Cinquanta e cinquanta: Storia di un'amicizia, di come mi sono perduto e ritrovato
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Info su questo ebook
Una sera d’inverno la sua vita cambia.
Quando torna a casa non trova i genitori, ma un’auto della polizia. I suoi hanno avuto uno scontro feroce, la mamma è in ospedale e suo padre è stato arrestato.
La famiglia deraglia e Luigi diventa un ragazzo difficile, di quelli che cerchi di evitare quando incontri per strada.
È in questo periodo però che conosce Daniel, un coetaneo strano e solitario che vive in una roulotte con una sorellina con la sindrome di Down. Inizia un’amicizia limpida e sincera fatta di giri in bici, chiacchiere davanti ad una coca e sere stellate.
Nonostante i duri colpi che la vita gli riserva, è proprio grazie a questo incontro che Luigi potrà forse salvarsi da un futuro di solitudine e di marginalità a cui pareva destinato.
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Anteprima del libro
Cinquanta e cinquanta - David De Vallier
David De Vallier
Cinquanta e cinquanta
Storia di un’amicizia, di come mi sono perduto e ritrovato
ISBN: 9791222457741
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
https://writeapp.io
Informazioni
A tutti i nostri lettori ricordiamo, a scanso di equivoci, che i fatti
narrati in questo libro e i personaggi descritti che ne vivono la storia, sono solo frutto della fantasia dell’autore.
Illustrazione di copertina di Massimo Pegoraro
Proprietà letteraria riservata
2023 © Piazza Editore
via Chiesa, 6 - 31057 Silea (TV)
Tel. 0422.1781409
www.piazzaeditore.it - info@piazzaeditore.it
e-mail dell’autore: de_vallier@yahoo.it
Dedica
Nondimanco, perché il nostro libero
arbitrio non sia spento, giudico potere
esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora
ella ne lasci governare l’altra metà,
o poco meno, a noi.
Niccolò Machiavelli, Il principe
Conegliano, 28 giugno 2019, ore 15.00 circa
Ho deciso che dovevo arrivarci in bici all’esame, con la Bianchi da corsa, quella di Pantani che ho comprato due anni fa dopo aver messo via i soldi per una vita. Il suo colore verdeacqua e giallo stona un po’ con il pantalone elegante blu e la camicetta bianca a maniche corte, ma non importa. L’ho caricata sul regionale a Lancenigo e ora sono sceso a Conegliano.
Stradona alberata e traffico minaccioso, ricordo la prima impressione che ho avuto di questa città quando sono uscito per la prima volta dalla stazione cinque anni fa, ma non la riconosco più, tutto è familiare ora, quotidiano. Anche se siamo più vicini ai colli, l’estate qui è afosa come nella bassa pianura, pedalo verso il centro e la scalinata degli Alpini, svolto a sinistra e vado per via Cavour chiusa dai palazzi e dai porticati bui, guadagno un po’ di ombra e rallento, ma dopo qualche minuto sono già fuori, il sole picchia, sento il sudore bagnato sulla schiena sotto lo zainetto, attraverso i viali alberati dell’ospedale e poi via, sono quasi arrivato.
Ripasso mentalmente lo schema del progetto di riconversione dell’area commerciale dismessa di Villorba in parco naturale e orto pubblico integrato e biologico. Nel portatile ho tutta la presentazione fatta bene e sono tranquillo.
Mi sto per diplomare, devo fare il colloquio orale. Ho passato cinque anni qui al convitto dell’istituto agrario, me lo sono potuto permettere a forza di borse di studio e assegni vari che lo Stato e la Regione danno a quelli un po’ come me. Ho conosciuto molte persone, alcune sono diventate buoni amici, una è la mia ragazza, Irene.
Oggi però, per l’esame, non ho voluto nessuno, né Irene né amici né parenti: è una cosa solo mia, anche se la mamma è dispiaciuta e non sarebbe voluta mancare.
Tutti sanno perché questo giorno è così importante per me, ma per spiegarlo devo partire da lontano.
Da bambino e oltre
Pulcino
Ero anch’io un bambino normale una volta, uno come tutti gli altri.
Anche a me batteva forte il cuore mentre scartavo i regali la mattina di Natale dopo una vigilia piena di voci, di fette di pandoro, di aranciata e di zii quasi sconosciuti, che sconfinava in una notte interminabile, gioiosa e confusa, che mi faceva venire gli occhi e le orecchie rossi.
Anch’io ero emozionato il primo giorno di scuola elementare, mi hanno immortalato in una foto seduto al mio posto che sembro un pulcino spaurito. Ho le braccia appoggiate sul banco che è dieci volte più grande di me, la schiena fa una curva in avanti, mi piego come per nascondermi anche se guardo l’obiettivo a fianco; c’era la mamma a fotografarmi?
Anch’io sono stato felice per un nove in scienze, avevo anche deciso di diventare Einstein.
Anch’io avevo paura del buio e volevo la storia della buonanotte.
Poi tutto è cambiato.
Tanti auguri a te
Credo fossi in prima media quando, una settimana prima del compleanno, dico a mia mamma che non mi interessa fare la festa con i compagni di classe a casa, che è una cosa da bambini e che preferisco magari che mi dia i soldi per andare al cinema.
Sei proprio sicuro?
Sì mamma.
Mi sembrava fosse sollevata anche lei. Avevo temuto una reazione più ferma, del tipo: no, hai diritto alla tua festa come tutti, e l’avrai. Quindi sollievo per entrambi e non dispiacere.
D’altronde era difficile dimenticare l’ultima volta in cui mio padre si era presentato barcollante a casa, che gli ospiti se ne stavano già andando, e aveva preteso che tutti, bambini, bambine e qualche mamma rimasta, cantassero di nuovo insieme: Tanti auguri a te
, e aveva fatto riaccendere le candeline usate di una torta ormai patetica e a brandelli, e le avevo dovuto spegnere di nuovo. Aveva fatto tardi per dei problemi sul lavoro. Ma le mamme, imbarazzate e preoccupate, avevano capito in un microsecondo che uno, in quelle condizioni, non poteva fare proprio nessun lavoro. E lui non si preoccupava del mio imbarazzo, anzi, della mia vergogna, ma fa niente.
L’importante era non trovarsi di nuovo in quella situazione.
A volte, papà spariva per delle settimane. La mamma diceva che non stava bene e doveva curarsi, ma se le chiedevo di andare a trovarlo mi rispondeva che non si poteva, che era troppo lontano o che i medici non volevano. A un certo punto ho smesso di chiederlo, semplicemente è diventata una cosa normale, come la pioggia che ogni tanto arriva. E poi, a dire il vero, quei periodi senza di lui non erano così male: mia sorella Alice poteva finalmente invitare le sue amiche a casa e parlare di cose da grandi e io potevo giocare dove mi pareva senza dovermi preoccupare troppo del disordine o di quello che rompevo.
Mia sorella ha quattro anni più di me. Una volta mi diceva: Ti voglio bene fratellino
e mi prendeva le guance e me le stritolava, io mi arrabbiavo, le allungavo uno schiaffo ma ridevo. Mi controllava se facevo i compiti, mi chiedeva se avevo problemi a scuola, se avevo la morosetta; la mattina prima di uscire preparava lei la colazione, mi diceva cosa mettermi, di lavarmi e di pettinarmi.
A un certo punto ho cominciato a essere abbastanza stufo di queste storie, perché mica era la mamma, e poi mi trattava come un bimbo. Perciò ho iniziato a risponderle male e i ti voglio bene
sono diminuiti, e poi quasi scomparsi.
A volte mio padre arrivava a casa di notte, entrava in camera ridendo e parlando ad alta voce, ci svegliava, ci faceva vedere quanti soldi aveva guadagnato e tirava fuori un rotolo di banconote dalle tasche e noi rimanevamo a bocca aperta. Ci chiedeva che regalo volevamo e potevamo osare quasi tutto quello che ci veniva in mente, e lui rideva forte, soddisfatto.
Non mi domandavo se eravamo ricchi oppure poveri, non lo sapevo e non mi interessava. Non sapevo neppure che lavoro facesse mio padre e mi trovavo in imbarazzo quando me lo chiedevano le insegnanti o gli amici. Una volta, forse ridendo, la mamma ha usato l’espressione libero professionista
e da allora l’ho fatto anch’io.
Quando però fuori dalla scuola vedevo quelle bambine tutte infiocchettate e vestite di rosa accompagnate dai loro genitori, io pensavo che erano delle poppanti che si facevano ancora portare da papino e mammina e in ricreazione dicevo ai miei compagni: Adesso ridiamo!
, puntavo una di loro, mi piazzavo di fronte e la sfottevo: Oh, che bel vestitino, attenta che si sporca di cacchina.
E quando vedevo la paura nei loro occhi (sono sempre stato più grande e grosso degli altri) e che indietreggiavano, allora mi divertivo davvero: Guarda, piange, voglio la mamma, aiuto!
Ma le femmine erano così.
Quello che non sopportavo proprio erano i maschi che facevano le femminucce. Così, se vedevo qualcuno che frignava o chiamava i grandi quando c’era un litigio, io lo disprezzavo per sempre: quello non era uno che sapeva cavarsela da solo, era un mammone, un buono a niente.
La scuola non mi fa schifo. Solo qualche volta.
Non ho fatto le elementari alla scuola del mio paese, a Fontane, ma in città, alla De Amicis a Treviso, perché la mamma lavorava in casa di una famiglia di ricconi del centro e, coi suoi orari, le andava meglio accompagnarmi e prendermi lì.
Avevo passato degli anni felici, almeno fino alla quarta. Peccato che poi la mia maestra preferita, la Giorgia, è andata in pensione. L’ultimo giorno di scuola avevamo pianto tutti, lei compresa. Mi aveva insegnato a scrivere le canzoni e a progettare la mia casa ideale: avevo fatto un plastico con una casa iper-moderna a due piani con sala giochi da schianto e sala video, e un parco con tanti alberi e un campetto da calcio regolamentare e una piscina, ovviamente; era stato un lavoro fantastico e mi aveva dato dieci e lode.
In quinta, al suo posto, è arrivata quella lì, molto più giovane ma già vecchia, con la solita collana di perle delle maestre, tutta un: Dobbiamo finire il programma, ma che figura ci facciamo se vi presentate così alle medie.
Se ne era persino uscita con qualche commento sarcastico su quello che avevamo fatto con la maestra Giorgia, e da quel momento si è guadagnata l’odio di mezza classe, mentre l’altra metà si è subito venduta e le ha dato ragione: che traditori da strapazzo.
Be’, insomma, questa tizia non l’ho sopportata da subito e allora qualche volta mi divertivo a stuzzicarla, che ne so, tipo dicevo: Maestra, maestra, questa volta li ho portati i compiti!
Poi facevo finta di aprire lo zaino e: Oh no, ho lasciato il quaderno a casa…
Oppure chiedevo ogni mezz’ora di andare al bagno perché mi faceva male la pancia e facevo mille smorfie, oppure tiravo palline di carta alla prima fila, insomma cose del genere. Lei, non so per quale motivo, aveva adottato la tecnica dell’indifferenza, ma si vedeva che mi odiava e più me lo dimostrava tacendo e non reagendo, più avevo voglia di rompere.
Una volta decido che le avrei fatto prendere un bello spavento e avrei fatto perdere un po’ di tempo alla classe e, suonata la campanella della fine della ricreazione, mi sono infilato dietro la siepe che circondava il giardino della scuola. Era un nascondiglio conosciuto, ma pochi sapevano che da lì si poteva costeggiare la rete fino a un punto in cui era praticamente crollata e allora oltrepassarla era un gioco da ragazzi: ero evaso!
Che ridere, comincio a camminare come se niente fosse, incrocio solo alcuni passanti che non fanno caso a un bambino che cammina da solo alle undici di mattina invece che stare a scuola. Se ne accorge invece una macchina della polizia che era stata allertata dalla scuola e che mi becca nel giro di un quarto d’ora. Un pandemonio.
Mi riportano a scuola, tutti guardano dalle finestre, i poliziotti rimangono lì finché non riescono a contattare mia mamma che arriva bianca come un fantasma e poi le parlano, distaccati, senza foga, dobbiamo fare la segnalazione, è la prassi, la scuola ha immediatamente allertato, suo figlio, disagio. La maestra, stralunata e coi capelli finalmente un po’ scomposti, mi avrebbe fatto pagare cari quegli ultimi giorni di scuola.
Poi le elementari sono finite e ho perso di vista i miei vecchi compagni perché abitavano tutti lontano da casa mia e andavano alle medie in centro, alla Serena o alla Stefanini. Io ero l’unico che sarebbe finito alla scuola di Lancenigo, poco lontana da Fontane.
Ricordo ancora le impressioni del primo giorno delle medie. Ero particolarmente nervoso perché non conoscevo praticamente nessuno. I ragazzini del mio paese li avevo incontrati al campetto qualche volta, ma non frequentavo la chiesa e quelle cose là, e quelli invece facevano combriccola tra di loro, si conoscevano tutti, si davano appuntamenti per il giorno dopo, eccetera. Mentre per me era tutto nuovo.
La scuola era piuttosto grande, un edificio grosso, grigio, imponente e vagamente scassato, qualche veneziana storta, il muro esterno coperto di graffiti, il cortile di ghiaia, polvere ed erbacce. Le sezioni arrivavano fino alla H e io sono capitato in D con due vicine di casa che, fin dal primo giorno, mi hanno salutato a stento.
Giravo come un cane randagio: impaurito e feroce, pronto ad azzannare chi mi avesse attaccato, ma anche a scodinzolare per un pezzo di carne. Tenevo lo sguardo a terra, ma registravo tutto, sollevavo gli occhi appena per studiare l’ambiente, passavo rapidamente in esame ogni voce, parola, urlo, risata.
La nostra aula era grande, rimbombante, vuota. I professori e le professoresse erano per lo più sorridenti, ma il loro sorriso si trasformava in una smorfia cattiva alla minima infrazione. Avevano voci potenti e imperiose.
Di quel primo giorno ricordo il cortile e la ricreazione: noi primaioli, come ci chiamavano, ce ne stavamo preoccupati vicino al portone d’ingresso dove poi saremmo stati prelevati a fine intervallo dall’insegnante; c’era uno spiazzo polveroso e ghiaioso piuttosto ampio di fronte all’entrata con qualche albero al centro attorno al quale già si radunavano per nascondersi dai prof i ragazzi più grandi. Se qualche primaiolo passava da quelle parti, le ragazze - Adidas e Victoria’s Secret - gli davano uno sguardo tra lo schifato e il pietoso, come se fosse stato un appestato e i ragazzi - Adidas, Nike e Napapijri - appoggiati in posa sul tronco dell’albero, si limitavano a fissarlo in silenzio per fargli intendere che doveva girare al largo.
La scuola era alta quattro piani - una specie di mostro di cemento armato grigio con i finestroni rossi - e, durante la ricreazione, il portone d’ingresso era protetto da due bidelli-guardie che se ne stavano in piedi con le mani dietro la schiena bloccando l’accesso e interrogando chiunque volesse rientrare (cosa permessa solo per andare in bagno). A quel punto l’edificio fagocitava i pochi che avevano ottenuto il nulla osta e che sparivano dietro i suoi vetri oscurati.
Non sono stato infastidito da nessuno, quel primo giorno. Pensavo che fosse un successo e che, superata la prima giornata, non avrei più avuto problemi.
E infatti, già dopo la prima settimana, avevo individuato quelli che sembravano simili a me. Li riconoscevo al primo sguardo. In loro c’era qualcosa di diverso rispetto agli altri, nel loro atteggiamento, nei loro occhi, nel loro modo di parlare. Erano, a modo loro, tutti famelici. Predatori ingenui. Gatti randagi tranquilli al sole, e pronti ad azzannare. Anche loro studiavano il territorio o, in alcuni casi, già lo conoscevano.
C’era Christian, in prima B, la classe di fianco alla mia; era un piccoletto con i capelli lisci a caschetto e la voce rauca, veloce nei movimenti e rapido con le parole. Quando faceva battute rideva e spalancava la bocca e ti veniva vicino. Facevamo ginnastica insieme ed era un bravo palleggiatore a pallavolo: mi serviva spesso e io bombardavo il campo nemico grazie a lui. Si infrattava già negli angoli nascosti della scuola a fumare insieme a quelli di terza, abitava nei palazzoni popolari a Carità, altra frazione di Villorba, e conosceva tutti. In prima B c’era anche Ivo, uno dei Kuric, una famiglia rom croata ormai sedentaria da molto tempo: sembrava un tipo tranquillo, ma si sapeva che avrebbe dato problemi come tutti i suoi fratelli e le sue sorelle; si diceva che si vestisse solo con cose rubate; si diceva che i Kuric avessero tre Mercedes, e che non vivessero nella casa popolare che il Comune aveva concesso loro, ma in campagna, in una casa isolata e protetta, e piena di refurtiva: collane d’oro, iPhone, computer, Mac, felpe e scarpe nuove di tutte le marche, eccetera. Qualcuno era stato invitato e aveva visto tutto.
Poi c’era Ahmed, in prima A, un ragazzo marocchino alto e furbo, che sembrava più grande di quello che era, aveva capelli crespi corti e peluria sul labbro; avvicinava tutte le ragazze carine e mostrava sempre sull’iPhone donne nude e bellissime, e ogni volta faceva il gesto di toccarsi il pisello, e quando una non gli dava retta sibilava rabbia con un sorriso cattivo e puntava un’altra. Diceva che era già stato con tre donne e parlava solo di sesso.
E poi c’era Andrea, quello che mi piaceva meno, il più pericoloso. Vestito di marca dalla testa ai piedi, ogni giorno aveva felpe e jeans perfettamente stirati e profumati, capelli sempre in ordine, taglio alla moda ma non appariscente. Abitava in una villa con la piscina, era misurato, finto, calcolatore, aveva un bel sorriso da bravo ragazzo con gli insegnanti, la voce e le movenze da adulto, ispirava fiducia e sapeva come sfruttare questa sua dote. Sembrava pronto a conquistare la scuola e bazzicava con gente con cui pareva non aver nulla a che fare e da cui, in effetti, in futuro si sarebbe separato rapidamente.
La mia classe non era un granché interessante. Oddio, c’era qualche compagno simpatico con cui ho fatto un po’ amicizia, bravi ragazzi che ci tenevano alla scuola, che andavano bene, giocavano a calcio o a pallacanestro nel Villorba, erano sempre impegnati e ci potevamo vedere nel pomeriggio solo dopo mille richieste in carta bollata alle madri.
Della prima ricordo poco, quindi, le compagne secchione che alzavano sempre la mano per intervenire e fare bella figura e che mi infastidivano, la gita a Venezia, Cristina, la bella della classe, le prime difficoltà scolastiche.
In particolare ci sono rimasto male per un brutto voto in un tema dove avevo cercato di mettere quello che sentivo: