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Voghera nebbie mortali: La seconda indagine di Dante Ferrero
Voghera nebbie mortali: La seconda indagine di Dante Ferrero
Voghera nebbie mortali: La seconda indagine di Dante Ferrero
E-book382 pagine5 ore

Voghera nebbie mortali: La seconda indagine di Dante Ferrero

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Info su questo ebook

È bastata una telefonata. Quella di un vecchio amico che non sentiva dai tempi del liceo. Vent’anni che non si fa vivo e adesso, bello fresco, quello gli va a raccontare di un omicidio. Dice che si chiamava Lourdes. Questo è, anzi era, il nome della ragazza e di mestiere faceva la prostituta. Hanno ritrovato il suo corpo steso sull’erba nei giardinetti di piazza Castello. Meglio non scendere nei particolari, ma a suo parere la tecnica dell’omicidio è insolita. A prima vista sembra essere stata vittima di un pestaggio finito male. Ma questa, assicura, non è la causa della morte. Non è andata così. E la vicenda presenta ben più di un lato oscuro. E poi c’è più di un motivo per legare questo delitto ad un altro compiuto appena un mese prima sulle colline dell’Oltrepò. Il nome della poverina era María Luz e, nemmeno a farlo apposta, era colombiana, proprio come Lourdes. Un bel caso. O un bel casino, per un giornalista incauto come Dante Ferrero, bravo a cacciarsi nei guai come i lagotti sono bravi a scovare le trifole. Avrà ragione Mercy, la sua ragazza dagli occhi verdi e il culo a mandolino, quando sostiene che si tratta del crimine compiuto da una mano esperta? Oppure ha visto giusto quella vecchia cariatide del Gaeta, secondo cui l’omicidio è frutto di una mente malata? Perversa. Contorta. Voghera è il palcoscenico allestito per questa macabra sceneggiatura noir. Una città di provincia. Come tante. Come tante paciosa. Tranquilla. Almeno finché se ne stava a sonnecchiare rinchiusa nei primi freddi d’ottobre; immersa nei colori di un autunno precoce e nelle sue nebbie. Nebbie che ora ha visto tingersi di porpora. Di sangue. E di orrore. Nebbie fitte e mortali. L’assassino è il folle appena arrestato? Che significato hanno i pezzi del gioco ritrovati sui cadaveri… La sigla scarabocchiata nel palmo della mano... E quella storia di quarant’anni prima?
LinguaItaliano
Data di uscita27 apr 2016
ISBN9788869431289
Voghera nebbie mortali: La seconda indagine di Dante Ferrero

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    Anteprima del libro

    Voghera nebbie mortali - Pier Emilio Castoldi

    PROLOGO

    Faranno sì e no quindici gradi sotto questo sole smorto di metà ottobre.

    Mette tristezza solo a guardarlo, così incastonato dentro un cielo carta zucchero.

    Tristezza nel vederlo fumigare il madido del sottobosco, alzando sottili veli di nebbia a carezzare il suolo, tra declivi e pendici. Rarefatti brani di bambagia che insinuano tra il fusto degli alberi e gli arbusti come nubi basse. Radenti lembi opachi che penetrano tra muri sbrecciati e le dilavate tegole di vecchi borghi e sperduti casali.

    Nella sua fiacchezza, sta provando a intiepidire le ore di questa pigra giornata.

    O perlomeno, credo stia cercando di riscaldarmi dentro.

    Senza peraltro riuscirci.

    L’asfalto è ancora umido della pioggia caduta nella notte, e quella che respiro è un’aria pungente che sa di menta, resina e foglie macerate.

    Tutto qui intorno parla di metamorfosi, annunciando quel dolce morire che diverrà rinascita, tra qualche mese. Una volta sciolta la neve.

    C’è di buono che l’autunno, alle monocromie invernali non si rassegna. Sa ribellarsi, ferendomi gli occhi con la prepotenza delle sue bacche rosse di corniolo e rosa canina, l’ocra degli ippocastani, i cinabro cremisi dell’acero e il giallo dei tigli.

    C’è una lieve brezza, lusinghiera, che mi asciuga il sudore dalla fronte.

    Piacevole da avvertire sulla pelle. Significa che si è vivi. Che sono vivo.

    Per altri non è andata così. Per qualcuno non è stato affatto un dolce morire. E non ci sarà rinascita. Nessun risveglio in nuove stagioni. Non avrà modo di rivedere queste minuscole gocce di rugiada brillare come un rosario di diamanti sulla tela del ragno, così come le sto guardando ora. Né ascolterà più i silenzi che sto ascoltando, per queste valli. O il mormorio delle fronde nei boschi. Il loro stormire. Odorerà il profumo di funghi che odoro.

    Né sognerà più di caldarroste avvolte nel cartoccio o un buon bicchiere di rosso.

    Gli uomini non sono stagioni. Non c’è divenire. Sono, piuttosto, come foglie secche che si staccano dal ramo, prillando a terra in un ultimo ubriacante volteggio senza applausi.

    Gli uomini sono biglietti aerei di sola andata. Echi senza ritorno. Carrozze spedite su binari morti.

    Di loro si parlerà al passato. Quando saranno passati.

    Perché passiamo. Trascorriamo. Talvolta transitiamo senza lasciare orme.

    Scadendo come cartoni del latte. Cancellati come date sul calendario. Strappati come fogli del calendario.

    Quando si muore giovani è ancora più triste.

    Penso alle occasioni che non hanno vissuto, agli istanti che non hanno consumato. Penso ai loro cuori palpitanti e agli occhi affamati che desideravano vedere.

    Quando si muore ammazzati è crudele. Quando si muore lontani da casa si è soli. Anche in quell’estremo momento. Spauriti. Se si è giovani, poi, ancora più soli e ancora più atterriti.

    ***

    Eccomi! Io sono qui. Ci sono!

    A cercare di entrare in questa storia. O forse, furbescamente o inconsapevolmente, uscirne prima ancora di esserci entrato. Di capirci qualcosa. Qualcosa che dia un senso e una ragione a tutto ciò. Alla cronaca merdosa che mi è stata raccontata.

    Una storia che sta rendendo odiosa e insopportabile quest’ultima bella giornata di sole ottobrino. Tingendola di sangue. Insaporendola di amaro.

    Che mi regala un senso di inutile e di inutilità.

    Che mi svuota. Fino a smarrirmi.

    È bastato quel minuscolo ritaglio di giornale. Dieci righe incognite a pagina ventotto.

    Dopo una telefonata, fredda e impersonale.

    Come se dietro un miserabile delitto e oltre il cadavere non ci fosse nient’altro. Nessuna compassione. Misericordia.

    Non voglio chiamarla anima. Ma almeno persona. Una presenza. Altrimenti la chiamerò ricordo.

    Chissà che voce aveva? Se cantava intonata. Se era allegra oppure preoccupata. Se ballava. Se le piacevano le trenette al pesto con patate e fagiolini bolliti, e un Pigato fresco da berci sopra.

    Che musica ascoltasse. L’ultima nota che ha sentito. O se è stata una voce. Un grido. Il suo grido di addio al mondo.

    Non so se la vita l’avesse consumata per intero su un marciapiede o tra lenzuola sgualcite e banconote lasciate sul comodino. Quanto costasse il suo corpo. Se si sentiva comprata. Quali sogni inseguisse o con quale remissione o rinuncia vivesse la sua esistenza.

    Davvero non lo so. Non posso saperlo. Vorrei saperlo. Vorrei sapere tutte queste cose. Tante cose.

    Giusto per potermi ricordare che un giorno è stata. Poterle dire che tra chi la ricorda, ora c’è anche un coglione di giornalista che vorrebbe renderle giustizia. Almeno provarci. Tentare di capire.

    Che provi a scoprire nei dettagli di quella vita anonima e sconosciuta, chi l’abbia voluta spegnere. Quali mani hanno deciso la sua fatalità. Chi altri ha stabilito, al posto suo, il giorno della fine.

    Quest’altro capace di spiccarla dal ramo per gettarla a terra dopo l’ultimo ubriacante volteggio senza applausi.

    ***

    Chi mi conosce poco o superficialmente, spesso mi scambia per indifferente.

    Ma è una reazione. È il mio guscio di tartaruga. Uno scudo. Il rifugio alle mie inquietudini, le mie amarezze. Al malessere delle mie idiosincrasie. È un trucco.

    Meglio apparire come un gigione. Apatico e imperturbabile. Uno che mostra al mondo sempre la sua maschera migliore. Quella ilare e scherzosa. Quella simulatrice da saltimbanco. Celando prudentemente dietro ad essa il volto impacciato dell’incertezza e dell’introversione.

    Uno che vive la realtà come una commedia recitata da altri interpreti, osservata nei fotogrammi sullo schermo di un multisala. Che prende la propria vita come un viaggio solitario su autobus che non hanno capolinea.

    Come se non avessi un cuore pronto a sanguinare o lacrime da versare. Rabbia da urlare...

    Io di mestiere faccio il giornalista. Di queste storie ne sento raccontare e ne scrivo a dozzine.

    Però è sempre così. Non riuscirò mai a farci l’abitudine. Ogni volta è la stessa cosa.

    Dovrei inquadrare il tutto sotto l’asettica luce del fatto in cronaca, sterilizzando le notizie invece di macerarmi dentro di esse.

    Viceversa è come se parlassi, o dovessi sempre raccontare di qualcuno, che non sia solo un nome e un cognome da scrivere sul pezzo in edicola l’indomani.

    Questa è una cosa che non va bene. Non funziona così. Mi fa star male.

    La volta scorsa ho sofferto come un cane per quei ragazzi. Almeno finché non li avevano riportati a casa sani e salvi. Peggio ancora, ho pianto per i loro due compagni morti.

    Piansi allora. Senza darlo a vedere. Camuffandomi dietro il mio solito contegno da pagliaccio.

    Infatti non se ne accorse nessuno. Piansi per quelle due povere anime. Giovani anche loro. Troppo giovani.

    Dev’essere una costante. Una fottuta e schifosissima costante. Una sfiga che mi perseguita.

    Come l’angoscia che provo nel vedere vite così tenere, spezzate. Recise.

    Anche per Lourdes J.V. è andata così. Caduta a terra come una di quelle foglie cremisi d’acero o ocra di ippocastano. Crollata senza più rialzarsi, dopo l’ultima esaltante piroetta. Anche stavolta senza un applauso. Semmai il ghigno di chi ha respirato l’ultimo suo respiro e con esso tolta l’ultima sua speranza. Il ladro di vite che se l’è portata via.

    Ci devo provare. Devo sentirmela di compiere questo nuovo viaggio che accompagnerà il suo.

    Il viaggio di questa Lourdes J.V., come riporta con pietà e riserbo la riga in corpo dieci sul quotidiano.

    Questa Lourdes J.V. della quale non so nulla. Della cui vita nessuno sa nulla, e a nessuno sembra interessare.

    Devo vincere questa pesantezza. Gettare via la prostrazione. Ci devo provare in fretta.

    Prima che di lei mi possa dimenticare. Cosa che so per certo di non riuscire a fare.

    Prima che il mondo la dimentichi. Cosa che riuscirà molto presto a fare.

    PRIMO CAPITOLO

    «Per me l’autunno è un esaltante insieme di emozioni. Un pot-puorri di suggestioni che mi stregano. Riescono a sedurmi.»

    La poetessa ha detto pot-pourri! Non miscuglio, amalgama, mescolanza... o un altro termine da cristiani. Lei parla raffinato. Che diamine!

    Mica come quel cialtrone di Ferrero che, sebbene faccia il giornalista, ha il lessico ridotto a un centinaio di termini.

    «Sai Dante... È una stagione che mi rapisce, con questa sua ricchezza di colori... Le sfumature brune e rossastre che incendiano le colline... Le ombreggiature tra gli alberi... Mi manda in estasi, talmente è incantevole... È come trovarsi ad ammirare un quadro di Mønsted¹.»

    Neanche per idea! pensa tra sé.

    Vorrebbe dirle: basta! Non è ciangottando sulle nuance dei boschi che troverà il modo di raccontarle della novità. Poi, tanto per chiarire, questo Mønsted non sa chi sia né che brutto muso abbia, l’estasi l’ha lasciata a Santa Cecilia, assieme alle gradazioni, e come sensazione può bastare quella sgradevole della canottiera sudata appiccicata alla pelle.

    Per di più, prima di sentirsi stregato dal pot-pourri, a lui manca il respiro per la pedalata.

    Le colline sono una gran bella invenzione, ma hanno il difetto di non essere pianeggianti.

    Le lancia uno sguardo spossato dalla fatica. Mercedes contraccambia con un ammiccamento e torna a distrarsi con il paesaggio, lasciandolo a rodersi come un criceto digiuno.

    Certo che se insiste con questi lirismi, verrà difficile trovare il modo d’informarla sulla notizia. Anche se sa perfettamente quanto è necessario farlo, e farlo in fretta, prima che la scopra da sola.

    Deve solo cogliere il momento e prenderla di petto, tranciando elegantemente le menate su estetica e armonia, per cose più concrete.

    Delle seduzioni che la stagione scatena è meglio non fare accademia. Sull’argomento è sicuro di trovarsi d’accordo con il netturbino in giacca fluo arancione che, avanti venti passi, sta ramazzando il ciglio della strada.

    L’importante è augurarsi che la sognatrice non provi ad evocargli il fascino delle foglie secche. Non tanto per bon ton, quanto piuttosto ad evitare che il tizio le suggerisca dove ficcarsi quella dannata vena da Jacques Prévert dei poveri, assieme al cumulo che sta meticolosamente ammonticchiando.

    Invece Mercy, con l’allegria del week-end stampata sul viso, lo ha salutato con uno squillante: «Buon lavoro, Giacomo!» lasciando Dante a cavarsela con un banale cenno del capo, senza staccare le mani dal manubrio.

    Col fisico da ballerina che si ritrova, sembra pedalare su un tappeto da biliardo, maledizione! Invece per lui, scalare questi tornanti che salgono alla Torre del Castello, è come affrontare una delle tappe che hanno reso celebre il Campionissimo², nato a pochi chilometri da qui. A Castellania. L’unica differenza è che l’Airone, in sella alla sua Bianchi, divorava il Tourmalet, mentre per Ferrero è già una sfida la rampa al seminterrato dello stabile.

    Guarda in su il cielo, e il sole, che è una macchia di candeggina su un paio di vecchi jeans sdruciti. Sereno, accidenti!

    Poi torna a fissare il pendio che sembra allungarsi all’infinito.

    Giacomino, fermo sul viale, li vede allontanarsi cicalando. Li segue con lo sguardo per un istante, prima di riprendere in mano il soffiatore. È perplesso. L’autunno deve fargli proprio schifo.

    «Visto che ci troviamo da queste parti, dovrei approfittarne per lasciare un crisantemo lì dove hanno bruciato la mia adorata Opel.» Sospira, in un mix di comicità e tristezza.

    «Oh, il mio ispettore Clouseau! Dai! Asciugati la lacrima!… Opel o non Opel, sei diventato famoso grazie a quella storia!³» gli replica. «Il capitano Lodetti s’è meritato più di un encomio e fiuta aria di promozione... E il Gaeta?... Ma l’hai visto?! Sembra ringiovanito di quarant’anni... Praticamente un ragazzino!»

    «Invece a me...» mugugna risentito «Almeno in redazione m’avessero omaggiato di uno sputo... L’avrei preso come una gratifica... Invece nisba... Trasparenti come il vetro.»

    Si terge la fronte col dorso della mano e insiste: «Quel bavoso del Baudino, sempre con le pupille incollate alle bocce della Perinelli e al reggiseno che le spunta dalla camicetta... Senza un attimo di tregua... Sulla fossa di quelle tette prima o poi ci perderà la vista, il coglione.»

    «Ingrati. Ingrati e gelosi, ecco!» lo canzona, con aria smancerosa. «La Stampa non ti merita, e il direttore ancora meno.»

    «Manco meritavo che quei maledetti mi mandassero a fuoco l’Astra... Filtro dell’aria appena sostituito e pagato quanto uno Swarovski... Oggi me ne starei comodo al volante, scansando l’arrampicata sul Pordoi!»

    «E ti saresti imbolsito come un’oca da foie gras... Invece con me, tutte pedalate en plein air! Così ti sparisce il salvagente!»

    «Chissà perché a me di francesismi ne vengono in mente altri,» rimbrotta, spingendo sui pedali come un gregario che tira la volata. «Comunque se sopravvivo ne riparliamo...»

    «Così il tuo talento investigativo non è stato apprezzato in patria?!»

    «Il caporedattore dopo avermele polverizzate con la favola sulla competenza, la professionalità e il vaf-fan-cu-lo... E poi ancora del prestigio di lavorare per una testata importante... Quando gli ho buttato giù il servizio, nemmeno lo ha cagato di striscio.»

    «Già!» laconica. «Ecco il meglio di monsignor Della Casa.»

    Dante rallenta, dandosi una grattata alle guance. Sintomo di neuroni in elaborazione. Riflette e indugia. Sta bruciando dal desiderio di confessarle del nuovo incarico, ma teme una sua reazione di biasimo, passato lo stupore.

    Ancora non ha deciso su come raccontarle il tutto, senza immaginare che la prenda male.

    Per prima cosa gli domanderebbe se c’è di mezzo anche quell’altro stordito del Gaetano Monticelli, alias Gaeta, sapendo che le cazzate le fanno molto meglio quando sono in coppia.

    Del resto l’opinione che ha di entrambi la conosce, considerandoli al pari di bambini mal cresciuti, sempre pronti a giocare a Cluedo su e giù per la Val Padana. In più ha il sospetto che non apprezzi le qualità del socio, e ancora meno la sua esperienza di ex agente dei servizi segreti. Valla a capire!

    Ma la belva in gabbia preme per uscire.

    Così si decide. Ben consapevole che tenerle nascosta qualunque cosa, durerebbe da Natale a Santo Stefano. Mercedes sa leggerlo come un libro aperto e intuisce al volo se qualcosa lo tormenta.

    Riprende fiato, decidendo di aprirsi alla confessione.

    «In compenso mi hanno appena interpellato per una consulenza...» le lancia lì, mantenendosi volutamente evasivo. «Un incarico fuori provincia.»

    Lei lo fissa interrogativa con quei begli occhioni verdi da cerbiatta, sottolineati da un velo di rimmel.

    Dante lascia intendere una conferma, annuendo con aria soddisfatta.

    «Oh bella... Fuori provincia... Come inviato speciale? La tua fama si è allargata! Ha varcato i confini!»

    «Ecco! Mancava giusto qualcuno che mi prendesse per il culo!»

    «Scusa... Non volevo,» cerca di scusarsi poco convinta.

    «Ma niente...» minimizza, dissimulando furbescamente.

    Raggiunto il falsopiano, tira il freno e accosta, obbligandola a fare altrettanto. Scende di sella, issa la bici sul cavalletto, e si allenta il collo della camicia.

    Mercedes intanto gli passa un kleenex emerso dalla borsetta.

    «Niente di serio... Una fesseria...» precisa, respirando profondo. «È che adesso, appena c’è di mezzo un delitto trovi subito il fenomeno che si scatena in teorie fantasiose...»

    «Ma guarda! Senti da che pulpito! Saresti il primo a farlo!» esclama, sorpresa e divertita.

    Il tono compiaciuto di Ferrero parla da sé: «Però la volta scorsa ci ho preso in pieno.»

    «Dai racconta...» lo stuzzica. «Nel ruolo di giornalista o con i nuovi galloni da investigatore?»

    Dante sorride e accenna un’alzata di spalle, fuggendo la tentazione di ficcarsi in bocca una bionda col filtro.

    «Ti verrà da ridere, ma sembra proprio che il signor Dante Ferrero sia meglio considerato come investigatore che non come scribacchino di redazione.»

    «Quindi ho ragione nel dire che il tuo primo successo ti ha reso famoso!»

    «Mi allargherei di venti chilometri scarsi. Sai che roba! Alla faccia della celebrità!»

    «Da dove arriva questo incarico?» gli domanda, fingendosi distratta sullo smalto delle unghie.

    «Voghera... Un tizio di Voghera.»

    «Un giornalista come te? Oppure...» insiste incuriosita.

    «Un collega... Ma sì, collega sì e no, pare faccia il pubblicista... Carlo Mereghetti... Scrive saltuariamente per La Provincia... La Provincia Pavese... Sulle pagine locali dell’Oltrepò.»

    «Ma tu lo conosci?»

    «Un amico... Insomma, amico... Era dai tempi del liceo che non lo sentivo più... Ricordo che allora abitava al Medassino.»

    «Cosa vuole?»

    Ferrero fruga l’interno del giubbotto, tastandosi il taschino alla ricerca del pacchetto.

    «Mi telefona due giorni fa tirando fuori una storia che, per conto mio, non ha niente di straordinario...» prosegue. «Lui invece dice di sentirci puzza di bruciato. Mi racconta a spanne dell’episodio, e mi faccio subito l’idea che sia uno di quegli accidenti finiti male tra papponi e prostitute.»

    «E lo viene a raccontare a te? A uno che non sa più se esiste dai tempi del Peano?»

    «Ha saputo di come ho dato una mano a risolvere... Ma sì! Ha letto gli articoli... Il passaparola... Sai... Negli ambienti circola... Alla Provincia avrò pur qualche estimatore?!»

    «Sì... Circola che tu e il Gaeta siete la novella coppia di detectives della Bassa Val Scrivia,» lo interrompe.

    «Cosa vuoi?» ridacchia Dante. «Ci troveremo costretti ad aprire un’agenzia... Già me la vedo... Agenzia Investigazioni Derthona... All’ombra della Madonna della Guardia!...»

    Con un plateale gesto delle mani mima in aria l’insegna a caratteri cubitali dell’ipotetico ufficio.

    «Che stupido!» lo schernisce lei.

    «Sulle vetrine ci faccio scrivere: San Bernardino, Tortona-Manhattan, New York-ovviamente New York come filiale» indica i sottotitoli «Pedinamenti e inseguimenti in scooter, dato che di auto nemmeno di seconda mano se ne parla, e la bicicletta, come vedi, mi sfinisce.»

    «Perché ’sto Meregatti ha deciso di coinvolgerti? Di non investigare in prima persona?» torna a domandargli seria.

    «Mereghetti... Ti prego non storpiargli il nome che me lo ricordo permaloso come D’Alema!...»

    Fruga nella tasca e ne estrae l’involucro stropicciato delle Gauloises. Ormai la respirazione si è regolata su livelli standard e il calo di nicotina richiede una monodose urgente. Conta fino a dieci, poi, complice lo sguardo biasimevole di Mercy, opta per tenerla spenta tra le labbra.

    «Perché non lavora alle pagine di nera...» chiarisce. «Si occupa di roba leggera... Pagine degli spettacoli, cultura... Matrimoni. Quelle fesserie lì.»

    «Quindi cercando un professionista... Si è rivolto a te?»

    Chissà perché, ma Ferrero ci ha letto una nota graffiante. Però sorvola. Già è stato malizioso nell’abbinare la parola matrimoni al vocabolo fesserie. Meglio non insistere e scatenare una polemica.

    «Dice che non ha esperienza... In più me lo ricordo un cagasotto.»

    «Gaeta è già al corrente della cosa?» gli domanda lei, piccata.

    «Bah... Due righe... Gli ho solo letto al telefono il trafiletto così com’era scritto nelle pagine del giornale.»

    «Giusto per sapere se sono sempre io l’ultima ad essere informata?!» controbatte risentita senza dargli tregua, con il tono che si è alzato di un’ottava.

    Dante stima il grado di ebollizione da collera repressa, provando un minimo di colpa. Previsioni meteo: nuvole temporalesche in avvicinamento.

    «Eppure la volta scorsa ho dato anch’io una mano... Ho corso qualche pericolo, mi pare?!» lo incalza.

    «Va bene. Messaggio ricevuto! Datti una calmata! Vorrà dire che allargheremo a tre il numero dei soci.»

    «Ma dai...» ribatte. «Quando ti accorgi di aver fatto una figura da scemo devi sempre cavartela così... Buttandola sul comico...»

    «Ne parliamo davanti ad un caffè, ti va?» La invita ruffianamente. «Te l’avrei detto... Stavo solo aspettando il momento adatto.»

    Si sente un santo per aver rinunciato a poltrire sul sofà, seguendola in questa dura escursione su due ruote, quando su Sky c’era l’anticipo Toro-Samp. Rinunciare ai granata costa sacrificio. Eppure ha persino evitato di ascoltarne la radiocronaca con l’auricolare infilato nell’orecchio. Sarà che Dante Ferrero alla buona educazione non rinuncia. Sarà che in cresta alla collina il campo delle frequenze Rai è disturbato. Dovrebbe almeno essere comprensiva e lasciarlo fumare in pace. Invece ha cominciato a pressarlo togliendogli quel poco di respiro. Questa non è una donna, ma un martello pneumatico mascherato. Cazzarola! Non fosse che a letto ti diventa una gattina...

    Scatta il click dello Zippo e la fiammella azzurra appare, come la torcia di Olimpia, a rischiarare questa giornata loffia, attizzando la punta della sigaretta. Finalmente riesce ad inspirare una sana boccata di catrame, provando soddisfazione come se il Toro fosse già sul due a zero.

    ***

    Davanti al marocco che il Senegal gli ha servito al tavolino, il ricordo della spedizione per l’intera Route 66 è ormai un ricordo. Solo i polpacci sembrano non essere del parere.

    Questo diavolo d’un negher, titolare del bar caffè che affaccia su piazza Duomo, è un vero artista! Ha spolverato di cacao la schiuma, decorandoci una spirale aurea che ricorda lontane formule logaritmiche. Sarà pure un watusso ma dà paglia al resto dei gestori, cinesi e autoctoni del circondario. In più dà lavoro allo spettacolo di cassiera rumena dagli occhi mare di Olbia che, vista da quella fortunata prospettiva, ha uno stacco coscia che rianimerebbe un morto.

    Ma con Mercedes seduta a fianco c’è poco da distrarsi. Meglio far finta di seguire i risultati dell’anticipo alla sesta di campionato che Varriale chiacchiera dalla tv.

    A proposito di morti, però, Dante s’è ricordato la ragione della tappa al bar.

    Il tempo di intuire che Mercedes non si è persa un fotogramma delle sue stime sul diametro caviglia di Steliana e riprende, evitando di arrossire.

    «Allora... ti stavo dicendo del Mereghetti,» attacca il refrain sorbendosi il fondo della tazzina. «Succede che mi chiama al telefono e accenna a questa morte che lui trova... Parole sue... Singolare...»

    «Singolare!...» si sorprende Mercy. «Neanche sospetta! Tragica! Efferata!... Ha detto singolare?»

    «Racconta per filo e per segno le stesse cose che poi riscontro sul quotidiano... Tanto per verificare che non siano bacherozzi nel suo cervello, e capire cos’abbia trovato di strano in questa storia.»

    «E succede?»

    «Succede che il tutto corrisponde con quanto riferito dal Carletto...» chiarisce Dante «Insomma... Hanno trovato un cadavere seminascosto tra i cespugli nei giardinetti di piazza Castello... Stiamo parlando di Voghera.»

    «Chi l’ha trovato?»

    «Una banda di ragazzotti perditempo, intorno all’una di notte... L’ora giusta per una partitella sotto le finestre di chi dorme. Calciando una lattina vuota, uno di loro ha fatto gol spedendola, nemmeno a farlo apposta, tra gli arbusti. Sfiga vuole che nel recuperarla abbiano visto spuntare due estremità numero trentotto con scarpe rosso carminio e tacco a spillo dodici... Sono corsi immediatamente ad avvertire i carabinieri che hanno la caserma lì a due passi.»

    «E così salta fuori che si tratta di una puttana?» gli chiede Mercy «Ormai per tradizione consolidata, una donna che giri con scarpe sgargianti tacco dodici dev’essere per forza di cose una di quelle...»

    «Voghera ci ha costruito del folklore sulla saga delle tre P.»

    «Delle tre P? Che cavolo dici?»

    «Puttane, pazzi da manicomio e peperoni... Ma ormai credo che questi ultimi siano decisamente in minoranza.»

    «Spero in una ragione più consistente per poterla definire una puttana...» accenna con spirito gagliardamente femminile.

    «Il giornale riporta con garbo le sue generalità... Si tratta di una colombiana originaria di Santa Marta. Trent’anni... Tale Lourdes J.V. Professione: prostituta... Segnalata già una prima volta, circa un anno fa, alla stessa compagnia del comando carabinieri di via Verdi...»

    Mercy mima un gesto di disappunto.

    «È finita in almeno altre due retate... Questa è la precisazione che fornisce Mereghetti» afferma

    «Luoghi di lavoro abituali, il boulevard di via Amendola o il piazzale e giardini della stazione.»

    «E tu ti sei fatto l’idea, come dicevi, del solito regolamento di conti finito male tra la prostituta e il suo magnaccia. Perché?»

    «L’alternativa sarebbe un cliente impazzito, ma non è storia di tutti i giorni che uno si diverta a far fuori la battona con la quale ha appena scopato... Neanche se questa si fosse rifiutata di restituirgli il resto,» precisa coloritamente. «Scarterei anche l’ipotesi del maniaco... Del mostro... Fantasiosa! Finora la città si è dimostrata un posto tranquillo... Solita vita di provincia, grassa e paciosa.»

    La guarda.

    «Comunque ancora non ho idea di cosa il Mereghetti intenda per puzza di bruciato,» conclude, prima di alzarsi per raggiungere la cassa. A parte l’apprezzabile tornitura delle gambe, Steliana ha due polmoni da far invidia al décolleté della moglie di Giraudinho, ora che ci fa caso.

    «Sono quatro euri e cinquenta,» pronuncia con quei petali di labbra.

    Nemmeno il tempo di farsi cullare dalla fantasia quando la voce alle spalle lo fulmina.

    «Paga e pedala, zerbinotto!»

    «Ancora pedalare?! E che cazzo...!» protesta, mentre le dischiude galantemente la porta a vetri.

    L’aria sotto i portici di piazza Duomo sta rinfrescando. Frizzante al punto giusto. Mai come lo spirito di Mercedes, però. Pergiuda! Uno Sherlock Holmes simile farebbe proprio comodo.

    «Prima di pedalare volevo chiederti se sei dei nostri per una cena al Selvatico di Rivanazzano...» le domanda.

    «Devi farti perdonare qualcosa?» taglia corto Mercy, bizzosamente.

    «Devo incontrare ’sto benedetto Mereghetti... Ci siamo dati appuntamento al ristorante per cercare di chiarire questi suoi dubbi... E francamente non ho nessuna voglia si sorbirmelo per l’intera serata... Quello è come una gomma americana sotto la suola... Nemmeno ricordo più che faccia abbia... Tu mi terresti compagnia e poi... Sei socia oppure no della Premiata Agenzia Investigativa?»

    «Lui offre la cena e tu gli inviti ospiti a sorpresa?»

    «Gli ho già detto che non ci sarei andato da solo, e che comunque avrei offerto io... Se non si offendeva.»

    Tira su la zip del giubbotto fino alla gola e si incammina sotto i portici offrendole il braccio: «Ancora non mi è capitato di trovarne uno che si offenda... Bòja fàuss!»

    «Decisamente hai qualcosa da farti perdonare,» guizza via, accelerando il passo su corso Leoniero. Vista dal retro, infilata in quei jeans attillati, il suo fondo schiena guadagna cento punti su quello di Steliana. Cosa aveva pensato quella volta? Ah! Sì! Ha un culo perfetto come un liuto cremonese.

    1 Peder Mørk Mønsted (Balle Mølle, 1859 - Fredensborg, 20 giugno 1941) Pittore danese. È stato uno dei più brillanti paesaggisti del XX secolo.

    2 Angelo Fausto Coppi nato a Castellania è stato un ciclista su strada e pistard italiano. Soprannominato il Campionissimo o l’Airone, fu il corridore più famoso e vincente dell’epoca d’oro del ciclismo, ed è considerato uno dei più grandi e popolari atleti di tutti i tempi.

    3 Vedi Pier Emilio Castoldi, Tortona Nove corto. Un’indagine per Dante Ferrero, Fratelli Frilli Editori, 2015.

    SECONDO CAPITOLO

    In effetti se lo ricordava diverso. Il Carlo Mereghetti di quinta liceo era un giovanotto più che belloccio. Un ganzo senza brufoli sulla fronte e una chioma di capelli biondi, così fluenti da somigliare alla Barbie. Le ragazze lo rincorrevano come si insegue la scia di un buon profumo. Feromoni. In più gli girava del grano in tasca che, in genere, per certe sottane è un’attrattiva irresistibile. Via un filarino sotto un altro. Mosche sul miele... E per il resto dei moscerini... Seghe. Sarà che il resto degli adolescenti, Dante compreso, erano ancora cessi grezzi con l’espressività e il carisma di un paracarro.

    Quello che gli si para davanti, invece, mostrando di averlo riconosciuto nonostante gli anni trascorsi... Cribbio... Quello è suo nonno! Delle apollinee ciocche dorate sono rimaste tracce di stoppa da idraulico sulle tempie. Il resto è una piazza lustra come un uovo di stegosauro, se non fosse per quel riporto più orribile che evidente.

    «Mereghetti?! Carlo?...» balbetta sbigottito, quando se lo ritrova a un passo.

    «Eh... Beh! Cosa vuoi... Gli anni passano,» gli rimbalza quell’altro, disincantato.

    «Eh cazzo! Ma per te ne sono passati il doppio!»

    La gomitata che Mercedes gli piazza alle costole certifica la volgarità

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