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Fiori di carta
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E-book285 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Lui è un giovane compositore, lei una pianista che sta per diplomarsi al conservatorio. Il destino che li fa incontrare ha la forma della musica. L'intreccio delle loro vite è surreale e i caratteri diversi lo rendono apparentemente impossibile, ma il legame che si crea è forte, forse più di quanto vorrebbero, di certo molto più forte di quanto potessero inizialmente pensare. Non sarà facile passare del tempo insieme, ma quella stessa musica che li ha fatti incontrare per caso, combatterà per farli restare vicini, lottando contro avversità che assumono forme diverse, a volte astratte, a volte fisiche, sempre violente.
Ma il sogno resta lo stesso: restare insieme, non perdersi mai.
LinguaItaliano
Data di uscita23 mar 2016
ISBN9788892579927
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    Anteprima del libro

    Fiori di carta - Marco Comino

    pause.

    SETTEMBRE 2012

    1

    Nessuno mi aveva mai detto che sarebbe stato facile, né io lo avevo mai pensato, tuttavia i tentativi di quell'ultimo periodo furono sconfortanti. Quella mattina avevo fatto le cose per bene, come sempre: avevo chiuso la porta a chiave anche se ero solo in casa (i miei genitori e Aurora erano usciti per la solita colazione al bar della domenica) e abbassato la tapparella della mia stanza, così da creare la situazione migliore per trovare quella concentrazione che, negli ultimi anni, con tanta facilità mi sfuggiva.

    Non era sempre stato così: da bambino riuscivo a estraniarmi dal mondo senza alcuna difficoltà, mi bastavano un foglio e un pennarello. O un libro. Riuscivo a leggere anche in macchina, mentre i miei genitori ascoltavano musica.

    Perché non ti guardi un po' intorno, invece di leggere?

    Non rispondevo nemmeno, le voci mi sfioravano appena. Ora non ci riuscivo più. Se dopo pranzo, seduto sulla mia poltrona preferita, provavo a immergermi in un romanzo, irrimediabilmente finivo con l'ascoltare i discorsi di mio padre al telefono, o i rumori ti stoviglie strofinate e messe ad asciugare da mia madre.

    Ero in camera mia, in attesa di un'ispirazione che sembrava non avere nessuna intenzione di passare dalle mie parti. Ero seduto da quasi mezz'ora e non avevo concluso nulla. Fissai lo schermo del computer portatile, aperto alla mia destra. Ogni tanto pensavo di aver trovato un buon modo per cominciare, poi quell'idea mi sfuggiva prima di darmi il tempo di afferrarla.

    Non ci riesco, pensai.

    Se avessi utilizzato carta e penna invece del computer, il piccolo cestino che tenevo nascosto in un angolo buio sotto lo scrittoio sarebbe stato colmo di fogli stropicciati dalla frustrazione e gettati con rabbia, e io sarei diventato il protagonista della più scontata scena in cui lo scrittore è preda del blocco creativo.

    Ma io non ero uno scrittore.

    Be', il risultato non cambiava di molto: lo schermo rimaneva desolato e bianco, nessun segno su quelle cinque righe parallele che restavano lì, come ad aspettarmi.

    Non ci riesco, mi ripetei.

    Eppure il diploma in composizione dimenticato in fondo al cassetto del comodino affermava il contrario. Annunciava orgoglioso, con i suoi caratteri gotici stampati su finta pergamena, che avevo ottenuto il massimo dei voti; mi investiva del titolo di compositore!

    Bella roba. Fosse bastato quel foglio...

    Non che non avessi mai creato nulla, anzi, per le prove d'esame che avevo sostenuto al conservatorio mi ero cimentato in composizioni di ogni genere, dalla fuga al notturno, e il giudizio era sempre stato ottimo; solo che nulla mi rendeva completamente soddisfatto, c'era sempre qualcosa che avrei voluto cambiare. Ero alla ricerca della composizione perfetta. Perfetta per me intendo, ovvio: nessun compositore ha mai messo d'accordo l'intera schiera dei critici (forse qualcuno ci è andato vicino, ma si devono tirare in ballo nomi del calibro di Mozart, Beethoven e Chopin), ma io volevo arrivare a un risultato che mi permettesse di dire: «Ce l'ho fatta!».

    Seduto davanti al pianoforte provavo e riprovavo, ma niente; quella mattina, come tante altre mattine precedenti, sembrava non essere in grado di aiutarmi.

    Forse il vero problema era che non avevo trovato nessuna ispirazione. La mia mania di raggiungere la perfezione era dettata solo dalla testardaggine e costruita soltanto sulla base di quelle migliaia di regole che conoscevo così bene. Solo che nella musica essere testardi serve a poco e le regole sono fondamentali, sì, ma insufficienti. Serve quel qualcosa in più, quel qualcosa che in molti chiamano intuizione e che per me è quasi una forma di magia.

    Lo scatto della porta d'ingresso mi informò che i miei genitori e Aurora erano rientrati. Guardai l'ora sul display del cellulare: non erano ancora le nove e mezza, avevano fatto più in fretta del solito.

    «Siamo a casa!»

    «Ok...»

    L'ultima residua possibilità di concentrazione si era appena dileguata; quella mattina non avrei concluso nulla, era inutile continuare ad arrovellarmi. Chiusi il pianoforte e spensi il computer. Il sospiro con il quale accompagnai quei gesti pareva quello di un ottantenne, uno di quelli che si svegliavano all'alba già sconsolati al pensiero della fatica che avrebbero dovuto sopportare per sopravvivere al tedio di una giornata identica alla precedente.

    Un rumore secco di nocche su legno mi ricordò che la mia porta era ancora chiusa a chiave. Mi alzai stiracchiandomi e aprii a mia sorella prima di lasciarmi cadere sul letto.

    Aurora entrò sorridendo, accompagnata dalla solita esuberanza.

    «Ciao!»

    Si sedette sul bordo del materasso. Un sottile velo di sudore le bagnava la fronte e le inumidiva i capelli, nonostante fosse vestita in modo leggero. Sebbene l'ora più calda della giornata fosse ancora lontana, fuori la temperatura era già alta.

    «Ciao.»

    «Che fai?»

    «Niente... Suonavo un po'.»

    «Scrivevi?»

    «Ci provavo.»

    Di sicuro la mia faccia era sufficiente per esprimere quello che non dissi a parole. Aurora sorrise agitando mollemente una mano e come a voler minimizzare, disse: «Ma sì, ci riuscirai.»

    Io non risposi e lei non aggiunse altro. Fece il giro del letto, si sdraiò accanto a me e prese il cellulare dalla tasca. Quando non doveva studiare veniva spesso in camera mia. A volte non parlavamo per ore, lei scriveva alle sue amiche, io provavo inutilmente a leggere qualche pagina del libro di turno, fingendo di volere restare da solo e dicendole di andarsene, ma godendo in segreto della sua muta compagnia. In realtà sapeva benissimo anche lei che mi piaceva averla lì. Mia sorella era sempre in grado di interpretare il mio stato d'animo, molto meglio di chiunque altro, e sapeva quando volevo davvero stare da solo, cosa che capitava abbastanza spesso: ero fatto così.

    Altre volte invece facevamo lunghe chiacchierate senza capo né coda. Si passava da un argomento all'altro e alla fine nessuno dei due sapeva più da quale eravamo partiti. Parlavamo di cose che, discusse con qualsiasi altra persona, non sarebbero state di alcun interesse, ma a noi piacevano già solo per il fatto che ci davano la possibilità di stare insieme.

    Credo di avere desiderato una sorella dal momento in cui sono nato, di sicuro da quando ho memoria. Ricordo di averne chiesta una come regalo per il mio quinto compleanno e rimasi deluso quando non la ricevetti e i miei genitori mi spiegarono che ci voleva un po' per costruirne una.

    Costruirla? Quel termine mi aveva lasciato perplesso, per un attimo ci avevo riflettuto su, ma non avevo fatto domande ai miei genitori e loro non avevano aggiunto altro.

    In ogni caso, mi ero rassegnato a un'attesa (lunga non sapevo quanto) e ogni giorno cercavo di immaginarmi nel ruolo di fratello. Intorno ad agosto mia madre mi aveva detto che finalmente mia sorella era quasi pronta, o meglio... Qulacuno lo era: non era certo che fosse una femmina. Rimasi un po' deluso ma qualche giorno dopo, dopo avere avuto il tempo di riflettere, chiesi con tono serio a mia madre: «Ma se poi è un maschio, gli vogliamo bene lo stesso?»

    La sua risata mi aveva offeso, stavamo parlando di una cosa seria! A essere sincero non ricordo l'episodio, lo riporto come mi è stato riferito da lei, ma adesso, ogni volta che ci penso, non posso che ridere anche io.

    Il problema comunque non si era posto: poco più di un mese dopo, avevo osservato per la prima volta mia sorella e ora, vedendola seduta vicino a me, non potei fare a meno di pensare a quanto fosse cresciuta in fretta.

    «Com'è andata ieri sera?» le chiesi, riferendomi alla festa di compleanno della sua migliore amica.

    «Bene. Anzi, benissimo. Che ridere; Mela si è quasi messa a piangere quando tutti gli altri sono sbucati fuori dal nulla. Non si aspettava proprio una sorpresa simile. E poi il mio regalo le è piaciuto un sacco. E, cosa più importante, la pizza era squisita! Devi mangiarla anche tu, prima o poi ti porto a mangiare lì. E poi a un certo punto Giulia ha rovesciato il bicchiere...»

    Sorrisi.

    «...e abbiamo riso come sceme.»

    In realtà non avevo sorriso per l'aneddoto del bicchiere, ma perché ogni volta che le facevo una domanda Aurora partiva in quarta a rispondere ed era quasi impossibile fermarla. Al contrario di me. Mi si poteva parlare per mezz'ora e ottenere come risposta un laconico mugugno d'assenso.

    Con il libro chiuso in mano, l’indice in mezzo alle pagine per tenere il segno, ascoltai il resoconto della serata ancora per un po', poi Aurora capì che non prestavo molta attenzione alle sue parole. Si alzò allegra da letto, dicendomi di volere preparare una torta per il pranzo, poi uscì dalla stanza richiudendosi la porta alle spalle.

    Riaprii il libro, ma ad ogni frase che leggevo la mente continuava a divagare a proprio piacere: Aurora, pianoforte, caldo, ancora pianoforte. Riposi il romanzo di John Grisham sul comodino, poi mi alzai.

    Considerata la mia attuale incapacità di concentrazione, decisi di andare a fare un giro. Attraversando il corridoio vidi mia madre in cucina lottare con un paio di cipolle. Scorgendo i suoi occhi non impiegai molto per capire chi avrebbe avuto la peggio.

    «Ma’, io esco.»

    «Dove vai?»

    «Non lo so. Faccio due passi.»

    Si sciacquò le mani e si girò a guardarmi, asciugandosi in un strofinaccio.

    «Scusa, non potevi venire a fare colazione con noi?»

    «La prossima domenica.»

    «Sì, certo...»

    Il suo sguardo esprimeva tutto il suo scetticismo, era evidente che non credesse a quanto gli avevo appena detto. Come biasimarla? Sorrisi, pensando che non ci credevo nemmeno io.

    Nel momento in cui misi piede fuori dal portoncino del condominio mi accolse un sole inclemente. Il calore inaspettato sulla pelle fu così intenso da procurarmi un fastidioso formicolio. I raggi bruciavano l’asfalto facendo tremolare l’aria all'orizzonte e scomponendo le immagini dello sfondo in piccole onde che si muovevano rapide. Da tre giorni l'estate si stava esibendo nel suo personale canto del cigno, raggiungendo temperature record prima di andare in letargo per nove mesi. Sembrava volere manifestare tutta la propria forza prima di cedere il passo all'autunno, già in ritardo di un paio di settimane sulla tabella di marcia.

    Chiusi gli occhi, accecato, e li riaprii lentamente per abituarmi alla luce intensa, poi presi a camminare lungo via Roma, riparandomi all'ombra di una siepe poco più alta di me.

    Nonostante la pigrizia che mi contraddistingueva, mi piaceva uscire a passeggiare, lo trovavo un buon modo per rilassarmi, impegnato solamente nel processo di mettere un piede di fronte all'altro, meccanicamente. Un lettore MP3 in tasca era tutto quello che mi serviva, non avevo bisogno di altro al di fuori della musica che conteneva e che mi accompagnava lungo i percorsi alla ricerca di tranquillità.

    Durante le camminate avevo il tempo di pensare a tutto quello che mi passava per la testa senza essere disturbato. C'erano volte in cui cercavo di non pensare a niente, ma poi una persona per strada, la forma di una nuvola, la frase di una canzone gridata dagli auricolari, mi portavano alla mente decine di immagini, accendevano mille riflessioni. Mi interrogavo su qualunque cosa, assetato di conoscenza fin da piccolo.

    Quella mattina, neanche a dirlo, tornavo continuamente alle difficoltà che incontravo nella composizione. Mi guardavo intorno, cercavo ispirazione in ogni angolo, ma sapevo che non l'avrei trovata. Le idee nascono quando non le si cerca, come succede con qualsiasi altra cosa: apri un cassetto e toh! Ecco dov'era, l'ho cercato per secoli! E io stavo facendo esattamente ciò che avrei dovuto evitare. La mia era diventata una mania, un'ossessione. Cercai di convincermi del contrario, mi dissi senza troppa convinzione che da lì a pochi giorni mi sarei sbloccato, avrei scovato la melodia che cercavo.

    Ma chi vuoi prendere in giro? Non ci riuscirai, mi rispose la voce dentro di me con cui ogni tanto parlavo. La scacciai agitando la mano, come si scaccia un insetto fastidioso che vola intorno alla testa, ma in cuor mio sapevo che aveva ragione. Tutte le volte che ci troviamo a discutere, alla fine è lei a bisbigliarmi nell'orecchio, soddisfatta: «Te l'avevo detto!»

    Dannata razionalità.

    Svoltai in una stretta via che portava al giardino pubblico, abbandonando il riparo offerto dalla siepe, e all'improvviso ricordai perché detestavo il caldo. Nonostante camminassi da pochi minuti il sudore mi imperlava la fronte, scivolando ogni tanto più in basso a bruciarmi gli occhi. La maglietta di cotone cominciava già ad attaccarsi alla pelle e l'assenza di aria contribuiva non poco ad aumentare il malessere che provavo. Sentii la testa girare e mi appoggiai alla bassa ringhiera che delimitava il giardino, aspettando paziente che il mondo tornasse al suo posto e, soprattutto, immobile.

    Appena mi sentii sufficientemente fermo sulle gambe mi avvicinai alla fontana all'angolo, dove potei dissetarmi e bagnarmi nuca e polsi con l'acqua fredda, poi approfittai della panchina in legno dalla quale le mamme osservavano i figlioletti giocare su scivoli e altalene per riposarmi un po'. Un grande pioppo le stendeva addosso una benvenuta coperta d'ombra.

    Dalla mia postazione osservai il piccolo parco giochi deserto. A quell'ora, forse per via del caldo o del pranzo imminente, non c'era nessuno. Un cavallo a dondolo abbandonato sembrava guardarsi intorno. Restava lì, in equilibrio sulla sua molla, nell'attesa di un cavaliere da condurre alla gloria, di un indiano da trasportare più veloce del vento attraverso verdi pianure o di uno sceriffo con cui inseguire pericolosi banditi.

    Quante storie doveva conoscere, quante avventure. Un po' lo invidiavo. Per un attimo mi sentii uno stupido. Come potevo essere geloso di un cavallo di legno? Eppure continuai ad osservarlo, lavorando di fantasia, e nella canicola estiva non vedevo fuoco nei suoi occhi finti: in quei buchi circolari intagliati nel legno scorgevo tristezza. Sul corpo portava i segni di lunghe battaglie, svastiche incise con coltellini svizzeri, frasi d'amore, parolacce e scarabocchi in pennarello nero.

    Il trillo acuto di un campanello mi distrasse dai miei pensieri. Mi voltai in tempo per vedere l'anziana signora Benelli passarmi alle spalle a bordo della sua Graziella verde, salutando con la mano alzata. Le risposi con un cenno della testa e solo allora mi resi conto che l'Ipod doveva essersi scaricato: non avrei mai sentito il campanello della bici con la musica alta.

    Mi tolsi gli auricolari dalle orecchie lasciandoli penzolare oltre il colletto della maglietta e valutai di essermi ripreso abbastanza per poter continuare la mia passeggiata. Mi rinfrescai ancora una volta alla fontana, poi mi rimisi in cammino in direzione di via Montale.

    Avevo intenzione di raggiungere il Quartiere dei Poeti prima di tornare indietro. Era la zona di Beranio che preferivo, con le sue villette a schiera, i condomini eleganti e i piccoli parchi ombreggiati che punteggiavano l'area. Non si chiamava davvero Quartiere dei Poeti, ma da quando era stato battezzato in quel modo a causa dei personaggi cui erano intitolate le vie che lo attraversavano, nessuno utilizzava più il vecchio nome, molti – io compreso – nemmeno lo conoscevano.

    Uscito da via Montale sbucai in via Alighieri, la strada principale dalla quale si diramavano vicoli e vie più strette, e la percorsi per trecento metri fino a raggiungere piazza Leopardi. Lì, una fievole brezza muoveva le foglie degli alberi che circondavano l'area e decisi di sedermi di nuovo per qualche minuto per godere del raro momento di frescura.

    La zona era affollata, a differenza del deserto in cui avevo sostato meno di dieci minuti prima. Un donna camminava poco distante strattonando con il guinzaglio un cane di grossa taglia, un vecchio passeggiava con la faccia nascosta da un giornale, senza guardare davanti a sé, come se ormai conoscesse il percorso a memoria.

    Rimasi fermo a osservare per un po' il via vai di gente, cercando di immaginare le vite di chi mi passava davanti, come avevo fatto con il cavallo a dondolo. Ogni tanto pensavo che se solo avessi cercato di vivere più storie sulla mia pelle, non avrei passato tanto tempo a immaginarmi nei panni di qualcun altro. Certo, nessuno mi imponeva di restare isolato, quella era una scelta soltanto mia. Non facevo nulla per uscire dal mondo che mi ero costruito intorno con il passare del tempo. E a dirla tutta, dentro quel mondo non ci stavo nemmeno male, anzi, stavo benissimo, solo che a volte mi capitava di chiedermi: e se provassi a vivere come fanno tutti? Sbagliavo, forse? Era vittimismo il mio, o semplice incapacità di accontentarmi di quello che avevo? Non lo sapevo, non riuscivo a focalizzare la mia situazione, di una sola cosa ero certo: nei silenzi in cui mi isolavo, nelle mie solitudini, negli spazi dei miei pensieri avevo trovato una tranquillità soltanto apparente, una calma esteriore che dentro era costante irrequietudine, un sentimento che non sapevo descrivere a parole, ma che velava di insoddisfazione anche le giornate migliori.

    Guardai l'ora sullo schermo del cellulare.

    Basta pensare, è ora di tornare a casa.

    Mi alzai dalla panchina in modo brusco, battendomi le mani sulle cosce come per incitarmi. Un piccione spaventato spiccò il volo per andare a posarsi poco distante.

    Lasciai la piazza riprendendo al contrario via Alighieri, sempre camminando all'ombra degli alberi che la costeggiavano. La brezza era nuovamente caduta e il caldo era tornato a farsi soffocante. Invece di riprendere via Montale, decisi di seguire un percorso diverso e mi trovai in via Carducci, una piccola strada senza uscita affiancata da eleganti villette.

    Fu allora che lo sentii.

    Dapprima un suono ovattato, poi sempre più forte man mano che procedevo verso una delle abitazioni finali. Quando giunsi al termine della via e mi trovai di fronte all'ultima villetta, il suono si era trasformato in una melodia lenta e dolce.

    La riconobbi all'istante! Si trattava di una delle mie opere preferite in assoluto: il notturno in Do# minore di Chopin.

    Era stato grazie a quella composizione che quindici anni prima mi ero avvicinato alla musica classica. Ero un bambino quando l'avevo sentita per la prima volta, suonata da un vecchio stereo a casa di un mio compagno delle elementari. Stefano non aveva capito perché mi fossi fermato di colpo, come un gatto quando ode il cinguettio di un passero. Forse me lo aveva anche chiesto, non ricordo, ma non gli avevo dato retta. Ai suoi occhi dovevo essere sembrato stordito, come colto da una rivelazione improvvisa. In effetti era andata davvero così. Una volta rientrato a casa avevo detto a mio padre che volevo studiare pianoforte. Non mi aveva preso sul serio, perlomeno all'inizio, ma poi era stato costretto a cedere di fronte alla mia insistenza. Ora è felice di averlo fatto.

    Davanti a quella finestra, comunque, non fu tanto la melodia in sé a farmi fermare di colpo, quanto la sua esecuzione straordinaria. Le note mi raggiungevano con una leggerezza impossibile, come se mi fossero soffiate addosso e non provenissero dal battere dei martelletti sulle corde. Com'era possibile suonare in quella maniera? Rimasi affascinato; nemmeno durante gli anni che avevo passato in conservatorio mi era mai capitato si sentire un tocco simile.

    Mi sedetti sul bordo del basso marciapiede, con gli occhi incollati alla finestra aperta della villa. Nonostante la maglietta incollata alla schiena dal sudore, non badavo al caldo, così come non percepivo nient'altro. Rimasi semplicemente fermo ad ascoltare, in una sorta di trance, come mi era capitato tanti anni prima da Stefano. Come poteva una semplice melodia cogliere così

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