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Il coraggio di vivere ce l'hai?
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E-book258 pagine3 ore

Il coraggio di vivere ce l'hai?

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Info su questo ebook

“Tutta colpa di quella maledetta scritta sul cavalcavia della tangenziale!” Dorian, tutto fare di un piccolo quotidiano gratuito, scivola nel fiume per cercare di leggere la scritta in nero tatuata sul cavalcavia della tangenziale. Viene salvato da un vecchio senzatetto di nome Victor che abita assieme a un cane, un cieco e un insano di mente, in una baracca nascosta dalla vegetazione nei dintorni del corso d’acqua.
Il trentenne sogna di diventare un vero giornalista e spera di utilizzare Victor per scrivere un toccante articolo sui senzatetto. Ne nasce un curioso legame che coinvolge anche Penelope, fidata amica e vicedirettore del giornale.
Cosa accomuna la nebbia di Padova e un taxi della Jamaica? Un bacio all’ultimo piano del Rockefeller Center e la maratona di S. Antonio?
Al lettore scoprirlo.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2015
ISBN9788898894611
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    Anteprima del libro

    Il coraggio di vivere ce l'hai? - Francesco Benetton

    978-88-98894-61-1

    UNO: IL TRENO

     Cammino con passo lento su quell’argine di quand’ero bambino. È una domenica di ottobre e l’aria fresca profuma degli ultimi fiori di campo che nessuno raccoglie mai. Il sole scalda le falde del mio lungo cappotto nero.       

     Dagli auricolari infilati nelle orecchie, lascio scorrere musica senza ascoltarla. Mi tiene compagnia un’ottima bottiglia di Nero d’Avola ormai vuota nella mano. Il volume elevato crea una sorta di silenzio omogeneo, un vuoto con riverbero che permette di pensare liberamente. 

     Godo dell’innegabile necessità di un sano pomeriggio di malinconia.

     L’obiettivo della passeggiata è raggiungere il ponte ferrato, una struttura in ferro scuro e ruggine piena di archi e bulloni, che permette ai treni di oltrepassare il fiume Bacchiglione.

     Parallele al ponte, a una quindicina di metri, corrono veloci le auto in tangenziale. Proprio sotto quel cavalcavia, ricordi confusi di giornate trascorse pescando piccoli pesci con molliche di pane e fumando le prime sigarette proibite. In bocca rimaneva un gusto di cartone bruciato, facevano tossire e vomitare, ma tutti dicevano che erano squisite.

     Il sacro dono del vino che infuoca i pensieri, scherza con l’equilibrio e annebbia la vista. Cammino perdendo qualche passo sulla striscia d’erba umida, tra le due corsie di terra battuta scavate negli anni dal passaggio delle biciclette. Lo sfilare di tranquille abitazioni muta lentamente negli ettari di campi da frumento, si sente ancora l’odore della terra arsa dell’estate appena trascorsa. Non si vede anima viva.

     Seguo la dolce discesa che abbandona l’argine superiore per raggiungere il letto del corso d’acqua. Ai piedi del ponte spengo la musica e ascolto il respiro del fiume che scorre, sperando di ottenere una risposta che non arriva. 

     Tergo la fronte, compiendo un gesto inconscio con il fazzoletto di stoffa che ripongo sempre nella tasca destra dei pantaloni. Ho caldo, sbottono la camicia e calo il cappotto a mezza schiena. Uso il piede per smuovere dei sassi depositati nel terreno prestando attenzione a non sporcare la scarpa. Con un movimento circolare catalogo mentalmente pesi e forme.

     L’odore stagnante del verde nato a bordo fiume misto alla polvere, mi fa desiderare un bicchiere d’acqua.

     Seleziono due pietre biancastre e un coccio di coppo. Per applicare la giusta rotazione del braccio destro preferisco lanciare contro corrente. I primi due lanci, come da manuale, disegnano cerchi concentrici sull’acqua mentre il coccio s’impenna al primo impatto per affondare miseramente al secondo. A ogni lancio imbevo le maniche del cappotto con un po’ di vino.

     Odo in lontananza lo scampanellio tenue di una bicicletta. Spostandomi per cedere il passaggio, calcio involontariamente qualcosa. Senza chinarmi, uso ancora pigramente i piedi per scostare i ciuffi d’erba. Scopro un tubo arrugginito di venti centimetri. Osservando più attentamente, mi accorgo che è una delle viti che servono per fissare le assi di legno delle rotaie. Inquadrati forma e colore del curioso oggetto, non fatico a trovarne altri mimetizzati tra il verde e il terriccio.

     Con sguardo vuoto e mani ai fianchi, penso alla quantità di vibrazioni necessarie a svitare un ferro del genere e nell’effettivo pericolo di sostare esattamente sotto dove potrebbero pioverne altri. Serve il campanello della bici in arrivo per distogliermi dalle mie riflessioni. Il ciclista spericolato discende l’argine senza mettere mano ai freni. Incurante di buche e pietre, al suo passaggio tremolante rimane solo un mozzicone di sigaretta che taglia l’aria con un filo di fumo bianco.

     Un sorso di vino. 

     La vegetazione aumenta man mano che mi avvicino all’acqua nascondendone i confini. Fermo ancora sotto il ponte, conto quanti incroci d’acciaio a X servono per consolidare la struttura fino ad arrivare dall’altra parte. Soffro un’improvvisa inquietudine di venir sorpreso dal treno. Procedo e, con un’agilità improbabile, risalgo il terrapieno in verticale piegando il busto in avanti e compiendo passi a grandi falcate. Poso la mano libera sul ramo esile di un sambuco per mantenere l’equilibrio. 

     Mi trovo esattamente tra il cavalcavia della tangenziale e i binari della ferrovia. In quel lato del ponte ferrato, adiacente alla struttura, c’è una passerella che permette di oltrepassare il canale e arrivare all’argine opposto. Il luogo è ancora sacro alle pene degli innamorati di altre generazioni adolescenziali. Gli archi bullonati della struttura costeggianti il camminatoio sono tappezzati da frasi poetiche, cuori, numeri di telefono, nomi di ragazze associati al mestiere più vecchio del mondo e innumerevoli organi genitali maschili stilizzati.

     Quando abitavo ancora con i miei genitori in quartiere, venivo spesso a passeggiare da queste parti cercando un po’ di tranquillità per mettere in ordine le idee. 

     La zona di giorno era frequentata da anziani omosessuali in cerca delle ultime emozioni e da tossicodipendenti bisognosi di soldi. Spesso li sorprendevo con i pantaloni calati nella boscaglia limitrofa o, peggio ancora, li incrociavo fermi sulla passerella che, con sguardo ammiccante, lanciavano messaggi d’amore. 

     Solo pochi anni fa, quella che sembrava una segreta illegalità trasmetteva una sorta di timore da luogo proibito, che confesso coinvolgeva anche me. Le famiglie preferivano trascorrere le domeniche di primavera nei parchi cittadini o su altri argini più attrezzati, nonostante ci fosse anche l’attrattiva degli aerei in decollo dall’adiacente pista d’atterraggio dell’Aeroporto Civile G. Allegri. 

     I passi sul metallo consumato rintoccano come campane in lontananza. Riposo qualche minuto a metà del ponte osservando l’acqua riflettere le immagini distorte come gli specchi del luna park. Alzo il braccio e inclino la testa, il vino scivola dalla bottiglia alla gola mentre l’occhio è attratto da una scritta in nero tatuata sul cavalcavia della tangenziale.

     Ho perso la cognizione del tempo, il sole che sta tramontando sulla faccia acceca. A fatica riesco a scorgere le lettere tremolanti, scritte in spray, lungo il blocco di cemento armato che sostiene la carreggiata per tutto il suo percorso sopra il canale. Pensando al modo in cui l’autore abbia potuto raggiungere la posizione necessaria per poter lavorare sospeso nel vuoto, salgo sul corrimano della passerella per entrare nel cono d’ombra creato dalla tangenziale e riuscire a leggere la scritta. Controllo le mie Clarks perplesse per lo sforzo richiesto al fine di mantenere l’equilibrio sulla sottile barra di ferro. 

     Le lunghe alghe accarezzano la superficie dell’acqua dal profondo scuro del fiume danzando al ritmo della corrente. Un’incredibile sensazione di leggerezza dell’anima.

     Ultimo sorso di vino.

     Apro le braccia inspirando aria buona, ma una strana forza strattona le falde del cappotto.

     Le auto sfrecciano incautamente rumorose. Aumento al massimo il volume della musica che grida il suo dolore nelle orecchie, per non sentirle.

     Una vertigine.

     Mi accontento di quel brivido per tornare cosciente. Allungo la mano in cerca di un appiglio sicuro sulla struttura del ponte. Fletto le gambe per diminuire il rischio di caduta. Ho paura di far scivolare la bottiglia vuota e tento di posarla su una mensola strutturale poco al disotto della mia posizione. Proprio mentre distendo il braccio per raggiungerla, un raggio di sole provocatore mi colpisce gli occhi ricordandomi che ancora nasconde quella maledetta scritta. Testardo, recupero la postura retta abbandonando la presa per poter far schermo con la mano della luce. La pupilla ferita tarda un istante a mettere a fuoco.

     Un boato improvviso esplode alle mie spalle. La paura, le vibrazioni, lo spostamento d’aria, lo stridere del metallo che sovrasta la musica o non so che altro, ma sto precipitando. Un istante eterno. L’impatto è violento, l’acqua è fredda. Riemergo quasi subito e respiro voracemente a bocca aperta. I vestiti s’impregnano in un attimo aderendo con un brivido alla pelle. Il cappotto imprigiona e tenta di affogarmi. Ben Harper canta ancora negli auricolari. Colpisco il fiume con poderose bracciate, ma le gambe affondano. Cerco di sfilare le scarpe. Annaspo, bevo e nuoto. Mordo l’aria come un cane rabbioso a ogni emersione. Non mollo la bottiglia che borbotta aspirando acqua.

     Annaspo, bevo e nuoto.

     Il rumore del treno assorbito dal fiume svanisce lentamente, è passato. L’iPod non suona più. Trattengo il respiro pensando di non morire. In bocca il gusto amaro dell’acqua torbida. Le alghe mi avvolgono dolcemente. Seguo la corrente. Un lungo fischio annuncia un altro treno, più lontano. Arriverà. 

     Silenzio. Ricordi a riproduzione casuale. La crostata della mamma che profuma la cucina. Il flauto delle elementari colorato con l’Uni Posca. Il profumo del caffè. Le foglie rosse che cadono durante l’autunno in Via Rovigo. Il costume di carnevale da Mandrake completo di cilindro, mantello, bastone e pantaloni neri con la striscia rossa da carabiniere, avanzo del vestito dell’anno precedente. Voglio una casa su un albero. Leo, il cane dei vicini che abbaia quand’è solo... Ancora Leo.

     Una voce che urla qualcosa, non capisco. Il volume aumenta.

      — SBLAM! SBLAM!  Due ceffoni pesanti mi fanno spalancare gli occhi. Cerco di rimanere cosciente. La luce è troppa, strizzo le pupille. 

      — Il coraggio di vivere ora ce l’hai? 

      — Il coraggio di vivere ora ce l’hai?  Urla qualcuno.

      — SBLAM! SBLAM! Altri due colpi. Spingo e scalcio alla cieca cercando la libertà. Mi affloscio sul fianco per espellere l’improvviso rigurgito di acqua malsana.

     Metto a fuoco con fatica le immagini. Un viso tondo con zigomi pronunciati, pelle arsa dal sole e dalle intemperie, capello selvaggio bianco e grigio che si attacca alla barba incolta dello stesso colore. Occhi neri come il profondo di un pozzo. Un cane lupo spelacchiato abbaia al suo fianco. Una mano enorme mi sostiene per il cappotto e l’altra tenta di togliermi la bottiglia.

      — Mollala! 

      — SBLAM! 

      — …tu? Chi sei? 

      — Mi chiamo Victor! 

      — SBLAM! 

    DUE: JAMAICA

     L’aereo è atterrato poco prima delle ventitré. All’uscita dell’aeroporto, il buio pesto di una notte senza Luna non nasconde il profumo dell’acquazzone appena terminato. 

     I giovani autisti dell’hotel aspettano noi e altre sei coppie per accompagnarci a destinazione. Dopo un breve appello con controllo di documenti, stivano i bagagli sul fondo del mini bus. Solo al termine dell’operazione siamo potuti salire. 

     Chiacchieriamo pigramente di cose futili, ma la curiosità del viaggiatore c’incolla inconsciamente ai finestrini per ammirare il nuovo mondo. L’oscurità toglie la vita attorno a noi, solo all’intermittenza dei deboli lampioni sistemati sul confine tra strada e foresta tropicale riusciamo a scorgere qualcosa. Il tragitto richiede quasi un’ora, Lei dopo i primi quindici minuti di entusiasmo si è lasciata cadere in un sonno profondo appoggiata alla mia spalla. 

     Svolte le lente operazioni di check-in, veniamo accompagnati al nostro bungalow oltre un enorme giardino buio. Serve una doccia bollente per lavare via quella spiacevole prima sensazione sull’isola. Con la ventola del soffitto regolata al minimo per togliere l’umidità ci addormentiamo al contatto con il cuscino. 

     Nonostante la stanchezza alle sei sono sveglio; guardo la sua schiena nuda respirare ascoltando la pioggerella che colpisce i balconi di legno a ogni soffio di vento. Un geco immobile sul soffitto mi osserva. 

     Alle sette e venti vaghiamo per il giardino studiando piante a noi sconosciute, in attesa che la cucina apra. Dopo l’immancabile servizio fotografico con il mare mosso, ci avviamo verso il corpo centrale dell’hotel. La sala da pranzo è coperta per tutta la sua grandezza da una cupola di vetro. Non basta il ricco buffet e un buon caffè americano per distogliere la conversazione incentrata solamente sulla costante presenza di nuvole sopra le nostre teste. Improvviso favorevoli previsioni meteo che espongo con partecipazione e con la speranza che si avverino.

     Siamo nella Long Bay, la spiaggia di sette chilometri più lunga e famosa della Jamaica. Invece di passeggiare sul bagnasciuga tra palme e mangrovie, camminiamo strusciando le infradito sull’asfalto della A1 in direzione Negril. Il cielo ha tutte le sfumature del grigio ma non piove, Lei mi segue silenziosa e trattiene la rabbia rispecchiando l’umore del tempo. Cerco di mantenere la calma mentre esamino le nostre alternative nella guida turistica:

     Arrampicata sulle cascate, troppo freddo.

     Casa natale di Bob Marley, troppo lontana.

     Visita alla distilleria di rhum, Lei è astemia.

     Piantagioni di caffè sulle montagne dell’entroterra, perdiamo troppo tempo.

     Rettilario, Lei odia i serpenti.

     Birdwatching, rafting, canoa, parapendio, uscita di pesca al marlin, non mi pare il caso.

      — Royal Palm Riserve, creata nel 1989 per proteggere la più vasta estensione di palme della Jamaica, dimora di numerose specie endemiche di uccelli. E poi è proprio in zona! 

     Chi tace acconsente.

      — Tornando ci possiamo fermare in un mercatino tradizionale che incontriamo per strada: vendono prodotti d’artigianato eseguiti in legno, batik e articoli in pelle.

     Primo sorriso del mattino. 

     All’unico bancomat prelevo del contante. La strada desolata tra foresta e mare non sembra più così male, è tutto fantasticamente verde.

     Controllo i due sensi di marcia per avvistare le auto in arrivo. Pochi minuti dopo fermo il primo taxi; a dire il vero è lui a bloccare noi. L’autista, abbondantemente in sovrappeso, cala il finestrino, mi stringe la mano e sputacchia per terra.

      — Palm Riserve and back to hotel. How many dollars? 

      — No, problem! One hundred fifty dollars. 

     Stretta di mano e sputacchio.

      — Jamaican dollars? 

      — No, american. 

     Considerando che la distanza è al massimo di quindici chilometri, decido di contrattare.

      — Too expensive, fifty dollars!  

      — No problem! One hundred twenty-five dollars! 

      Stretta di mano e sputacchio.

      — Che cosa dice? 

      — Dice che mi vuole fregare. 

      — Seventy-five dollars ! 

      — No, problem! One hundred twenty dollars! 

     Stretta di mano e doppio sputacchio. Questa, ovviamente, è la sua ultima offerta.

      — No, thanks. Se ne va.

     Proseguiamo nella nostra direzione, ma non tarda molto il secondo abbordaggio.

     Secondo taxi. Frasi di rito: Ciao, come state, stretta di mano e dove volete andare.

      — Palm Riserve! 

      — No, problem! Stretta di mano. Great Morass?

      — No, Palm Riserve!

      — No problem! Stretta di mano. Mayfields Falls? 

      — No, Palm Riserve! 

      — No, problem! Stretta di mano. Negril? 

      — Ma va a cagare! 

     Niente stretta di mano e ci allontaniamo mentre lui borbotta qualcosa mostrandoci brochure di altre escursioni.

     Ci affianca un altro taxi, si apre la portiera e scende al volo un ragazzo con il portafoglio in mano. Tipico Jamaicano di vent’anni, magro, pelle ebano, barbetta riccioluta sotto il mento, occhi neri che raccontano tutte le sofferenze e l’orgoglio degli avi. Porta i jeans laceri su anfibi senza lacci, una canotta lurida di cui non si capisce il colore originale e il classico berretto a sacco che imprigiona una montagna di capelli.

      — My name is Robert Marley! Mi dice orgoglioso mostrando la patente.

      — I’m Bob Marley!  

     Per essere più chiaro, indica degli adesivi sul lunotto posteriore dell’auto con l’immagine del famoso cantante.

      — Ok,ok… Palm Riserve forty dollars? 

      — No, problem! Si gratta un po’ il cappello contenitore.

     Prendo Lei per la mano e mi allontano.

      — No, problem! Sorride e ci apre la porta; saliamo.

     L’auto corre sparata sulla A1 piena di buche. Finestrini abbassati e musica a palla. Robert rolla una canna, guida e canta. La guardo negli occhi, mi sorride ma nello stesso momento stringe forte la mano.

      — No, problem! Dico io.

     Arriviamo nel centro di Negril; la vettura sterza bruscamente e accosta a un piccolo edificio marrone con sbarre a porte e finestre. Il conducente abbandona l’auto senza dire una parola e sparisce all’interno.

     Sguardi perplessi tra e attorno a noi.

     Dei ragazzini in divisa scolastica passano chiassosi accanto all’auto senza notarci. Nel prato un uomo dipinge con una vernice rossa la sua esile imbarcazione in legno; intinge il pennello nella latta di colore prestando attenzione a non sgocciolare. Due amici guardano seduti all’ombra di una palma. Il venditore ambulante trattiene in mano una noce di cocco, la colpisce con il machete per aprirne la porzione superiore e infila una cannuccia prima di consegnarla alla cliente. Straordinaria vita di tutti i giorni. 

     Dopo alcuni minuti torna il nostro autista sorseggiando porridge da un bicchierone termico di carta. Si riparte. Robert è felice, guida come un fulmine suonando il clacson e cantando, in mano tiene la canna e l’accendino, alternando una tirata a un sorso di porridge.

     La Royal Palm Riserve è alla fine di una strada sterrata in mezzo alla foresta, c’è una sola auto nel parcheggio, quella del custode. Preparo metà della cifra pattuita per la corsa, ma Robert non accetta, sorride e tira giù il sedile.

     — No, problem! 

     Entriamo in una casetta di legno posta in riva alla laguna. Le nuvole bianche si riflettono sullo specchio d’acqua scura, un’infinità di foglie circolari galleggia immobile sulla sua superficie. 

     Kuma, la nostra guida, con estrema calma strappa il biglietto d’ingresso che ci ha appena consegnato per quindici dollari jamaicani. Usciamo dal retro e il rumore dei nostri passi sul terrazzo spaventa una coppia di aironi rosa. Le grandi ali sbattono poderosamente l’aria e in

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