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Gli Spinosi Cactus Di Palestina-Israele
Gli Spinosi Cactus Di Palestina-Israele
Gli Spinosi Cactus Di Palestina-Israele
E-book796 pagine12 ore

Gli Spinosi Cactus Di Palestina-Israele

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Info su questo ebook

"Nella ormai quasi centenaria tragedia israelo-palestinese parole come "processo di pace","road map", "sicurezza", sono state solo fumo negli occhi da parte di Israele, cavilli pretestuosi per prendere tempo e continuare nel suo astuto progetto di accaparrarsi le terre palestinesi, occultando gli eventi nella loro cruda semplicità e facendo passare le conseguenze per cause. Israele non ha MAI rischiato di scomparire, al contrario, non ha fatto che rafforzarsi ed espandersi con la complicità del mondo – soprattutto dei potenti Stati che a suo tempo non ostacolarono il sorgere del nazismo e poi accolsero solo in minima parte i profughi ebrei, ed ora pensano di riscattarsi sostenendo l' "industria dell'Olocausto" ( titolo di un libro dell'ebreo Norman Finkelstein). (…)

Perché dovremmo avere paura d arrabbiarci?

Perché dovremmo temere i nostri sentimenti se sono basati su inoppugnabili fatti?

Lo schema che oppone la ragionevolezza alla passione è assurdo, perché spesso un atteggiamento passionale è il risultato di un processo razionale. La passione non è sempre irragionevole (…). Non credo nella passione irrazionale. Ma sono convinta che non esista nulla di meraviglioso quanto un'ardente passione intellettuale, e questa mi guida ormai da decenni nel seguire incessantemente la tragedia del popolo palestinese e denunciare le sempre più pesanti prevaricazioni di Israele".
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2021
ISBN9791220319553
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    Anteprima del libro

    Gli Spinosi Cactus Di Palestina-Israele - Claudia Berton

    2009

    La guerra delle parole

    "La democrazia marcisce

    nel caricatore del fucile, ed è così che la si misura,

    con la gittata dei proiettili."

    (Partaw Naderi, afgano, XX secolo)

    Quante volte ormai mi sono trovata in questa situazione? In procinto di tenere, per una locale università del tempo libero, l’ennesima conferenza sul Conflitto israelo-palestinese, per prendere tempo e placare l’agitazione interiore, sposto la bottiglietta di acqua minerale, regolo il microfono, sistemo ancora una volta il voluminoso contenitore di appunti - che, al solito, non mi servirà ma che almeno mi rassicura - controllo che le carte geografiche siano appese in modo visibile – quando si parla del dramma palestinese, è imprescindibile mostrare le mappe, ma sui giornali non appaiono mai, come notava Edward Said, e sfioro con le dita l’ennesimo riassunto del riassunto che ho tracciato per fissare l’ordine degli argomenti che voglio trattare, anche se so per esperienza che non ne farò uso. La passione e la mole di informazioni che vorrei trasmettere mi porteranno infatti a vagare e divagare, anche seguendo le reazioni del pubblico che ho di fronte, un pubblico in genere difficile perché poco o affatto esperto – a parte qualche eccezione – sulla questione: il che in effetti non sarebbe un problema. Il fatto è che, per l’età non più giovane, queste persone hanno pregiudizi ben consolidati e – quel che è peggio - continuamente confortati dall’arsenale mass-mediatico. Per citare un aforisma di Marco Travaglio - personaggio peraltro le cui opinioni sulla questione palestinese ricalcano pedissequamente la trita versione massmediatica filoisraeliana - mi si richiederebbe forse, per intrattenerli senza suscitare problemi, di occultare i fatti per non disturbare le opinioni, ma questo è esattamente l’opposto di quello che mi propongo di fare, perché – come disse a suo tempo Marat – l’opinione si fonda sull’ignoranza e l’ignoranza favorisce il dispotismo, cioè in questo caso l’arrogante sprezzo delle leggi internazionali da parte dei politici israeliani.

    Di solito, inizio questo tipo di incontri presentando le mie fonti e sottolineando – con un’operazione di captatio benevolentiae di cui mi vergogno di fronte a me stessa - che si tratta di storici ebrei israeliani che lavorano presso le principali università del paese, o di studiosi ebrei che vivono e insegnano in Inghilterra, o ancora di studiosi inglesi. Potrei aggiungere che ci sono anche ottimi storici arabo-palestinesi ma - ben consapevole del clima generale di sospetto nei confronti del mondo mediorientale - me ne astengo. Brandendo il foglio in cui ho indicato la mia bibliografia, dopo aver riassunto il contenuto dei vari testi lo lascio a disposizione di chi volesse consultarlo. Sottolineo quindi con ammirazione, assolutamente autentica, il lavoro degli storici israeliani apparsi negli anni ottanta, i cosiddetti nuovi storici, definizione che Tom Segev, uno di loro, ha rifiutato sostenendo che prima degli anni ottanta del Novecento, periodo in cui molti documenti vennero desecretati, non esistevano storici israeliani, ma solo propagandisti del sionismo.

    A questo punto in genere comincio a scoraggiarmi, rendendomi conto che gran parte del mio pubblico confonde sionista con semita e non ha alcuna idea della differenza fra ebrei sefarditi e askhenaziti. Spiego che semiti sono anche gli arabi e divago esemplificando le molte somiglianze fra lingue cugine come l’arabo e l’ebraico, ed esibendo le mie credenziali linguistiche: un corso di ebraico biblico e l’ormai decennale studio della lingua araba. Il tempo passa veloce in questo basilare slalom tra concetti essenziali. Parlo a raffica – conscia quantomeno che il mio eloquio non è soporifero – ma il fatto che io voglia servire la verità, non la propaganda, attraverso un discorso anche culturale, disorienta gente che al linguaggio della propaganda è purtroppo assuefatta.

    Esaltata dalla mia passione per la semantica – e per l’obiettività - in un paio di queste conferenze mi sono dilungata sul potenziale esplosivo delle parole nei riguardi della questione israelo-palestinese. Dire vado ad Israele, vado in Palestina, vado in Terra Santa sottende infatti tre diversi approcci, tre diversi punti di vista. Il giornalista olandese Joris Luyendijk (NOTA: Cfr. Presque humains, Images du proche-Orient, Podium, Amsterdam, 2006), critica la stampa occidentale che, ricordando continuamente ai lettori la minaccia terroristica non spiega anche il terrore che si nasconde dietro la parola occupazione. Nonostante il numero di civili palestinesi uccisi a causa della quarantennale occupazione illegale israeliana della Cisgiordania e di Gaza sia quasi quattro volte superiore a quello dei civili israeliani morti a seguito di attentati, i corrispondenti e commentatori occidentali – e i politici italiani, aggiungo – che evocano i ‘sanguinosi attentati suicidi’ sostenendo il diritto di Israele a difendersi, non parlano mai della ‘sanguinosa occupazione’ . Né alle pressioni sull’Autorità palestinese perché dimostri di fare tutto il possibile contro la violenza corrispondono altrettante pressioni su Israele perché faccia tutto il possibile contro l’occupazione. Non ci sono parole neutre in questa lunga tragedia, sottolinea Luyendijk. Per presentare, ad esempio, un fatto come l’uccisione di tre palestinesi da parte dell’esercito israeliano in Cisgiordania, a seconda del punto di vista si potrebbe dire: oggi in Giudea e Samaria/ nei territori occupati/ nei territori palestinesi/ nei territori contesi/ nei territori liberati tre palestinesi innocenti/tre terroristi musulmani sono stati eliminati preventivamente/ brutalmente assassinati/ uccisi dal nemico sionista/ dalle truppe d’occupazione israeliane/ dalle forze di difesa israeliane. In ogni caso resta il fatto – un fatto, non un’opinione - che a morire sono stati tre palestinesi, in un territorio di cui le Nazioni Unite hanno riconosciuto l’occupazione illegale. Una occupazione che viene praticata senza tenere conto delle Convenzioni di Ginevra che, adottate nel 1949 per impedire il ripetersi delle pratiche naziste, tutelano i civili sotto occupazione. E non ci avvicineremo certo alla verità se porremo questo fatto sostanziale e inoppugnabile fuori dal suo contesto, imbozzolandolo in una rete di parole fuorvianti. Come scrisse Hannah Arendt (NOTA: Hannah Arendt, filosofa ebrea non praticante e non sionista, era una studiosa di teologia cristiana e di filosofia tedesca. Al momento del voto sulla spartizione della Palestina interruppe la propria collaborazione critica col sionismo e litigò con Gerschom Scholem, celebre studioso ebreo sionista),i fatti sono al di là dell’accordo e del consenso (…). Un’opinione sgradita può essere discussa, respinta, o si può giungere a un compromesso su di essa, ma i fatti sgradevoli possiedono una esasperata ostinazione che può essere scossa soltanto dalla pura e semplice menzogna. Il fatto è che dal 1948 Israele si è retto su un decalogo di menzogne che è diventato la Vulgata dell’Occidente.

    E’ un dato di fatto, non un’opinione, che nella quasi totalità i mass-media occidentali contribuiscono efficacemente al radicarsi di queste menzogne facendo uso di due pesi e due misure anche per quel che riguarda il linguaggio. Perché un colono ebreo ortodosso che reclama la terra che gli è stata donata da Dio è un ultranazionalista mentre un musulmano che fa lo stesso ragionamento è un fondamentalista? Perché un governo arabo che sceglie una politica che non conviene all’Occidente è antioccidentale, mentre la stessa definizione non viene mai applicata nell’altro senso? Perché Saddam Hussein è stato sanzionato, bombardato e punito per aver invaso il Kuwait (NOTA: Storicamente, il Kuwait era tradizionalmente lo sbocco della Mesopotamia sul mare, e furono gli inglesi a separarlo dal suo naturale entroterra) mentre l’occupazione della Cisgiordania non è stata nemmeno punita con delle minime sanzioni? Un politico americano è mai stato definito radicalmente antiarabo? Un politico israeliano che crede che solo la violenza possa proteggere il suo popolo è definito un falco: ma si è mai sentito parlare di un falcopalestinese? No, in questo caso si parla di un estremista quando non di un terrorista. I politici israeliani che credono al dialogo sono colombe, ma un palestinese che sceglie la stessa via è solo un moderato, il che lascia intendere – scrive Luyendijk – che malgrado la violenza alberghi nel cuore di ogni palestinese, quello è giunto a moderare la sua natura profonda. E mentre Hamas odia Israele, nessun partito o politico israeliano ha mai odiato i palestinesi, neanche quando i suoi dirigenti approfittano del loro ruolo governativo per predicare le espulsioni. Ma queste espulsioni non sono piuttosto, a partire dal 1948, una vera e propria pulizia etnica, lo stesso crimine per cui lo sfortunato Milošević è stato – caso più unico che raro – bombardato e incriminato dal Tribunale penale internazionale dell’Aia? E perché mai la proposta di ogni infimo ritiro di Israele dai territori illegalmente occupati viene presentata come concessione invece che come restituzione? Si tratta forse di una concessione se Israele rispetta un impegno preso in un trattato che ha firmato? E possono forse definirsi negoziati quelli tra israeliani e palestinesi – cioè tra occupanti e occupati – sapendo che il termine negoziati implica concessioni reciproche tra due parti sullo stesso piano? Allo stesso modo che significato può avere l’espressione la violenza deve cessare da ambo le parti quando tra le due parti vi è un abisso, dal momento che l’una è uno Stato - la quarta potenza militare al mondo - mentre l’altra sta subendo da sessant’anni un vero e proprio etnocidio? E perché non ho mai letto da nessuna parte che gli attivisti ebrei antisionisti concedono interviste ad Al Jazeera e alla televisione iraniana, e che i rabbini antisionisti sono soliti bruciare in pubblico la bandiera israeliana per esprimere il loro rifiuto dello Stato ebraico?"

    L’importantissima guerra delle parole denunciata da Luyendijk è stata condotta da Israele con la spregiudicatezza che gli è propria, e se la situazione non fosse così tragica, ci sarebbe da ridere per le sottigliezze con cui i suoi politici hanno sempre aggirato la legge internazionale, arrampicandosi sugli specchi con la forza della loro evidente impunità, più che di una reale abilità dialettica. Nel 1967 ad esempio, quando la politica americana non era ancora asservita alle lobbies ebraiche, le Nazioni Unite approvarono la risoluzione 242 che dichiarava inammissibile l’acquisizione di territori con la guerra e ingiungeva ad Israele di ritirarsi from occupied territories. I politici israeliani, però, giocando con il fatto che la lingua inglese in questo caso non prevede l’articolo determinativo, successivamente replicarono di avere inteso da territori occupati, quindi non da tutti i Territori Occupati! Allo stesso modo, dopo che negli accordi del 1978 di Camp David tra Begin e Sadat sotto la supervisione di Carter Israele a denti stretti ebbe riconosciuto il diritto del popolo palestinese alla piena autonomia, lo stesso Begin – il terrorista dell’Irgun che venne insignito del Nobel per la pace - puntualizzò di avere inteso…autonomia personale! Se nel 1993 i malaugurati accordi di Oslo stabilirono fra l’altro che a Gaza i pescatori potessero pescare fino a quindici miglia dalla costa, successivamente Israele rettificò cambiando quindici con tre, per le sue solite insindacabili e non specificate questioni di sicurezza: peccato che entro tre miglia dalla costa non ci fosse pesce. Ma questo è il sadico trattamento che viene quotidianamente inflitto agli arabi di Palestina. La spregiudicatezza dei politici sionisti è diabolica, ma essi hanno buon gioco solo grazie all’impunità che l’Occidente ha attribuito al loro paese. La questione israelo-palestinese è davvero la migliore esemplificazione della vecchia fiaba del Lupo e l’Agnello di Esopo: quanta saggezza nelle antiche storie che abbiamo tradotto da bambini! In Israele le parole hanno un senso orwelliano, commenta Jeff Halper, pace vuol dire suicidio, la guerra corrisponde alla pace, così come ritirarsi in realtà vuol dire espansione e rafforzamento (NOTA: Cfr. Pacifisti da combattimento di Giuliana Sgrena in Il Manifesto, 4 giugno 2006. Jeff Halper, a lungo Professore di antropologia alla Ben Gurion Uniersity, è analista politico e direttore del Comitato israeliano contro la demolizione delle case (Icahd) - Israeli committee against house demolitions), direttore della rivista critica pubblicata dall’Alternative Information Centre e attivissimo nel movimento pacifista. Nel 2002 Halper fu arrestato mentre protestava contro la demolizione di 58 case a Refah da parte dei mezzi corazzati di Sharon).

    Guerra di parole e sequestro del linguaggio sono anche le parole cancellate, cioè i nomi degli oltre quattrocento villaggi palestinesi distrutti a partire dalla Nakba, la cacciata degli arabi di Palestina nel 1948. In questo caso sono i cactus (NOTA Più propriamente, fichi di Barberia, o fichi d’India, appartenenti alla famiglia delle cactacee), tenacemente ostinati - allo stesso modo dei fatti rispetto alle opinioni - a rendere testimonianza. Questi pazienti cactus che in siepi delimitavano le proprietà palestinesi, per quanto sradicati tendono infatti a rispuntare, segnalando qui e là i villaggi distrutti e privati persino del loro nome in una feroce damnatio memoriae. In arabo cactus si dice saabar, parola che ha la stessa radice di sabr, pazienza, una qualità molto palestinese ma molto poco israeliana, come scrive Michel Warschawski (NOTA: Sulla Frontiera, Ed. Città Aperta, 2003. Nato a Strasburgo in una famiglia di rabbini, a sedici anni si trasferì in Israele per compiervi studi talmudici, ma divenne invece uno dei più noti esponenti della sinistra radicale israeliana. E’ stato varie volte in carcere per aver collaborato con organizzazioni palestiensi fuorilegge). In ebraico sabrà è il fiore/frutto del fico di Barberia, e da questo nome vennero chiamati sabraim i giovani nati in Israele dopo il 1948, che si volevano duri esteriormente ma teneri e dolci all’interno. Questi sabrà però - simbolicamente germogliati su siepi di pazienti cactus palestinesi sradicati e negati – sono fioriti su una terra promessa loro al di fuori di ogni diritto solo per i giochi di potere dei vincitori della Grande Guerra: una terra strappata con l’inganno, con una spregiudicata conquista e con la complicità del cosiddetto mondo civile che non aveva saputo contrastare la politica da cui era scaturito l’Olocausto.

    Per raccontare al mio pubblico queste sottigliezze semantico-simboliche, ho spesso consumato una buona metà del tempo che mi era concesso. E dopotutto questo tema - per quanto di primaria importanza – mi allontanava dai fatti inoppugnabili cui avrei dovuto concedere il massimo spazio. Ma come si può, in poco più di novanta minuti, contestualizzare in parole semplici una vicenda così dolorosa e complicata? D’altro canto, fuori da questo singolarissimo contesto non si può comprendere (nel senso etimologico di prendere nella sua completezza) la tragedia israelo-palestinese. E come si può prescindere dal valoroso tentativo di sgomberare il campo dalle incrostazioni di una propaganda quasi uniformemente indiscussa, che è diventata vulgata comune al punto che alla prima affermazione controcorrente si viene accusati di essere – orrore degli orrori - antisemiti? Più di una volta, lo confesso, ho avuto la tentazione di rispondere con una boutade: Oh, certo che no, non sono antisemita, io amo gli arabi!: ma il pubblico delle università della terza età e del tempo libero – cioè l’italiano medio, e questo ad essere ottimista - non ha molta dimestichezza con i semiti, tra i quali mi è spesso capitato di vedere collocati anche gli arianissimi iraniani, e non avrebbe dunque compreso l’ironia.

    In seguito, ho pensato che sarebbe stato meglio affrontare la questione in medias res, smantellando uno per uno i capisaldi della vulgata israeliana. Li conoscevo molto bene perché erano stati moneta corrente – e indiscussa – nella mia famiglia d’origine: Hanno trasformato un deserto in un giardino, Era giusto dare loro una terra, dopo l’Olocausto, La terra l’hanno comprata, e via di seguito. Che da questo scenario mancassero, stranamente, gli arabi di Palestina che pure in quella terra avevano abitato ininterrottamente negli ultimi tredici secoli, non aveva mai innescato alcun sospetto: se c’erano, facevano parte del paesaggio, non contavano più degli alberi, delle pietre, non avevano storia, o la loro storia non interessava a nessuno. In sostanza, era sottinteso che erano degli incivili, dei pigri, e certo era colpa loro se erano stati cacciati!

    Ricordo un appassionante film che vidi nella prima adolescenza, Exodus, tratto dall’omonimo romanzo di Leon Uris, un ex marine statunitense di origini ebraiche. Al tempo, ebbi chiara la sensazione che per i miei genitori - che avevano vissuto in prima persona la tragedia della seconda guerra mondiale e delle deportazioni naziste - la riscossa ebraica mostrata nel film avesse una portata profondamente catartica. Quanto a me, amai Paul Newman/Arì Ben Canaan e le sabrà come sua sorella Giordana – belle e altrettanto coraggiose – e nel mio innocente romanticismo di bambina desiderai essere parte di quella gloriosa epopea, sedere con Newman sulla terrazza del King David di Gerusalemme che Begin – il futuro Nobel per la pace - avrebbe di lì a poco fatto saltare uccidendone un’ottantina di ospiti inglesi, arabi ed ebrei. Su questo però il film non si soffermava. A dire il vero, rivedendolo in anni recenti con una disposizione d’animo fortemente prevenuta contro il sionismo, sono stata invece sorpresa della sua sostanziale fedeltà ai fatti, almeno per quel che riguardava gli ebrei. Anche in Exodus, però, degli arabi non si parlava affatto: nello scenario erano sullo sfondo, praticamente inesistenti. La verità leggermente deformata, però, è ancora più pericolosa, più difficile da combattere, di una totale menzogna. Poco dopo essere uscito all’inizio degli anni sessanta, il film sparì dagli schermi: in quegli anni infatti non si voleva – o non conveniva - irritare gli arabi. Né ci si sognava di celebrare la giornata della memoria: del resto, Israele non aveva ancora bisogno di difendere il proprio operato, visto che la sua politica – o almeno la forma che offriva al mondo - godeva di un generale consenso.

    Nel 1967, ero accanto a mio padre davanti al teleschermo che trasmetteva le immagini della guerra dei sei giorni, e facevamo il tifo per Israele, il piccolo, eroico David che rischiava di essere annientato ma che, con Dio dalla sua parte, sbaragliava in men che non si dica il barbaro Golia arabo. Ricordo che mio padre – il mio sensibile, mite e coltissimo padre - rideva dei soldati egiziani sbandati e sconfitti, con le loro ciabatte di plastica; rideva dei loro camion obsoleti, della loro aviazione distrutta, dei carri armati abbandonati nel deserto che avrei visto di persona una ventina di anni dopo – nel Sinai di nuovo egiziano dopo gli accordi di Camp David – ormai arrugginiti e semisepolti dalla sabbia. E ancora non nutrivo alcun dubbio – e nessun interesse – per versioni diverse da quella in cui credevano i miei genitori. Alle vicende della Palestina sono arrivata attraverso lo studio dell’impero britannico – ho insegnato per più di vent’anni letteratura inglese al Liceo – ed è su libri inglesi che ho toccato con mano la tragedia della dissennata spartizione del Medio Oriente operata dalle potenze vincitrici dell’orrendo massacro che è stato trionfalisticamente chiamato Grande Guerra. Ho conosciuto i dettagli, che la propaganda e i libri di scuola scritti dai vincitori trascurano ma che spesso fanno la differenza, e la direzione del mio sguardo è mutata per sempre. In un certo senso, è finita così la mia lunga infanzia: non sarei più stata quella di prima.

    Nel 1992, dopo essermi battuta contro la vulgata che osannava alla necessità di combattere la prima, funestissima guerra del Golfo, lessi un libro geniale Fuori dall’Occidente, ovvero Ragionamento sull’Apocalisse il cui autore, Alberto Asor Rosa, analizzava come, per la prima volta nella storia, uno stato – gli USA – si fosse arrogato l’imperium universale, cioè la libertà di essere allo stesso tempo, da solo, giudice, gendarme e boia di qualsiasi conflitto a livello mondiale. Asor Rosa constatava anche come l’unità dell’Occidente consista in questo stato di cose sicché, nonostante una guerra possa restare circoscritta come localizzazione ed effetti immediati, assurge però a significanza mondiale, in quanto gli effetti che ne conseguono investono tutti, e a nessuno è consentito di sottrarvisi. Se, infatti, ci si sottrae, si entra nella schiera dei reprobi. La lucidità di questa analisi è stata confermata un decennio dopo nel caso dell’attacco punitivo all’Afghanistan e della seconda guerra del Golfo. Nel libro succitato Asor Rosa parla anche del ruolo svolto, in questo terribile tornante dell’Occidente, da Israele che dell’Occidente è diventato una frontiera, o una provincia, avendone ripreso e praticato fino in fondo la caparbia ostinazione a mettere il proprio principio, purificato da ogni contaminazione esterna, al centro del mondo.

    Al contrario, nella sua essenza l’ebraismo era puro Oriente e in quanto tale ricordava all’Occidente il suo limite: infatti, come scrive Asor Rosa, della contraddizione che ha animato la storia dell’Occidente, è stato uno dei principi più attivi, irriducibile - nonostante persecuzioni e pogrom - all’assimilazione che l’occidente ha sempre preteso come forma concreta di un vero e proprio atto di subordinazione - subordinazione culturale, ideologica, comportamentale - ai modelli di potere dominanti. Israele è stato il risarcimento all’ebraismo per l’Olocausto, cioè il riconoscimento della legittimità di un luogo fisico esterno all’occidente, nel quale l’ebraismo potesse ricostituirsi in nazione e, quel che è peggio, in stato. (…) E, come l’Occidente è abituato da sempre a fare, questa operazione è stata condotta in porto non con il proprio sacrificio, - sacrificio o rinuncia di idealità, di pregiudizi, di tradizioni, di territori, - ma con il sacrificio di popolazioni altre, incolpevoli e non consenzienti. La colpa dell’occidente verso l’ebraismo è stata risarcita, assumendosi il carico di una colpa altrettanto grave verso l’islam. L’occidente non può fare atti di giustizia; può soltanto passare da un atto d’ingiustizia all’altro, cercando semplicemente di iniettare il primo nel secondo.

    Un altro tragico aspetto di questa tragicissima vicenda è che, per diventare Israele, l’ebraismo, per la prima volta nella sua lunga storia, ha dovuto accettare la logica dell’Occidente E’ nato uno stato, e si è dissolto un popolo. Si è sviluppato un esercito meraviglioso, una forza invincibile, e si sono dissipati come nebbia al sole una tradizione e un pensiero. (…) L’occidente intero è più forte per merito dell’esercito e dello stato di Israele, continua Asor Rosa, ma senza pensiero ebraico, è più povero e al tempo stesso più rozzamente, banalmente totalitario. (…) Una grande fonte del pensiero mondiale, più volte alternativa alla cupa gravezza e all’ossessione di dominio dell’efficientismo tecnologico occidentale, si è disseccata. Nel libro La guerra (NOTA: Edizione Einaudi, 2002), Asor Rosa definisce catastrofico questo passaggio all’Occidente per cui da un popolo di pensatori e di religiosi è nato un popolo di zeloti.

    Leggendo questi libri mi resi conto per la prima volta dell’entità della perdita che la nascita di Israele ha inflitto alla civiltà e alla giustizia. Ma come raccontare in una manciata di minuti a un pubblico sostanzialmente prevenuto tutte le immagini che le parole di questo libro mi avevano portato alla mente? Le mie passeggiate nel cimitero ebraico di Venezia; i racconti degli scrittori arabi sulla loro Gerusalemme, i cui resti evocativi ho conosciuto in una sera tiepida durante la prima Intifada, nel suq deserto e un po’ spettrale per lo sciopero dei palestinesi; la verde Palestina senza lo scempio delle colonie, del cemento, del filo spinato, senza l’oltraggio del mostruoso, costosissimo muro della vergogna; le storie di ordinaria quotidianità di centinaia di migliaia di arabi di Palestina privati della loro casa, della patria e in moltissimi casi anche della vita; i milioni di loro discendenti che, ancora in possesso della chiave e dei certificati di proprietà delle loro abitazioni perdute, nascono, vivono e muoiono nell’esilio di campi profughi al di fuori della Palestina; il faustiano Grande Rabbi Loew, il Maharal della Praga magica del suo protettore Rodolfo II d’Absburgo, la cui tomba ho onorato nel suggestivo cimitero ebraico di quella città - egli che avrebbe imposto sulla fronte del Golem le tre lettere della parola ebraica che significa verità, per cui togliendo l’Alef, prima lettera dell’alfabeto, possente simbolo di unità, non rimangono infatti che Mem e Tau, che in ebraico significano morte; la Qabbalà cui mi sono avvicinata nelle pagine dello Scholem; la splendida civiltà andalusa con Averroè e Maimonide, futuro medico del grande Saladino al Cairo, quando ancora le vie del Mediterraneo erano aperte e univano, invece di dividere; lo yiddish della grande tradizione askhenazita; il ladino e il judezmo che - ricchi di termini del castigliano del XV secolo – ho ritrovato a Salonicco, nei ricordi dei discendenti della diaspora sefardita forzata dai Re Cattolici di Castiglia e Aragona, i quali trovarono ottima accoglienza sotto i sultani ottomani; ancora a Salonicco, la sinagoga-moschea dei ma’min, i discendenti di Sabbatai Zevi il visionario di Smirne; le case, le moschee della Palestina i cui resti, sopravvissuti ai feroci bulldozer di Israele, si sbriciolano tra le irriducibili siepi di cactus; l’antica sinagoga nel cuore di Djerba, con il suo interno azzurro e l’ormai esigua comunità ebraica che, indistinguibile nell’aspetto dagli arabi locali, è tra le poche tracce rimaste di una secolare convivenza arabo-ebraica continuata fino agli anni sessanta del Novecento; l’antica sinagoga di Hanià, a Creta, e le tombe dei suoi rabbini ombreggiate da alberi cui stanno appesi i nastri dei desideri così comuni in Oriente; ma soprattutto, forse ancora peggiore di tutte queste dolorose, irrecuperabili perdite della civiltà umana, l’odio che - cresciuto in più di sessant’anni di violenza inflitta a un intero popolo – è destinato ad infettare inevitabilmente anche le prossime generazioni. Possono forse la tremenda ingiustizia e le perdite subite dagli arabi di Palestina – la loro Nakba, la catastrofe – e in aggiunta la perdita dell’anima dell’ebraismo, che era un’anima orientale, essere ritenute accettabili in cambio di Israele, del suo pensiero unico, della sua arroganza tutta occidentale visualizzata dai suoi soldati superdotati delle armi più micidiali, così da non distinguersi affatto dai soldati statunitensi e da non essere nemmeno lontanamente associati alla figura tradizionale – vergognosa per i sionisti - dell’Ebreo errante, perseguitato? Può forse tutto questo olocausto placare le vittime dell’Olocausto?

    Quale ritorno a Sion?

    "La mia storia a saccheggio.

    Saccheggio d’ossa di padri,

    avi proibiti, come perdonare?"

    (Tawfiq Zayyad, poeta palestinese)

    A volte, dopo una mia conferenza, sono stata accusata da qualcuno di avere esposto le vicende storiche dal punto di vista dei palestinesi, e rivendico pienamente questo diritto. Dovrei forse esporle da quello dei vincitori che tutti già conoscono essendo la vulgata indiscussa della politica e dei media di quell’Occidente di cui Israele è fin dalla sua nascita membro a pieno titolo? In ogni modo, e questo non smetterò di sottolinearlo, io non mi occupo di punti di vista ma di inoppugnabili fatti, soprattutto dei fatti distorti, rimossi o più semplicemente negati che ho scoperto qui e là nelle documentate pagine dei libri che cito alla fine di questo testo, per cui sento il dovere di ricollocare le vicende della Palestina nel loro contesto reale. E tanto più in questi giorni in cui Gaza viene massacrata dalla quarta potenza militare al mondo - che detiene illegalmente dalle duecento alle quattrocento testate nucleari, non essendosi nemmeno mai preoccupata di firmare gli accordi di non-proliferazione - allo stesso modo del Pakistan, altro storico alleato degli USA - mentre i mass-media parlano di guerra come se a combattersi fossero due Stati indipendenti e sovrani.

    Israele – dove, con una popolazione poco maggiore di Los Angeles, si parlano trentadue lingue e si contano più di venti partiti – è uno Stato tutt’altro che omogeneo. Di fatto, per quanto sia ritenuto una democrazia - mentre etnocrazia sarebbe un termine più appropriato - è una democrazia assai anomala, a cui il laico Ben Gurion, il più famoso dei padri fondatori, non riuscì nemmeno a dare una Costituzione per non rompere la fragile intesa tra gli ebrei che teneva insieme il nuovo stato (NOTA: Cfr. Susan Nathan, Shalom, fratello arabo. Ed. Sperling & Kupfer, 2005. Nata in Inghilterra da un’importante famiglia ebraica sionista, nell’infanzia conobbe l’apartheid in Sudafrica, terra d’origine del padre. A 50 anni si trasferì in Israele, nella cittadina araba di Tamra), cioè soprattutto per non irritare la componente religiosa che riconosceva come unica legge valida la halakhah, il sistema giuridico proprio del giudaismo, basato sulla Torah e sviluppato da successive interpretazioni rabbiniche. In mancanza di una Costituzione si ricorse all’escamotage di istituire undici Leggi fondamentali. Si pensò anche di concedere agli haredim – gli ebrei ortodossi antisionisti che i sionisti consideravano un triste retaggio della Diaspora – la deroga alla legge del servizio militare obbligatorio (NOTA:Pur se esentati, essi godono dei molti benefici per cui la maggioranza dei soldati si arruola. Gli arabi israeliani, sia cristiani che musulmani, ovviamente non si arruolano – tranne che in pochissimi casi - per motivi politici. I beduini invece possono prestare servizio volontario, di solito nel Corpo dei cacciatori del deserto. I drusi hanno invece l’obbligo di prestare servizio militare) e si attribuì al Rabbinato ortodosso ampia facoltà di giurisdizione su aspetti legati a nascita, morte, matrimonio, regole alimentari, nonché il potere di determinare l’ebraicità di una persona.

    Finora i legislatori israeliani si sono rifiutati di stendere una Costituzione proprio perché risulterebbe priva di legittimazione internazionale se non includesse quei principi di uguaglianza in grado di rafforzare la possibilità d’azione della minoranza araba contro gli atti discriminatori perpetrati dagli enti statali, scrive Susan Nathan (NOTA: Nathan, op cit., pagg. 100-1). Al suo posto Israele ha costruito, invece, un sistema legislativo che maschera con cura tale disparità: per fare un esempio, se la Legge del ritorno afferma nero su bianco di offrire speciali privilegi agli ebrei, altre attuano la stessa distinzione senza essere altrettanto esplicite; altre ancora, così come vari decreti, si riferiscono soltanto a chi risulta idoneo per il servizio militare, che ancora una volta equivale a dire ai soli ebrei. Mancando una Costituzione, manca di conseguenza una codificazione di diritti di base, per cui l’uguaglianza, la libertà di opinione e diritti sociali come sanità, welfare, diritto al lavoro e all’istruzione non sono garantiti per legge, mentre importanti diritti collettivi nazionali in base ai quali viene determinata, per esempio, l’allocazione delle risorse, sono riconosciuti solo ai cittadini ebrei.

    Va ricordato che nella Dichiarazione d’indipendenza pubblicata il 14 maggio 1948 allo scadere del Mandato britannico, mentre si proclamava la fondazione di uno Stato ebraico in Palestina, con una contraddizione in termini si prometteva di difendere la completa uguaglianza sociale e politica di tutti i suoi cittadini, senza distinzione di religione, razza e sesso e ci si impegnava a redigere una Costituzione entro il I ottobre 1948. Quanto sono labili le promesse sioniste!

    In questa strana democrazia dove sono in vigore leggi religiose, la halakhah, accanto a leggi secolari, non c’è dunque separazione tra stato e chiesa (ma qualcuno ha mai criticato questa identificazione che tanto viene invece stigmatizzata nell’islam?); per legge, tutti i cittadini israeliani devono essere classificati in base alla religione a cui appartengono – giudaismo, islam, cristianesimo – e, per evitare matrimoni misti, non ci si può sposare se non con rito religioso, il che rende impossibili le nozze tra persone di fedi diverse, a meno che uno dei due non si converta all’ebraismo. Anche il divieto ebraico dell’allevamento del maiale è imposto da una legge, per quanto vi siano allevamenti sospesi da terra, così da aggirare il divieto di contaminazione. Poiché il giudaismo è religione di Stato e lo Stato è dichiaratamente lo Stato degli ebrei, non sarebbe più corretto definire Israele uno stato etnico che pratica apartheid, visto che democrazia significa che lo stato è di tutti i suoi cittadini? I cittadini arabi, invece, pur avendo il diritto di voto (NOTA: I deputati arabi alla Knesset di fatto sono sempre stati meno di dieci: sembra che, pur non esistendo una legge che fissa un limite al loro numero, un vincolo venga imposto di fatto – in accordo con gli accorgimenti adottati da Israele anche in altri settori della vita quotidiana, allo scopo di salvare le apparenze - da un sistema elettorale e da una delimitazione dei collegi concepita in modo tale da ottenere un simile risultato) vengono discriminati - in campo economico, educativo, socio-sanitario - da molte leggi, come quella sulla cittadinanza, che va contro i non-ebrei, o quella fondiaria che vieta agli arabo-israeliani - il 20% della popolazione di Israele con 1.300.000 cittadini - di acquistare terreni. Il 93% della terra è infatti gestita dalla Israel Land Administration e dal Fondo nazionale ebraico che la danno in concessione solo a ebrei. Gli arabo-israeliani sono stati così confinati nel 3,5% del territorio del paese e ancora continuano a subire confische e ad essere penalizzati in molti modi. (NOTA: Cfr. La Nuova Intifada,a cura di Roane Carey,Tropea Editore, 2002, pag. 173: per attuare questi espropri si approvarono sei apposite leggi, in nessuna delle quali appariva la parola arabo, superflua perché le uniche terre di proprietà privata erano di cittadini arabi). Il 90 % di loro vive in città o villaggi arabi dove la disoccupazione arriva al 20% - oltre il doppio della media nazionale - e i servizi e le infrastutture riservati agli arabi sono da paese in via di sviluppo. Israele dunque può a ragione essere definito uno Stato etnocratico, piuttosto che democratico. Tzvetan Todorov sottolinea che una democrazia moderna non può mai essere una etnocrazia, vale a dire uno stato in cui l’appartenenza ad un’etnia assicura dei privilegi sugli altri abitanti del paese (NOTA: Cfr. La paura dei barbari, pag. 95).

    Un’altra anomalia di questa singolare democrazia è che dei sei milioni e mezzo di abitanti – ebrei e arabi – che hanno la cittadinanza israeliana, nessuno viene considerato di nazionalità israeliana. Il ministero degli Interni ha attribuito centotrentasette diverse nazionalità ai cittadini del paese (tra cui quella giudaica, georgiana, russa, ebraica, araba, drusa, abkhaza, assira e samaritana), per preservare l’idea di Israele come nazione ebraica. Chiunque abbia cercato di farsi registrare come israeliano si è visto respingere la richiesta (NOTA: Nathan, op. cit., pag. 320).

    In una democrazia dovrebbe anche vigere la libertà di parola, mentre ad Israele la censura è molto attiva nei riguardi di chi va contro la vulgata dello Stato. Per citare qualche caso famoso, l’attore e regista arabo-israeliano Mohammed Bakri è stato sottoposto a processo per aver girato il film Jenin Jenin, che documenta il massacro compiuto nel 2002 dall’esercito israeliano nel campo profughi della città cisgiordana, e un noto storico come Ilan Pappe di Haifa ha lasciato la cattedra all’Università della sua città perché sottoposto a boicottaggio per le sue ricerche sulle atrocità compiute contro i palestinesi nel 1948-49: in sostanza, per aver definito il sionismo progetto coloniale responsabile della pulizia etnica di quegli anni. In Israele non c’è una democrazia compiuta, ha detto Pappe in un’intervista (NOTA:L’intervista, concessa a Michele Giorgio, in Altermedia.info, 26-7-2005). Ci sono argomenti che rimangono un tabù, verità ufficiali che nessuno deve mettere in discussione altrimenti scattano le punizioni e talvolta si arriva alla diffamazione. Ad esempio, è stata accolta con disgusto la mia proposta di sanzioni internazionali contro Israele sino a quando questo paese non consentirà ai palestinesi di vivere liberi e indipendenti, proprio come si fece nel caso del Sudafrica razzista. Sono stato attaccato duramente, e non sono mancati anche gli insulti. Allo stesso tempo ho ricevuto lettere di approvazione da parte di molti israeliani, a conferma che la società di questo paese è viva e capace di mettersi in discussione, anche se resta in gran parte prigioniera del mito, dell’ideologia, del nazionalismo. (…) Il pluralismo di idee, sebbene sia ufficialmente garantito, di fatto è soggetto a limitazioni importanti che, a mio avviso, pongono dubbi sull’effettivo carattere democratico di Israele. Nella primavera del 2005, gli accademici britannici attuarono un boicottaggio – di cui discutevano dal tempo del massacro di Jenin - contro l’Università di Haifa, quella di Bar Ilan (Tel Aviv) e altre Università israeliane (NOTA: Nel caso di Haifa, oltre al boicottaggio di Pappe si voleva punire la discriminazione verso gli studenti arabi. Quanto a Bar Ilan, questa Università sostiene un College nella colonia ebraica di Ariel, nei Territori Occupati, violando le risoluzioni internazionali. Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al-Quds di Gerusalemme, si dichiarò contrario al boicottaggio delle università, e Pappe nella citata intervista disse a questo proposito:Purtroppo Nusseibeh e buona parte dei palestinesi continuano ad essere molto ingenui nei riguardi del sionismo. Dopo tanti anni non ne hanno ancora compreso gli obiettivi )

    In questa moderna democrazia è ancora in vigore il sistema consuetudinario coloniale inglese (NOTA: I decreti d’urgenza del 1945, imposti dalla potenza mandataria e ancora in vigore,vennero descritti all’epoca dall’ebreo Yaakov Shinson Shapiro - che negli anni Settanta sarebbe diventato Ministro della Giustizia in Israele - come peggiori delle leggi naziste. Nel 1950 Israele votò la legge contro il terrorismo, ispirata da una legislazione simile vigente nell’impero britannico, per scongiurare i rischi che organizzazioni sioniste di estrema destra promuovessero una politica di destabilizzazione contro il giovane Stato ebraico. Sia i decreti del ’45 che questa legge contro il terrorismo esigono che sia il sospettato a dimostrare la propria innocenza. Cfr. M. Warschawski, Sulla frontiera, Città Aperta, 2002) e c’è chi giura che continuerà ad essere usato fino a quando ci saranno palestinesi all’interno di Israele. In particolare, è usatissima una legge che, promulgata dall’Inghilterra al tempo del Mandato per scoraggiare il terrorismo sionista, esige che la casa di chi commette un attentato venga abbattuta. Ancora in vigore è anche una legge ottomana secondo la quale – essendo la maggior parte delle terre proprietà del sultano, cioè miri - se per tre anni i contadini fittavoli non le coltivavano, queste tornavano al sultano. Considerandosi successore dell’impero ottomano, Israele si serve ancora oggi di questa legge per spossessare gli arabi di Palestina delle loro proprietà.

    Questa democrazia unica, più che rara, non ha a tutt’oggi confini nazionali, per riservarsi in questo modo la possibilità di annettersi, come sta facendo, la maggior parte della Palestina, in una illegalità patente e arrogante che quasi nessuno osa, non dico chiedere di punire, ma nemmeno criticare. Quanto alla sua posizione nei riguardi degli accordi internazionali, Israele – oltre a non aver firmato gli accordi di non-proliferazione nucleare (NOTA: Nel ’61 Kennedy fece invano pressioni per far aprire Dimona ad ispezioni internazionali – ma Israele non venne sottoposto a sanzioni come l’Iraq e l’Iran) – si ritiene esentato dalle Convenzioni di Ginevra, congegnate dalle Nazioni Unite nel 1949 per prevenire il ripetersi delle pratiche naziste di insediamento e sfruttamento delle popolazioni civili sotto occupazione e per proteggere le popolazioni civili in territori occupati a seguito di attività belliche. Inoltre è l’unico stato membro ammesso all’ONU (Nota: Cfr. la risoluzione 2733 (III) dell’11-5-’49), l’undici maggio 1949, a condizione che applicasse la risoluzione 194 - facendo cioè rientrare i rifugiati palestinesi scacciati o fuggiti nel 1948 - e la 181, che gli imponeva il ritiro entro i confini del piano di spartizione elaborato dalle Nazioni Unite, oltre al riconoscimento dello status di città internazionale di Gerusalemme (NOTA: Cfr. La Nuova Intifada, op. cit., pag. 361). Nonostante questa ammissione condizionata alle Nazioni Unite - che nessuno peraltro gli ha mai ricordato e di cui si è addirittura perduta la memoria – Israele si è dimostrato, insieme agli USA, lo stato che ne ha maggiormente disatteso le risoluzioni: più di duecento, come vedremo in seguito. Israele – che ha praticato e continua a praticare la tortura – è anche l’unico Stato fra le democrazie mondiali ad averla legalizzata – come dice Amnesty International – nonostante sia tra i firmatari della Convenzione contro la tortura dell’ONU (NOTA: Solo nel 1999 l’Alta Corte di Giustizia del paese intervenne per mettere un freno all’uso della tortura negli interrogatori. Cfr. Paolo Barnard: Perchè ci odiano Rizzoli Bur, 2006. Barnard, giornalista, è stato corrispondente all’estero dei maggiori quotidiani italiani e ha realizzato inchieste per la trasmissione Report di Rai 3. Collabora ora con Rai educational).

    A mezza strada fra giustificazione e critica di questa strana democrazia è la seguente spiegazione di Meron Benvenisti, sindaco di Gerusalemme dal 1967 e per molti anni collaboratore di Teddy Kolleck che fu a capo della città fino agli anni Novanta: La costituzione dello Stato di Israele aveva il significato dell’attribuzione di un simbolico marchio di legittimità al processo in atto di realizzazione del sionismo. Così continuarono ad identificare gli obiettivi dello Stato e le norme di governo con le politiche del periodo pre-statale. Ciò ha prodotto leggi e norme offensive dei diritti fondamentali della civile e umana uguaglianza intrisi di arbitrio e discriminazione etnica. I capi di Stato di Israele ed i loro più stretti collaboratori non avevano cioè imparato a differenziare fra le azioni di leader etnici senza autorità statale impegnati in una guerra intercomunale contro altri leader etnici (..) e le azioni compiute da capi di Stato capaci di approvare leggi nazionali e di farle rispettare da un esercito nazionale soggetto alla loro autorità.(NOTA: Cfr. Benny Morris, Vittime). Diversamente da Pappe, che parla chiaro usando apertamente il termine di pulizia etnica per definire l’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, Benvenisti - conformemente a quanto riportato sopra, cioè distinguendo tra prima e dopo il 15 maggio 1948 – servendosi dei funambolismi verbali tipici dei sionisti più aperti, definisce pericolosamente vicine a ciò che viene definito ‘pulizia etnica’ solo le espulsioni effettuate dopo questa data, aggiungendo che in effetti ebbero luogo atrocità che potrebbero essere definite come crimini di guerra.

    Perché potrebbero, mi chiedo? Sono, senza dubbio, crimini di guerra! Molti episodi della cacciata dei palestinesi furono infatti esattamente uguali nelle terribili modalità – massacri, stupri, punizioni collettive – a quanto avvenne nel corso di altri recenti eventi bellici che tanto turbarono l’Occidente da farlo intervenire in armi per togliere di mezzo quello che avevano designato come il cattivo di turno.

    Israele deve scegliere se essere uno Stato di diritto o uno Stato pirata, chiese al parlamento - dopo il primo dirottamento di Stato israeliano di un aereo di linea siriano nel 1954 - (NOTA: Cfr. Avi Schlaim, Il muro di ferro, Ed. il Ponte, 2003, pag. 126 e segg. Schlaim è nato nel 1945 a Baghdad ed è cresciuto in Israele) Moshe Sharett, che si alternò con Ben Gurion nella carica di primo ministro all’inizio degli anni cinquanta del Novecento. Che egli sia stato in seguito estromesso dalla vita politica dai sionisti di ferro del suo tempo – il duo laburista Ben Gurion-Moshe Dayan – la dice lunga sulla linea politica che ha trionfato in Israele. Sharett (NOTA: Nato in Ucraina nel 1894 con il nome di Moshe Shertok, emigrò a quattordici anni nella Palestina ottomana. Morì nel 1965. Fu un profondo conoscitore della cultura e della lingua araba e rispettava la sensibilità araba e internazionale. A lui si ispirò il movimento pacifista israeliano) infatti è oggi giudicato un politico debole, mentre era in realtà un intellettuale di larghe vedute, la cui linea politica avrebbe potuto avere conseguenze meno nefaste di quella che ha finito per imporsi. Avendo trascorso una parte dell’infanzia in un villaggio arabo, egli parlava correntemente la lingua, aveva amici arabi, conosceva bene storia, cultura e politica araba e poteva concepire una società multietnica formata da ebrei e arabi. Prima che degli avversari, i palestinesi erano per lui un popolo fiero e sensibile, come ebbe a dire, con un intelletto estremamente acuto e sentimenti delicati. Più unico che raro tra i politici sionisti - soprattutto i dogmatici autoritari alla Ben Gurion – Sharett credeva nella necessità di una diplomazia paziente, di un linguaggio di conciliazione e di gesti di buona volontà per ridurre la comprensibile ostilità araba. Riconoscendo che fra israeliani e palestinesi si era creato un muro, aggiunse: E’ tragico che questo muro diventi sempre più alto. Cionostante, se si può impedire che diventi ancora più alto, se ciò è ancora possibile, allora è un sacro dovere farlo. Al contrario, ben lungi dal decostruire questo muro simbolico come auspicava Sharett, il sionismo ha addirittura costruito un concreto, mostruoso muro di cemento - dichiarato illegale dalla Corte internazionale dell’Aia - che, ghettizzando la Cisgiordania ghettizza, benché in modo diverso, anche Israele. E forse non tutti sanno che è stato il patito Laburista, non il Likud, ad iniziarne la costruzione.

    In ogni modo, come riconoscono tutti gli osservatori non ideologizzati, nonostante le apparenze il sionismo ha in sostanza fallito il proprio scopo. La rivoluzione sionista è morta, titolò un suo articolo del 2003 Avrum Burg individuando due cause essenziali di questo fallimento: l’occupazione da un lato, con i suoi perversi effetti sulla società e sullo Stato, e dall’altro la corruzione endemica che divora Israele. Le idee espresse nell’articolo non sono originali, altri le avevano espresse prima e forse meglio di Burg, ma ciò che fece scalpore in Israele fu il fatto che Burg fosse quello che nel paese si definisce un principe, cioè un membro della seconda generazione di dirigenti storici israeliani, che fu presidente dell’Agenzia ebraica e anche del parlamento, oltre ad essere figlio di un dirigente del partito nazional-religioso che fu ministro in tutti i governi dalla fine degli anni ’40 all’inizio degli anni ’90 del Novecento. Cinque anni dopo aver scritto questo articolo, Burg ha pubblicato Vincere Hitler (NOTA: Vaincre Hitler, Fayard, Paris, 2008. Il titolo in origine era: Hitler ha vinto) in cui si spinge ad affermare che il progetto sionista era originariamente ed intrinsecamente perverso. Definendo Israele come una specie di orrendo mutante, una società spaventosa – e l’idea di stato democratico-ebraico come nitroglicerina - Burg si ricollega al padre che incarnava non solo il giudaismo della diaspora, ma anche l’Europa che, idealizzandola all’estremo, egli vede come l’unica possibilità per sfuggire alla demenzialità del sionismo. Delle tre identità che mi costituiscono – umana, ebraica, israeliana -, dice in un’intervista, sento che l’elemento israeliano mi priva delle altre due. Infatti, dopo aver preso il passaporto francese è emigrato in Europa.

    A proposito di Avrum Burg Michel Warschawski (NOTA. Cfr. Warschawski, Programmare il disastro. La politica israeliana in azione, Ed Shahrazad, Roma 2008) fa rilevare l’assenza dell’Oriente nelle sue riflessioni, nonostante queste si soffermino sul razzismo antiarabo e sulla necessità di riconoscere i diritti dell’Altro. La sua scelta dell’Europa è dunque coerente, sottolinea Warschawski, "ma in Israele, non tutti hanno due passaporti, una maggioranza di cittadini proviene dall’Oriente e ne condivide la cultura. Questa maggioranza però non interessa al nipote di Avraham Burg di Dresda. Egli è estraneo anche all’ambiente arabo di Israele anche se, dal lato materno, è di origini palestinesi e a Hebron ha radici che risalgono a diverse generazioni. Tuttavia sembra avere scelto di essere tedesco invece che palestinese, europeo invece che arabo: questo, per lui è il modo per Vincere Hitler.

    Nato nell’Ottocento in Occidente come progetto di emancipazione degli ebrei europei, per rendere la loro vita più stabile e sicura, il sionismo si è realizzato in Oriente, in Palestina, sulla pelle della popolazione locale, nella forma di uno spietato progetto coloniale che, lungi dal rendere più sicuri gli ebrei, sta oggi inevitabilmente suscitando nuove forme di antisemitismo. Il 10 novembre 1975 l’Assemblea generale dell’ONU adottò infatti la risoluzione 3379, secondo la quale il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale, e questo enunciato non cambia nella sostanza anche se la stessa Assemblea ha poi annullato tale risoluzione il 16 dicembre 1991, come premio – del tutto assurdo e comunque prematuro - in seguito al clima di relativa distensione nato dalla conferenza di Madrid, che vide per la prima volta riuniti tutti i protagonisti del conflitto, compresi i palestinesi. In realtà, come si è ampiamente visto, i sionisti che da sempre detengono il potere nel governo israeliano non hanno mai avuto alcuna intenzione di collaborare al fasullo processo di pace che gli Stati Uniti si decisero a promuovere solo a seguito della prima Guerra del Golfo, per premiare gli stati arabi che si erano schierati dalla loro parte contro il suo ex-alleato ribelle, Saddam Hussein. Quanto è vero il detto di Andrè Malraux la politica non si fa con la morale, …ma nemmeno senza. Il progetto sionista ( NOTA: Il termine fu coniato nel 1885 dallo scrittore viennese Nathan Birnbaum, da Sion, la collina su cui sorse il primo tempio e uno dei nomi biblici di Gerusalemme) fu in sostanza l’invenzione di intellettuali ebrei assimilati che avevano voltato le spalle ai rabbini e aspiravano alla modernità. Theodore Herzl (NOTA:1860-1904. Inviato dal suo giornale al processo Dreyfus, Herzl rimase così sconvolto di fronte alla folla che gridava morte agli ebrei che, pur non particolarmente interessato nel giudaismo, si dedicò al progetto della emancipazione degli ebrei, pur non pensando che lo stato dovesse necessariamente sorgere in Palestina.), giornalista e drammaturgo di origine ungherese stabilito nella Vienna austro-ungarica e unanimemente riconosciuto come il padre del sionismo politico grazie al suo fortunato libro Judenstaadt, lo Stato degli ebrei, aveva infatti assai poca familiarità con la cultura e la religione ebraica. Il suo Talmud era l’opera wagneriana: concepì l’idea di un moderno stato ebraico mentre ascoltava il Tannhaüser (NOTA: Cfr. C.E. Schorske, Fin-de-siècle Vienna, politcs and Culture, New York, 1980, pag. 163). Adottando l’idea antisemita secondo cui gli ebrei non avrebbero mai potuto inserirsi adeguatamente in altre nazioni, Herzl si adoperò per renderli un popolo uguale agli altri, dando loro uno Stato.

    E’ paradossale, ma chi oggi pone al centro del proprio universo simbolico lo Stato ebraico, insostituibile architrave della ritrovata identità, spesso ignora di esserne debitore a un uomo che non chiamò mai Israele con questo nome e neppure disdegnò l’Uganda come nuova terra promessa, scrive Gad Lerner nella sua bella prefazione a una nuova edizione dell’opera di Herzl (NOTA: Lo stato ebraico, il Melangolo, Genova 1992 ), (…) non avrebbe mai condiviso la reiterata eccezione culturale, l’esasperante pulsione a fare sempre e comunque comunità in proprio, l’ostentazione della differenza diffuse un secolo dopo in una diaspora che sembra trovare nell’identificazione con la vicenda dello Stato ebraico il principale, se non l’unico, motivo di coesione laica; quasi si trattasse di un succedaneo alla sempre più diffusa inosservanza delle prescrizioni della halakhah. L’apparato culturale di Herzl, insomma, oggi rischierebbe uno sbrigativo accantonamento perché appartiene a una fase storica in cui i movimenti di riscatto sociale e nazionale tendevano alla generalizzazione dei diritti, evidenziando ciò che gli uomini hanno in comune e – proprio per questo – già allora destando allarme fra i cultori di ogni particolarismo etnicista, populista, nazionalista o religioso. E ancora: Herzl puntava all’omologazione, all’integrazione, alla normalizzazione di un’anomalia millenaria che liquidava come nefasta per tutti. Quando poi si trovò di fronte all’evidenza della questione palestinese che rendeva più difficile la realizzazione pratica della sua visione, vi applicò la mentalità coloniale che era propria del suo tempo, in cui l’imperialismo europeo era allo zenit. Questa mentalità coloniale – quasi completamente superata, anche se solo in teoria, dagli Stati moderni - continua a regolare l’atteggiamento della dirigenza israeliana nei riguardi degli arabi di Palestina.

    Il nome sionismo deriva dalla parola Sion, il sinonimo tradizionale di Gerusalemme e della Terra di Israele, leggo in un opuscolo propagandistico (NOTA: Aspetti di Israele. Storia, Hamakor Press, Gerusalemme, 1994) che mi è stato dato anni fa in un centro d’informazioni a Gerusalemme. L’idea del sionismo – la redenzione (NOTA: Il grassetto e così pure le sottolineature in tutto il testo sono dell’autrice) del popolo ebraico nella sua patria ancestrale – è radicata nella continua nostalgia e nel profondo attaccamento alla Terra di Israele che sono parte integrante dell’esistenza ebraica nella diaspora attraverso i secoli. Sul concetto di patria ancestrale ci sarebbe molto da dire, ma rimando per questo al testo L’invenzione dell’antico Israele. La storia negata della Palestina di Keith W. Whitelam (NOTA: Ed. Ecig 2005. Il professor Whitelam insegna all’Università di Stirling ed ha dedicato gran parte della sua carriera a studiare la storia dell’antico Israele e della Palestina), limitandomi a citarne un estratto: Il concetto di longue durée di Braudel offre una prospettiva che supera l’ordinata periodizzazione della storia biblica, contribuendo a far ravvisare in Israele solo un’entità all’interno del tempo palestinese, mentre il concentrarsi sul breve termine, sia esso l’Età del Ferro, il periodo romano, o l’epoca contemporanea, oscura il fatto che Israele è unicamente un filo nel ricco arazzo della storia palestinese.

    Il sionismo politico, ispirato dal nazionalismo occidentale, emerse dunque a fine Ottocento in reazione alla continua oppressione e persecuzione degli ebrei nell’Europa orientale e alla crescente delusione riguardo alla formale emancipazione nell’Europa occidentale, che non aveva fatto cessare la discriminazione né aveva portato l’integrazione degli ebrei nelle loro società locali. Non va però dimenticato che a fronte del sionismo politico si sviluppò anche un sionismo culturale che aveva alle spalle una interessante – e dimenticata – tradizione di orientalismo ebraico ottocentesco che, apparentando il giudaismo e l’islam in un passato comune e armonioso e considerando gli arabi fratelli di sangue, tentava di progettare anche un futuro comune. Tra questi orientalisti di origine ebraica si collocano Benjamin Disraeli – che definiva gli arabi ebrei a cavallo (NOTA: Disraeli, futuro primo ministro di Vittoria, era un sefardita convertito all’anglicanesimo. In gioventù scrisse romanzi di successo in cui sottolineava l’affinità tra ebrei e musulmani e la superiorità di tutti i semiti)-, Arminius Vambéry – linguista e viaggiatore, figlio di uno studioso ungherese del Talmud - e il suo amico W.G. Palgrave, viaggiatore e avventuriero. In seguito, nella Berlino di Weimar molti scrittori ebrei – alcuni dei quali appartenenti al movimento sionista – cercarono rifugio dalla politica in visioni orientaliste, anelando a una fusione panasiatica con i musulmani. Figure eterogeneee come Disraeli e il filosofo Martin Buber svolsero un ruolo importante in questo trasferimento dello spirito ebraico nel regno panasiatico. Reinventarono l’Oriente musulmano storico facendone un luogo libero da nette frontiere etniche e settarie, e soprattutto libero dall’antisemitismo (NOTA: Cfr. L’orientalista, pag. 297). Non a caso nel XIX secolo tra gli ebrei dell’Europa occidentale – e soprattutto tra gli askhenaziti tedeschi – si diffuse la moda architettonica dello stile moresco che evocava gli anno d’oro della convivenza arabo-ebraica in Andalusia. Nella concezione di questi orientalisti ebrei il giudaismo era infatti molto vicino all’islam.

    Tra i sionisti culturali ci fu anche chi orientalizzò il proprio nome, come Asher Ginzburg di Odessa che scelse lo pseudonimo Ahad Ha’am, cioè uno del popolo. Grande scrittore e pubblicista in lingua ebraica e tra i fondatori dell’Università ebraica di Gerusalemme, egli auspicava la formazione in Palestina di un centro spirituale ebraico, fiducioso che sarebbe bastata questa semplice istituzione per rinnovare il giudaismo. Ispirato da Ha’am, Maartin Buber, altro sionista culturale, credeva che, nonostante la decadenza della diaspora, l’anima ebraica – che era un’anima orientale - fosse intatta. Anche lo scrittore tedesco Jacob Wassermann, ebreo non sionista, era fautore di questo tipo di orientalismo, come pure lo scrittore sionista Eugen Hoeflich, le cui idee sfidano però ogni stereotipo del sionismo visto che egli voleva il ritorno degli ebrei in Palestina non come europei ma come orientali, con il precipuo scopo di stabilire un legame con gli arabi. Nessuno di questi orientalisti ebrei immaginava il sionismo come l’ultimo progetto coloniale occidentale: al contrario, per loro il ritorno in Israele avrebbe avviato la rinascita dell’Asia e la fine del colonialismo, con la formazione di un’entità ebraica come parte del mondo pansemitico e pro-musulmana. Nel 1920 dunque l’immagine dell’intimo legame degli ebrei con i musulmani e gli altri orientali come loro era stato abbracciato da quasi tutti i gruppi politici in Germania e Austria: dalla destra antisemita alla sinistra culturale sionista.

    Il programma del movimento sionista trovò espressione formale nella fondazione dell’Organizzazione Sionista (1897) al primo Congresso convocato da Teodoro Herzl a Basilea in Svizzera, continua il mio opuscolo, ed ecco poche righe dopo, a proposito dei primi sionisti giunti a fine Ottocento in Palestina, l’affermazione questi pionieri reclamarono campi sterili per secoli di abbandono, che - tipicamente occidentale nella sottesa identificazione di progresso con sviluppo economico – giustifica il possesso della Palestina, anticipando uno dei dogmi della vulgata corrente del filosionismo occidentale: Hanno fatto di un deserto un giardino. A questo punto, nel tentativo di rendere tangibile l’ingiustizia subita dagli arabi di Palestina che da tredici secoli vivevano in quella terra, nelle mie conferenze ho spesso prodotto questo esempio: se a quelli di voi che abitano soli in una grande casa un po’ dimessa qualcuno venisse a dire che questo non è produttivo e piazzasse nelle vostre stanze altri coinquilini, per di più stranieri, esautorandovi dalla vostra improduttiva proprietà, che cosa ne pensereste? Tuttavia, mi sono resa conto che questo tentativo di ars maieutica non sortiva alcun effetto, e del resto, coi tempi che corrono, non è certo moneta corrente mettersi nei panni di coloro che subiscono ingiustizie.

    Tornando alla Palestina, la storia raccontata nel mio opuscolo israeliano ha un sostanziale difetto: considera il paese all’alba del movimento sionista come una terra non solo sterile per secoli di abbandono - le grandi foreste della Galilea e della catena montuosa del Carmelo furono denudate degli alberi; le paludi e il deserto invasero la terra coltivabile, vi leggo - ma anche vuota di abitanti, a parte ovviamente la popolazione ebraica, che era nettamente minoritaria. Del resto, il fortunato e longevo motto di Herzl che è lo slogan del sionismo politico, definisce la Palestina una terra senza un popolo per un popolo senza terra. Ci si chiede che cosa mai avesse visto Herzl nel suo viaggio esplorativo in Palestina, oltre a non averne avuta una buona impressione: in visita al Muro del Pianto, egli provò soprattutto disgusto per quegli ebrei dimessi in preghiera, e si disse che tutto ciò era quello che il sionismo avrebbe dovuto superare. Il suo fortunato slogan venne però contraddetto da Ascher Ginzburg-Ahad Ha’am il quale, dopo aver visitato la Palestina nel 1891, nell’articolo La verità di Eretz Israel mise in guardia dal non tenere conto della popolazione araba. Non aveva forse Herzl visitato la Palestina?, si chiede Ha’am, meravigliandosi che nelle sue analisi gli arabi non compaiano mai. Del resto, è uno dei limiti umani più perniciosi vedere solo quello che conviene vedere.

    Tornando al saggio di Ha’am-Ginzburg, vale la pena citarne dei brani: Siamo abituati a credere che Eretz Israel (NOTA: Terra in ebraico, ardh in arabo, tanto per sottolineare l’affinità di queste due lingue semite) sia attualmente una terra vuota, un deserto incolto, e che chiunque voglia acquistarvi delle terre possa farlo liberamente. Ma in verità non è così. In tutto il Paese, è difficile trovare un campo che non sia seminato (…). Solo le dune di sabbia e le montagne rocciose (…) non sono colivate. (…) Siamo abituati a credere che tutti gli arabi siano selvaggi del deserto, un popolo simile a un asino che non vede o non vuol comprendere quello che gli succede intorno. Si tratta di un grave errore. Come tutti i semiti, l’arabo è molto intelligente e scaltro (…). Gli arabi, e in particolare gli abitanti delle città, vedono e capiscono quello che facciamo e ciò che desideriamo in questo paese, ma si comportano come se non capissero, poiché, per il momento, non vedono nelle nostre azioni alcun pericolo per il loro avvenire. (…) Ma se arriverà il giorno in cui la presenza dei nostri fratelli in Eretz Israel si svilupperà in maniera tale da disturbare anche solo di poco gli abitanti del paese, essi non consentiranno facilmente di essere messi da parte. (NOTA: Cfr. Israele-lo stato degli ebrei, Claude Klein, Giunti 2000. Klein, storico ora in odore di tradimento del sionismo, insegna all’Univ. di Gerusalemme e all’Ist. Superiore di amministrazione di Tel Aviv) . Da umanista quale era, Ha’am propose invece una visione culturalista secondo la quale in Israele avrebbe dovuto svilupparsi un centro culturale ebraico, non un’entità politica. Anche alcuni tra i maggiori pensatori ebrei del tempo si opposero come lui al sionismo politico dubitando dell’auspicabilità di uno Stato ebraico: tra loro, Eliezer Ben Yehuda, il padre dell’ebraico moderno e Judas Magnes, tra i fondatori e primo rettore dell’Università ebraica (NOTA: Jeff Halper presenta l’idea del sionismo culturale come possibile alternativa odierna a quello politico che sembra quasi giunto al capolinea).

    All’indomani del famoso congresso sionista di Basilea i rabbini di Vienna, turbati dalla lettura del libro di Herzl, mandarono due rappresentanti in Palestina per verificare le idee che vi erano esposte e al termine della loro missione gli inviati spedirono a Vienna il significativo telegramma: La sposa è bella, ma è sposata a un altro uomo, che esprime una visione realistica, consapevole della presenza degli abitanti arabi della Palestina, oltre che della bellezza e della fertilità di gran parte di questa terra, tutt’altro che incolta e desertica. Alla metà del 1700 il commerciante toscano Giovanni Mariti - personaggio singolare che, non accecato né dall’orientalismo di famosi viaggiatori suoi contemporanei né dal pregiudizio antiarabo dei pellegrini cristiani, non si fece accompagnare da guide cristiane come era consuetudine ma da palestinesi musulmani con cui comunicava in arabo – nel resoconto dei suoi viaggi in Levante continua a rimarcare, oltre alla pacifica

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