mendace. «Ti consiglio di pensare alla tua salute piuttosto, non vorrei che uno di questi giorni ti succedesse qualcosa, sarà meglio per te.»

    Aveva parlato in tono secco, estraendo gli artigli scintillanti e affilatissimi, con uno sguardo truce, gli occhi smeraldo profondi come l’abisso fissi sul vecchio Carcassa, poi, tronfia si diresse sul lato opposto, seguita dai due scagnozzi, sicuramente in cerca di guai. Carcassa non disse nulla, si limitò a osservarli mentre si allontanavano. Rubinia non gli piaceva affatto, non avrebbe abbassato la guardia.

    Ripensando alla leggenda che si portava addosso, che alimentava le storie sul suo conto e sull’inseparabile Liscadipesce, Carcassa gioiva come un bambino alle giostre: gli attribuivano poteri magici e l’età di Matusalemme. Lui, furbo e civettuolo non smentiva.

    Sentì una zampa sfiorargli la spalla. Non si preoccupò: sapeva bene chi fosse, tanto da illuminarsi nel fiutare chi nel quartiere era a lui più caro.

    Ecco che finalmente entra in scena Meone il Saggio, tanto importante nella nostra storia.

    Meone, un bel randagio adulto di cinque anni, un felino europeo tigrato con la emme ben in vista sulla fronte e il manto di un grigio sfumato di beige; forte dei suoi otto chili, ma agile e veloce come il vento. Occhi giallo-ocra sempre vigili, mai distratti, come le grandi orecchie. Quando apriva la bella bocca in una risata rumorosa, un dente spezzato la rendeva ancor più attraente.

    Un randagio, ma che aveva la nomea di provenire da una stirpe di gatti molto particolare, antica come il mondo, insomma un predestinato. Nell’antichità quelli come lui venivano considerati sacri proprio perché portavano la M stampata sulla fronte, dorata come il Sole. Erano gatti che facevano risalire le loro origini all’epoca di Gesù, dotati di saggezza e forza proverbiali. Pare che Meone fosse l’ultimo discendente dei Sacri Grigi di Betlemme, ma non vi erano prove certe a riguardo.

    «Buongiorno Nonno.» Così lo chiamava Meone. Tra loro vi era una rara intesa; per il vecchio, Meone era il nipote che non aveva mai avuto. «Ero certo che ti avrei trovato sotto la panchina dell’orologio, come ogni sabato mattina del resto.»

    «Qual buon vento, scellerato!» disse Carcassa ridendo, «È l’alba, sono solo le undici, che ci fai qui così presto?» lo canzonò.

    «Sai Nonno», iniziò Meone, grattandosi la testa, «volevo parlarti, perché il vento non è certo buono.»

    «Immagino a cosa tu ti riferisca, ma non qui, troppe orecchie. Facciamo due passi», suggerì Carcassa.

    Insieme si diressero verso la casa del vecchio.

    «Ascolta Nonno…» disse Meone una volta che ebbero sceso due rampe fino al sottoscala di una bicocca abbandonata, tana del vecchio gatto. «Ho sentito proprio ieri due uomini che parlavano nei pressi di Strada Gagliarda, vicino al Bar dei Grilli. Raccontavano di un luogo lontano, una valle infernale, da dove provengono lamenti e grida tutto il giorno».

    Già da qualche giorno arrivavano sempre più frequenti notizie di questo luogo poco raccomandabile, per alcuni terrificante, a nord di Borgo Felino, ma le Autorità del posto tacciavano di propaganda tali dicerie.

    «Sì, ne ho sentito parlare anch’io, ma non so quanto ci sia di vero e quanto di inventato», rispose Carcassa abbassando lo sguardo.

    «E se le voci fossero vere? Alcuni del posto hanno sentito dei latrati di bambini, di cuccioli e non solo provenire da una scatola di pietra», continuò Meone alzando il tono della voce. «È un po’ che ci penso, bisogna fare qualcosa!»

    Carcassa cercò di farlo riflettere: «Calmati figliolo! Anche se fosse, vuoi andare là a farti sbranare? Non essere precipitoso, rifletti.»

    «Seee… intanto io sto qua a vagabondare senza scopo, a poltrire e sprecare giorni», inveì Meone, «che dico giorni, mesi, anni senza concludere niente, passando la notte a pensare a un passato che non ricordo e che forse non ho», rispose scuotendo le deboli spalle del vecchio. Ma se ne pentì subito. «Perdonami Nonno, forse hai ragione tu, esco a prendere una boccata d’aria, chissà che non mi schiarisca le idee!»

    E corse via digrignando i denti, senza voltarsi.

    «Se solo sapessi figliolo, se solo sapessi!» disse Carcassa tra sé.

    Meone era giovane e nel pieno delle forze, ma avrebbe riflettuto. Ciononostante il cuore dell’anziano, malandato dai dispiaceri, gli mandava segni preoccupanti; era confuso come non lo era mai stato, sentiva Meone lontano, straniero, e si rattristò.

    A Borgo Felino le settimane passavano, arrivò l’inverno, con il freddo anche la neve inattesa. Le case iniziarono a imbiancarsi durante una sera di dicembre; in prossimità del Natale, il cielo terso e senza nuvole rese l’aria secca ancor più penetrante.

    Il dedalo di vie era bianco e la pineta circostante rendeva il paesaggio simile a quello di un borgo montano.

    Strada Gagliarda, la via principale, era uno sfavillio di luci, affollata di persone che passeggiavano a piedi, bambini che si rincorrevano tirandosi le palle di neve e automobilisti indaffarati. Un via vai di persone fin quasi alla fine della strada, dove c’era la Piazza, che poi si congiungeva con il Corso dei Compianti, e su in salita per due chilometri fino ad arrivare al piccolo camposanto.

    Molti facevano spese nei negozi, come quello della fornaia Rosetta, dove si potevano comprare dolci fatti in casa, pizze salate e ogni ben di

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