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Il fantasma dalle ali d'oro
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E-book266 pagine3 ore

Il fantasma dalle ali d'oro

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Info su questo ebook

Il "fantasma dalle ali dorate" non è altro che la bestia del gioco d'azzardo. E non c'è nessuno, probabilmente, che lo conosca meglio del falso colonnello Arturo Tavera, ossessionato dall'idea di vincere finalmente alla roulette applicando i propri metodi "scientifici". Ma Monte Carlo non regala niente, e l'orizzonte della provvidenziale vincita sembra rimanere costantemente al di fuori della portata di Tavera. La realtà della sua vita, di fatto, è più che altro quella della miseria. Ricoperto di debiti, l'uomo deve ridursi a dare in sposa l'amata figlia al ricco indiano Giovanni Espinosa, che ha ben trent'anni più di lei. Un romanzo toccante, dalla prosa vivida e dai contorni drammatici, che spiazza per la sua estrema modernità... -
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2022
ISBN9788728411360
Il fantasma dalle ali d'oro
Autore

Vicente Blasco Ibañez

Vicente Blasco Ibáñez (1867-1928) was a Spanish novelist, journalist, and political activist. Born in Valencia, he studied law at university, graduating in 1888. As a young man, he founded the newspaper El Pueblo and gained a reputation as a militant Republican. After a series of court cases over his controversial publication, he was arrested in 1896 and spent several months in prison. A staunch opponent of the Spanish monarchy, he worked as a proofreader for Filipino nationalist José Rizal’s groundbreaking novel Noli Me Tangere (1887). Blasco Ibáñez’s first novel, The Black Spider (1892), was a pointed critique of the Jesuit order and its influence on Spanish life, but his first major work, Airs and Graces (1894), came two years later. For the next decade, his novels showed the influence of Émile Zola and other leading naturalist writers, whose attention to environment and social conditions produced work that explored the struggles of working-class individuals. His late career, characterized by romance and adventure, proved more successful by far. Blood and Sand (1908), The Four Horsemen of the Apocalypse (1916), and Mare Nostrum (1918) were all adapted into successful feature length films by such directors as Fred Niblo and Rex Ingram.

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    Il fantasma dalle ali d'oro - Vicente Blasco Ibañez

    Il fantasma dalle ali d'oro

    Translated by Carlo Boselli

    Original title: El fantasma de las alas de oro

    Original language: Castilian Spanish

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1931, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728411360

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PREFAZIONE

    Dalla morte di Blasco Ibàñez, avvenuta a Mentone il 28 gennaio 1928, sino ad oggi, la «Editorial Cosimópolis» di Madrid va lanciando a getto continuo sul mercato librario ispano-americano una quantità di volumi romanzi e novelle — che recano la firma dell’illustre scrittore valenzano, e che poco o nulla aggiungono alla fama dell’autore.

    Tali volumi costituiscono una sorpresa per il pubblico, che ne ignorava l’esistenza; tanto che qualche giornale madrileno si è chiesto scherzosamente se per avventura lo spirito del defunto romanziere non si dilettasse di continuare dall’oltretomba la sua magnifica fecondità. La suddetta casa editrice ha però chiarito l’enigma, spiegando che si tratta di opere pressochè ignote, scritte dal Blasco Ibáñez nei primi anni della sua carriera, fra il 1887 e il 1890; opere forse ripudiate dall’autore, dal momento che non fanno parte della collezione ufficiale delle sue opere complete pubblicate dalla «Editorial Prometeo» di Valencia, la casa editrice da lui fondata ed ora diretta dai suoi figli Sigfrido, Mario e Libertad.

    Ci preme di avvertire che questo romanzo che oggi offriamo al pubblico italiano, Il fantasma dalle ali d’oro, non appartiene alla misteriosa serie dei suaccennati romanzi pressochè ignoti esumati dalla «Editorial Cosmópolis», ma è l’ultimo definitivo autentico romanzo del Blasco Ibáñez, uscito il 10 novembre 1930 dai torchi della «Editorial Prometeo» di Valencia.

    Il fatto apparentemente strano che l’edizione originale spagnola sia apparsa quasi tre anni dopo la morte dell’autore, non è imputabile a supposte raffazzonature da parte degli eredi, poichè, fra l’altre cose, l’autore, morendo ne aveva lasciato il manoscritto compiuto; e trova la sua spiegazione semplicemente in una clausola del contratto che l’autore stesso aveva stipulato con una casa editrice nord-americana, secondo la quale le edizioni spagnole dei suoi tre ultimi romanzi En busca del Gran Kan, El Caballero de la Virgen, El fantasma de las alas de oro, dovevano uscire soltanto un certo numero di mesi dopo le rispettive edizioni inglesi.

    Tale clausola venne naturalmente rispettata dalla «Editorial Prometeo», e ciò spiega come soltanto ora veda la luce questo romanzo, il quale, sebbene cronologicamente ultimo, ha indubbiamente pregi tali per cui non esitiamo a dichiararla superiore ai precedenti romanzi dello stesso genere «cosmopolita» di quest’autore.

    Movendo i suoi personaggi — tutti perfettamente umani e finemente osservati — in un delicato quanto avvincente intreccio erotico-sentimentale, che ha il dono di incatenare sin dalle prime pagine la nostra attenzione, il Blasco Ibáñez ci offre nel contempo un’efficace descrizione del pittoresco ambiente di Montecarlo prima e dopo la grande guerra. Specialmente interessanti certi tipi di macchiette di profughi russi, vittime della guerra e del bolscevismo, che da principi o da gentiluomini di corte si sono ridotti in esilio a fare il cameriere o il conducente d’automobile.

    Un pregio caratteristico di questo libro — che non tarderemo certo a veder filmato — consiste in ciò, che ogni qualvolta un episodio altamente drammatico pare debba finire in tragedia, si risolve invece in una situazione tanto pacifica quanto naturale, senza che perciò ne soffra l’interesse del lettore, grazie sovratutto all’atmosfera di semplice commovente poesia di cui l’autore ha saputo imbevere personaggi e scene.

    Carlo Bosflli .

    PARTE PRIMA

    LA MARCHESA DI ATONILCO

    I.

    LA FAMIGLIA DEL «COLONNELLO» TAVERA.

    Quando Don Arturo Tavera, detto «il Colonnello» da molti dei frequentatori del Casino di Montecarlo, entrò nella sala da pranzo di casa sua, alle tredici suonate, sua moglie Donna Rosa e la figlia Gelsomina, che lo attendevano impazienti a colazione, rimasero sorprese dal tono alto di voce e dagli esagerati gesti con cui il loro caro giustificava il proprio ritardo.

    Abbracciò la consorte, poi la figlia, e infine si diede a buttar in aria ripetutamente il cappello, correndo intorno al tavolo per raggiungerlo e farlo poi volare di nuovo.

    — L’affare è fatto — esclamò festosamente, continuando in quell’esercizio col quale dava sfogo alla propria allegria. — Ho parlato or ora con Espinosa. Si è finalmente deciso a fare la tanto attesa domanda… Siamo felici. Mi rido io di Pierpont Morgan!

    Gelsomina aveva già udito parecchie volte quest’ultima frase, quale riassunto ottimistico di tutti gli affari progettati da suo padre e di tutte le combinazioni di giuoco da lui escogitate per rovinare il Casino di Montecarlo. Egli intendeva dire, con tali parole, che sarebbe diventato più ricco del celebre miliardario degli Stati Unitì, e che tutto il tesoro da questi accumulato durante la sua vita sarebbe stato ben poca cosa in confronto di quanto egli sperava di guadagnare. Il famoso banchiere era già morto, ma Don Arturo insisteva ancòra in quell’esclamazione, che aveva illuminato degli aurei bagliori della Chimera gli anni avventurosi della sua gioventù.

    Gelsomina comprese immediatamente quel che suo padre intendeva di esprimere con quelle incoerenti parole accompagnate dai festosi sollazzi del cappello, impropri in un uomo la cui età si avvicinava ormai al mezzo secolo.

    Quella giovane, timida di carattere e parca di parole, obbediva sempre a suo padre con tacito rispetto, ma senza ammirazione alcuna. Sua madre invece venerava Tavera come uno degli uomini superiori e più incompresi del suo tempo.

    Gelsomina valutava per istinto, in modo più equo, sia i meriti che i difetti di suo padre. Ciò non impediva che Donna Rosa esaltasse a ragione le virtù domestiche del marito e la sua disposizione a mettersi al servizio di qualsiasi persona che avesse visto anche solo due volte, chiamandola immediatamente «caro amico».

    — Tutti riconoscono — soggiungeva la buona signora — che è l’uomo più simpatico del mondo. Non v’è nessuno che lo superi in intelligenza. Le persone che sanno apprezzare il suo valore, passano ore ed ore ascoltandolo a bocca aperta. La sua testa lavora giorno e notte per portar denaro a casa. Peccato che la fortuna lo fugga, per proteggere invece tanti altri che non lo meritano.

    Don Arturo era nato a Cuba da genitori spagnoli, ma non aveva che vaghi ricordi del suo paese natale, da lui abbandonato prima dei vent’anni. Nell’intento di correggerlo da certe avventure giovanili, e di avvezzarlo a vivere per proprio conto, suo padre gli aveva procurato un modesto impiego all’Avana, poco prima che l’isola si rendesse indipendente. Quando la sua famiglia fece ritorno in Ispagna, il giovane Tavera si trasferì in una delle repubbliche sud-americane più vicine alle Antille.

    — Io sono del Nuovo Mondo — diceva con teatrale baldanza, ricordando certe letture storiche. — Debbo avere nelle mie vene molto sangue degli antichi conquistatori d’America.

    Le sue «conquiste» si limitarono a figurare in due delle frequenti e periodiche rivoluzioni cui andava soggetto il paese che lo ospitava. Tale doppia campagna gli valse il titolo di «Colonnello», che non significava gran che in un paese dove i suoi amici dell’epoca, bianchi, mulatti o francamente negri, erano generali.

    Siffatta ingratitudine e l’aver corso pericolo un giorno di esser fucilato, lo indussero a metter fine alla vita militare. L’amore regolò e acquetò la sua esistenza allorchè conobbe Rosita, che divenne poi sua consorte, una signorina nativa di quello stesso paese, che aveva una gran passione per recitar versi con accompagnamento di pianoforte, e per cantar romanze sentimentali.

    Donna Rosa, dopo trascorsi vent’anni, vedeva ancòra Tavera come nei primi tempi della loro conoscenza.

    — Dovrai convenire — diceva a sua figlia — che papà è un bell’uomo. Nessuno veste più elegantemente di lui. Peccato che la nostra attuale situazione non gli permetta di fare tutto lo chic che merita. Se egli volesse, quante donne! Fortuna che Arturo è stato sempre un uomo serio e fedele.

    Gelsomina, non ostante il cieco ottimismo che ogni fanciulla sente per il proprio padre, non sapeva vedere in lui quella virile maestà tanto esaltata dalla buona signora.

    Senza dubbio egli doveva esser stato di bell’aspetto in quel tempo che Donna Rosa chiamava «gli anni poetici della mia vita»; ma ora la giovane lo giudicava perfino alquanto invecchiato, con un aspetto decadente, piuttosto improprio alla sua età. Appariva agile e vigoroso, dotato-d’uno stomaco di struzzo, che lo faceva vivere in perpetuo appetito; ma aveva intorno agli occhi come un’aureola di rughe, e i baffi ritti e impomatati dissimulavano altre rughe più profonde intorno alla bocca.

    — Sono le emozioni — diceva la sua ammiratrice coniugale, — i dispiaceri che ha sofferto nella vita, per colpa della cattiva sorte.

    Nei primi anni di matrimonio egli s’era considerato ricco, relativamente al paese in cui viveva; egli era infatti come un magnate in quella piccola città cinta da pianure e ricca di greggi, dov’era nata sua moglie; un capitalista al modo patriarcale, possessore di molte terre e di molti animali, ma scarso di denaro.

    Era un uomo moderno, uno «yankee». Lo spirito d’iniziativa e l’audacia lo facevano degno d’altri paesi più grandi e moderni. E a furia di ripetere tali affermazioni, riuscì a ottenere che sua moglie firmasse con lui la vendita di molti campi e di non pochi armenti, eredità dei defunti genitori.

    Tavera pensava ogni sei mesi a qualche affare di sua invenzione, dando anticipatamente per certo l’enorme guadagno che gli avrebbe procurato.

    — Mi rido di Pierpont Morgan — diceva a sua moglie, dopo aver sommato i milioni che il nuovo affare avrebbe potuto produrre.

    E mentre rideva continuamente per esprimere la sua futura superiorità sul gran re del denaro, andava perdendo a poco a poco gran parte dei suoi beni.

    Le combinazioni finanziarie e le invenzioni dell’antico «Colonnello» avevano indotto lui e la famiglia a vivere successivamente a Nuova Orléans e a Nuova York, spingendolo poi a trasferirsi a Londra e per ultimo a Parigi.

    — In Europa mi ascoltano meglio — diceva a sua moglie. — Negli Stati Uniti vi sono troppi uomini uguali a me.

    Finalmente, quando più non rimaneva loro che una quarta parte dell’antica fortuna, e s’erano ridotti a vivere stentatamente delle rendite che giungevano da laggiù, quando non v’erano rivoluzioni, fu dato a Tavera di scoprire improvvisamente la vera finalità della propria vita.

    Egli era nato per essere un giocatore celebre. Il suo bernoccolo per quell’arte era spuntato quando si trovava ancora a Cuba, fin dalla sua prima giovinezza; suo padre, però, uomo all’antica, aveva interpretato come viziose manifestazioni quelle che realmente erano le scintille precorritrici del suo ingegno.

    Gelsomina cominciò ad uscire dal limbo dell’infanzia quando il padre suo iniziava la carriera di «giocatore scientifico». Dopo aver soggiornato su alcune spiagge francesi e belghe dotate di casini celebri, Tavera s’insediò con la moglie e l’unica figliola a Montecarlo, rimanendo per sempre in tale città, all’ombra del famoso palazzo multicolore, dedicato al giuoco.

    Tavera trascorreva il giorno e la notte al Casino, e la vita delle due donne si adattava alle uscite ed alle entrate del capo di casa. Il Casino serviva d’orologio a quella piccola famiglia.

    — Questo che dici, lo faremo — rispondeva Donna Rosa a qualche domanda di sua figlia — quando papà tornerà dal «laboratorio».

    Tale ultima espressione era un gaio eufemismo della madre, dato che essa considerava il giuoco come un’altissima scienza, della quale il suo ammirato consorte era il massimo dotto.

    Nelle prime ore del mattino, quando non erano peranco aperte le sale del Casino, oppure nelle alte ore notturne, allorchè le sale erano già chiuse, Tavera, con una piccola roulette collocata sulla tavola della sala da pranzo, faceva studi pratici, annotandone poi i risultati su foglietti che andava collezionando e riunendo in quaderni.

    — Quanto ha scritto Arturo! Che ridda di numeri!…

    Tale ammirazione da parte della moglie era condivisa da altri giocatori del Casino, allorchè vedevano il «Colonnello», con una matita nella destra, annotare i risultati di ogni giocata.

    Alcuni maniaci del gioco lo rispettavano come un mirabile erudito. La sua casa era l’archivio della storia della roulette negli ultimi dieci anni. Poteva dire, senza errare, il colore e il numero che erano usciti in un dato giorno di un dato anno, ed a quale ora, con un solo probabile sbaglio di pochi minuti. E quei tanto tenaci sforzi di osservazione, uniti alle induzioni di «giocatore scientifico» da lui tratte nella propria sala da pranzo, non servivano che a mantenerlo in una povertà dissimulata, che pareva venisse unicamente addolcita dalle mediocri rimesse di denaro provenienti dall’America. Donna Rosa aveva ragione di dire che la fortuna era ingrata e crudele col «suo grand’uomo».

    In realtà, Tavera non era un giocatore; una piuttosto un visionario che si dedicava al giuoco. Invece di protestare contro la sorte, come molti altri, egli la difendeva, giustificandone l’incostanza e l’ingratitudine.

    — Ho perduto, perchè non ho giocato bene — diceva. — Mancava un piccolo particolare alla mia combinazione… ma ora l’ho in mio potere.

    Gelsomina ascoltava ogni settimana quelle rettifiche paterne, seguite da una nuova scoperta che gli ispirava rinnovati entusiasmi. Molte volte, all’ inizio della sua adolescenza, si era svegliata nel cuor della notte udendo rincasar suo padre — l’ultimo che usciva dal Casino alle due del mattino — ascoltandone poi la sommessa conversazione con la mamma, che pure si svegliava in quel momento. Il «giocatore scientifico», strisciando fra le lenzuola, aveva bisogno di confidare la recente scoperta alla sua entusiasta compagna, esprimendosi con una fede da inventore.

    — Rosita, vita mia!… Ora sì che ho trovato il vero segreto. È la giocata sicura. Domani, appena aprono il Casino, la provo, è poi mi rido io di…

    Mentre andava esponendo con ogni minuzia, il prossimo trionfo, l’assopita consorte faceva grandi sforzi, per ammirare ancor una volta il suo grand’uomo, e quella conferenza «scientifica» finiva quasi sempre con baci e altre espansioni, che costringevano la giovinetta a nascondere la testa sotto la rimboccatura delle lenzuola, desiderosa di riprender sonno.

    Esaminando i propri sentimenti familiari, Gelsomina riconosceva di nutrire, in fondo, maggior predilezione per suo padre. Un oscuro istinto l’avvertiva delsecondo posto che essa occupava nell’affettività materna.

    Non che la signora Tavera mostrasse scarso affetto verso sua figlia. Allorchè questa nacque, le aveva imposto lo strano nome di Gelsomina, forse per la parentela floreale col proprio nome di Rosa, o per averlo trovato in qualcuna delle poesie o delle romanze predilette della sua gioventù. La vesti come una bambola di lusso nei primi anni, matrimoniali di abbondanza e di sciupìo, spendendo tanto per lei quanto per sè. Era arrivata perfino a spalmarle il viso di creme e di belletti portati da Parigi, all’età in cui le altre bambine giocano quasi carponi sotto la sorveglianza d’una vecchia domestica. Per non condividere il proprio amore materno con un altro rampollo, aveva giurato di limitare la propria fecondità a quell’unica figlia. Ma al disopra di quest’amore materno si elevava l’entusiasmo che le ispirava il marito, entusiasmo uguale, dopo vent’anni, a quello del periodo di fidanzamento.

    Molti frequentatori del Casino s’ingannavano vedendo entrare quella donna di quarant’anni, vestita come quelle che non ne avevano ancor venti, e col viso scandalosamente imbellettato. Era stata, in gioventù, una creola pallida, con gli occhi neri e penetranti, la chioma color del giavazzo con sfumature azzurrognole. Ora aveva le braccia, il collo e la fronte d’un bianco alabastrino, le gote d’un rosso sgargiante, due ogive di carbone intorno agli occhi, e la capigliatura d’un biondo oro così inverosimile da sembrar fatta di metallo filato.

    Gelsomina, fresca per natura e con la semplicità de’suoi pochi anni, ammirava sorridendo l’energia di sua madre, che camminava su tacchi smisuratamente alti, rimanendo tutto il giorno sotto l’oppressione del busto-corazza, che le conferiva una snellezza giovanile. La buona signora sopportava tutto ciò per il suo Arturo. Non una briciola di peccaminoso sfruttamento di tanta ornamentazione del proprio corpo veniva giammai a ottenebrare la fedeltà ammirativa di Donna Rosa. Ella viveva per il suo «giocatore scientifico». In pieno pomeriggio non poteva frenare la propria impazienza, e cercava un pretesto per liberarsi di sua figlia.

    — Ho bisogno di vedere che cosa fa Arturo. Debbo dirgli una cosa importante.

    E poichè Gelsomina non aveva ancòra l’età per essere ammessa nelle sale da giuoco, e nemmeno poteva convenire al suo prestigio di fanciulla nubile farsi vedere al Casino, la madre le magnificava i vantaggi di rimanersene sola in casa a leggere qualcuno dei romanzi che papà le portava, od a contemplare dal balcone della sala da pranzo la distesa azzurrina del Mediterraneo. Altre volte cercava di persuaderla ad andare in cerca di alcune piccole amiche che aveva in città, per passeggiare insieme con loro sulla piazza del Casino o nei giardini attigui. E Donna Rosa, con la stessa agitata premura con la quale sarebbe accorsa a un convegno d’amore, si precipitava verso le sale da giuoco, più bionda e più dipinta del solito, equilibrandosi sui tacchi alti ed aguzzi, e inducendo in deplorevoli equivoci molti stranieri che cercavano di parlarle e che essa fuggiva guardandoli iraconda soltanto con un occhio, l’unico che lasciasse visibile il suo altero profilo di Medea irritata.

    Reggeva in piedi ore ed ore dietro il «Colonnello», seguendone i lenti giuochi, intercalati di numerosi appunti.

    — L’uso di metter posta a tutte le giocate — diceva Tavera — è da ignoranti che aspirano a perdere il denaro. Colui che veramente sa, gioca soltanto quando indovina che sta per guadagnare.

    Così si esprimeva il «Colonnello» ogni qualvolta, scarseggiando il denaro nella sua dimora, egli entrava al Casino portando seco quale «ferro del mestiere», come soleva dire, un biglietto di cento franchi. Le poche volte che riceveva denaro dall’America, le sue teorie cambiavano radicalmente.

    — Per guadagnare, è necessario un vero capitale. Il denaro chiama il denaro. Solo noi che giochiamo forte possiamo fare assegnamento su guadagni sicuri.

    In realtà, la prima teoria era quella che proclamava più sovente, facendo numeri su numeri a un tavolo del Casino per arrischiare una moneta ogni ora, temendo, non ostante tutte le combinazioni della sua scienza, che l’operazione gli andasse a male. Dopo aver dedicato al lavoro una mattinata, un pomeriggio e gran parte della serata, si trovava ad aver guadagnato dieci «luigi», com’egli diceva, dieci dischetti rossi, che non erano più di duecento franchi; e se Donna Rosa era vicina a lui, con la gentil persona agghindata e con la faccia dipinta, nel momento di quel bilancio finale, ella stessa contava con orgoglio i pezzi che costituivano la vincita, andando poi a cambiarli allo sportello della cassa. Un giorno o l’altro avrebbero potuto esser milioni. Comunque, quei piccoli guadagni aumentavano il benessere della famiglia, rappresentavano il superfluo, il lusso della mamma e della figlia, completando i redditi

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