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Capire l'Islam: Mito o realtà?
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E-book501 pagine5 ore

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Info su questo ebook

C’è una “emergenza” legata all’Islam in Europa? Quella che lo rende, da un lato, una delle religioni meno comprese e più stereotipate del vecchio continente, percepita come radicale, e, dall’altro, una delle religioni minoritarie più significative dal punto di vista numerico. La finalità del libro è capire come e perché la fondamentale questione della compatibilità tra l’Islam e l’Occidente continui a insinuarsi nell’opinione comune, come domanda  scontata che si crea e ricrea in modo ciclico e costante da quasi un ventennio. Si intende indagare il complesso intreccio che lega l’Islam contemporaneo al discorso pubblico sul fondamentalismo, sulla radicalizzazione, sulla violenza. L’originalità del saggio risiede nel fatto che non sono le risposte sull’Islam ma la comprensione delle domande rivolte all’Islam a costituirne il filo conduttore. Come e da quando si parla di radicalizzazione di matrice islamica? Perché alcuni segni sul corpo come la barba lunga e il velo integrale suscitano inquietudine se non allarme?
Vogliamo capire le dinamiche storiche, sociologiche e antropologiche che portano la società occidentale a dover, oggi, intendere l’Islam come una “sfida”.
Maria Bombardieri è dottore di ricerca in Scienze Sociali e docente a contratto all’Università degli Studi di Padova. Ha pubblicato Donne italiane dell’ISIS. Jihad, amore e potere (Guida 2018) e Moschee d’Italia. Il diritto al luogo di culto. Il dibattito sociale e politico (EMI 2011).
Maria Chiara Giorda è professoressa associata di Storia delle religioni all’Università di Roma Tre. La sua ultima monografia è Famiglie monastiche. Il Dominus Tecum di Pra ’d Mill (Aragno 2017).
Sara Hejazi è ricercatrice presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Con Maria Chiara Giorda ha curato Nutrire l’anima. Il cibo e le religioni (Effatà 2015).
LinguaItaliano
Data di uscita10 set 2020
ISBN9788837234317
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    Anteprima del libro

    Capire l'Islam - Sara Hejazi

    Collana

    Stefano Allievi

    Prefazione

    Trecentoventi anni fa, nel 1698, dopo quasi cinquant’anni di lavoro, Ludovico Marracci dava alle stampe a Padova un’edizione in arabo del Corano, con la relativa traduzione in latino (l’inglese di allora), un ampio apparato di commenti e le inevitabili refutationes (come era nello spirito del tempo e nel ruolo stesso di padre Marracci, per un testo pubblicato sotto gli auspici di Propaganda Fide, e stampato nella tipografia del seminario patavino). Non è esagerato dire che è l’inizio di un’attenzione approfondita e scientifica nei confronti dell’Islam: in Italia, ma con un’influenza che andrà largamente al di là delle frontiere nazionali, che peraltro allora avevano tutt’altra conformazione.

    Tre secoli dopo avremmo scoperto che studiare l’Islam in sé, per così dire, e come un qualcosa che sta altrove, quasi un esotico oggetto di interesse (seppure assai concretamente incarnato in un concorrente religioso globale e in un nemico sul piano militare, come per tutto il periodo delle Crociate) non basta più. Soprattutto non basta più studiarlo solo come fatto religioso: analizzandone il testo sacro. Occorre studiare i musulmani, ormai anch’essi – a differenza che all’epoca di Marracci – presenti in maniera significativa nel nostro paese, di fatto diventati la più importante (innanzitutto statisticamente) delle minoranze religiose non cristiane, e quella di cui, per molti motivi (analizzati in questo volume), si discute di più. E occorre studiarli come fatto sociale, non limitato alla sfera religiosa, e non solo da essa influenzato, ma in tutta la complessità di fattori che si intersecano e determinano una realtà multiforme, variegata e al suo interno contraddittoria, plurale. Esattamente come affrontiamo oggi l’analisi e lo studio del mondo cattolico: per l’approfondimento del quale non ci accontenteremmo più del semplice approfondimento del testo sacro di riferimento (certo importante, ma talvolta persino fuorviante se da esso si pretende di dedurre il comportamento delle persone in carne ed ossa che ad esso fanno riferimento), di alcuni suoi aspetti eclatanti, o magari di alcune frange devianti e proprio per questo altamente mediatizzate (che so, gli scandali legati alla pedofilia, ad esempio). Capiremmo poco del cattolicesimo e dei cattolici, così facendo: lo stesso è per l’Islam – anzi, per i musulmani.

    Per età (anagrafica, e delle prime ricerche svolte sul tema) mi ritrovo ad essere, senza averlo voluto, una specie di involontario e riluttante decano degli studi sui musulmani in Italia, nei quali pure ero incocciato, in età assai più verde, quasi per caso: perché mi occupavo, dai primi anni ’80, di immigrati, e avevo semplicemente scoperto che molti immigrati erano musulmani, e avevo avuto voglia di approfondire la questione, di cui allora sapevo, e si sapeva, poco o nulla – andando a specializzarmi all’estero, e conducendo appunto le prime ricerche sul tema. Ho avuto perciò la fortuna di passare attraverso le varie fasi di evoluzione dell’Islam italiano, nell’ultimo trentennio. E di veder crescere anche l’attenzione sulla questione: certamente quella mediatica e politica – soprattutto polemica – ma anche quella di ricerca, scientifica e accademica, portata avanti con pochi mezzi e rari riconoscimenti da studiosi e studiose, spesso giovani, che ai margini di discipline i cui oggetti di interesse erano altri (a cominciare dalla sociologia delle religioni) riuscivano a portare all’attenzione dell’opinione pubblica un tema importante e delicatissimo, ma spesso trattato malamente, o letteralmente maltrattato, da un’attenzione pregiudizialmente astiosa, polemica, generalizzante, quasi del tutto priva di fondamenti empirici.

    Dai tempi della mia primissima ricerca – un po’ provocatoriamente intitolata Il ritorno dell’Islam (con riferimento a una presenza islamica storica, dalla Sicilia a Venezia, praticamente dimenticata nella nostra coscienza storica) – scritta con Felice Dassetto, a sua volta mio mentore e decano degli studi sui musulmani in Europa (un po’ misconosciuto in Francia, pur avendo scritto soprattutto in francese, ma non in Italia, in Belgio dove ha insegnato per tutta la vita, e anche nel mondo anglosassone) molte cose sono cambiate. Ormai ne sappiamo di più: almeno sul piano scientifico. Antropologi, sociologi, politologi, filosofi, giuristi, orientalisti, arabisti, ma anche teologi ed esegeti, hanno prodotto una messe significativa di ricerche: anche se incomparabile per quantità e peso accademico con quella di altri paesi europei. Mentre – a un livello e in una maniera scoraggiante – il dibattito pubblico (mediatico e politico) sull’Islam sembra sempre ricominciare dall’abc, e resta a un livello di conoscenza (o meglio di misconoscenza) francamente preoccupante.

    È benvenuto dunque questo volume, che ha il pregio di mettere insieme studi sull’Islam e i musulmani, con riferimento anche ad uno degli aspetti più problematici e sconcertanti, e proprio per questo discussi (la violenza, le forme di radicalizzazione, il jihadismo) da parte di studiosi e studiose di discipline tra loro diverse, che spesso dialogano poco tra di loro, e che cercano di affrontare sia l’Islam di carta che l’Islam di carne, sia la produzione del e sull’Islam, sia l’Islam vissuto nel concreto dai musulmani, cercando di offrire uno sguardo che unisca i vari approcci. È ancora più interessante che siano compresenti apporti di diverse generazioni di studiosi: da quelli che hanno alle spalle una lunga messe di pubblicazioni, e sono stati un po’ i pionieri e i riferimenti dello studio su questi temi, a coloro che ne proseguono il cammino, prendendo anche piste di riflessione proprie e originali.

    Trattandosi di un testo a più voci, è inevitabile che vi siano differenze qualitative, e non si senta il bisogno di essere necessariamente d’accordo con tutto e con tutti, su singoli aspetti, né sarebbe possibile. E, ovviamente, non vi è nessuna pretesa di completezza, nel presentare i risultati del lavoro che si sta facendo nelle varie università italiane e anche fuori di esse: molti sono i nomi che inevitabilmente mancano all’appello. Ma si tratta di una panoramica utile, direi necessaria, e anche coraggiosa: che nell’insieme produce quello sguardo polifonico e competente, come si dice nell’introduzione, che oggi è indispensabile per andare oltre le banalità del discorso presente nello spazio pubblico su questi temi. Perché con l’Islam – anzi, lo sottolineo ancora una volta, con i musulmani – ci avremo a che fare, da ora in avanti, in maniera per così dire fisiologica. Le prime generazioni di immigrati ne hanno costituito una prima e più diffusa caratterizzazione: quella che domina il dibattito. Ma oggi ci sono anche seconde (e terze) generazioni attive, convertiti, intellettuali, e altri attori musulmani (da quelli economici a quelli che ne fanno l’immagine esterna, inclusi naturalmente i terroristi), o non più musulmani praticanti, che si intrecciano ormai con la storia di questo paese, così come questo paese fa parte del loro bagaglio: al contempo della loro eredità e del loro futuro. Ed è ora di cominciare a conoscerli meglio, perché la contaminazione delle rispettive storie è ormai già cominciata e sarà irreversibile.

    A margine, non può non far piacere notare, oltre alle tre curatrici, la presenza nel volume di molti contributi al femminile: che del resto costituiscono una messe significativa degli studi sull’Islam italiano. Una cosa che dovrebbe essere normale, ma che non essendolo – particolarmente nel nostro paese – fa giustizia di un mondo troppo spesso, come in altri ambiti, declinato solo al maschile. Un motivo in più per apprezzare e raccomandare il volume.

    Maria Bombardieri

    Maria Chiara Giorda

    Sara Hejazi (eds.)

    Capire l’Islam

    Mito o realtà?

    Introduzione

    Sono diversi i motivi che ci hanno spinte a immaginare questo libro come necessario e, persino, inevitabile e a coinvolgere colleghi studiosi ed esperti provenienti da discipline differenti, con lo scopo di chiarire alcune delle grandi questioni legate alla religione islamica in Italia che sono confuse, male rappresentate e spesso fonte di pregiudizi e stereotipi.

    In primo luogo, appunto, la mancanza di un’opera a più voci che spieghi in modo chiaro e organico alcuni dei nodi fondamentali e attuali che trasversalmente toccano il discorso sulla religione islamica, in Europa in generale e in Italia in particolare, e che siano capaci di rovesciare alcuni stereotipi radicati, seppur grossolani: il tema del fondamentalismo religioso, della radicalizzazione violenta, il rapporto tra Stato e minoranze religiose, la questione dei luoghi di culto, la pratica religiosa in carcere e nelle scuole, il tema del corpo, il significato del termine jihad, i rapporti di genere e le specificità di genere nei processi di radicalizzazione violenta.

    Di ogni singolo tema esistono opere e relative pubblicazioni, scritte in tempi e in contesti diversi. Tuttavia, per dirla con Edgar Morin, è solo con la lente multifocale degli studiosi della contemporaneità che possiamo avvicinarci alla comprensione di un fenomeno complesso, quale quello che stiamo trattando, ed è solo unendo insieme più voci e prospettive, le più autorevoli a livello nazionale, unite in un unico volume, che possiamo aspirare a cogliere alcune verità sull’Islam in Italia.

    In secondo luogo, abbiamo pensato che questo volume fosse neccessario perché, se da un lato manca un sapere chiaro, organico, polifonico – e soprattutto competente – su questo tema, dall’altro l’Islam sembra essere entrato con veemenza non solo nel discorso pubblico, ma anche in quello comune e quotidiano in cui pare sempre più impellente che personaggi televisivi o della politica, giornalisti o star e conduttori e conduttrici televisivi, si posizionino rispetto a un tema che, fino a pochi decenni fa, era pressoché ignorato, sconosciuto e comunque chiuso nelle accademie e nei dipartimenti di orientalistica.

    È stato l’11 settembre a trascinare – de facto – l’Islam fuori dalle accademie, fuori dai saperi specifici e dalle facoltà di teologia, per portarlo nelle piazze dove spesso è oggetto di ogni tipo di vessazione, questione, collettivo vilipendio e funzione di capro espiatorio nel senso girardiano del termine.

    I punti cruciali su cui l’Islam catalizza l’attenzione pubblica possono essere puramente politici o ideologici, come il chiedersi se questa religione sia compatibile con la democrazia, o se la sua ideologia e i suoi «valori» siano diametralmente opposti a quelli su cui si fonda la «civiltà occidentale»; possono essere questioni socio-culturali, come i rapporti di genere troppo squilibrati, considerando che la donna musulmana è immaginata come sottomessa e vulnerabile par excellence; possono essere di ordine estetico, architettonico o spaziale, come per il tema della costruzione dei minareti; possono essere legali, come il sottile confine tra diritto al culto e tutela della laicità pubblica; possono essere motivi pratici, come il tema dell’alimentazione halal, della gestione collettiva del Ramadan e tutto ciò che questo implica; possono essere di sicurezza sociale, come il tema dell’assembramento durante le preghiere più importanti o la lingua usata per il sermone del venerdì. Possono essere tutti questi motivi insieme, ma ciò che conta è proprio il passaggio da un sapere sull’Islam che era per pochi, potremmo dire «di nicchia» a una sorta di circo mediatico in cui è davvero difficile non solo «capire l’Islam», ma anche produrre un sapere che sia equilibrato, competente e fuori dal coro di una sempre più diffusa e generalizzata «islamofobia».

    Ecco dunque la motivazione profonda che ci spinge a fare un tentativo risolutivo di chiarificazione di concetti, di idee, ma anche ci pone dinanzi alla necessità di rimandare i lettori, gli studenti, gli addetti ai lavori o i curiosi, a dati e ricerche empiriche fatte nel modo più obbiettivo possibile, secondo la metodologia della ricerca sociale combinata alla transdisciplinarità degli autori del presente volume, che sono sociologi, storici delle religioni, antropologi e psicologi.

    Ci sono dunque due livelli su cui si snodano i capitoli di questo libro: il primo è quello descrittivo, che riguarda l’analisi storica e sociologica dei dati: che tipo di fenomeno sociale è, nella società italiana, l’Islam? Quali e quanti sono i suoi numeri e quali gli elementi socio/antropologici che lo compongono? In che modo il discorso sull’Islam si intreccia a quello sulla radicalizzazione violenta? Qual è la genesi linguistica della parola «fondamentalismo»? Quali i tempi e i luoghi della sua manifestazione? Quali indicatori per rilevarne l’esistenza?

    Il secondo livello è quello che considera la questione da una prospettiva teologica, filosofica, o antropologica rispetto alla chiarificazione dei concetti di cui sopra.

    Il primo capitolo, I fondamentalismi religiosi. Una storia al plurale?, di Maria Chiara Giorda, appartiene a questo secondo livello. Si tratta di un’analisi puntuale del termine «fondamentalismo», della sua evoluzione storica e del suo essere trasversale alle varie confessioni religiose, seppure con caratteri e valenze profondamente diverse a seconda del caso, del luogo e del tempo in cui i fondamentalismi si manifestano e si sono manifestati.

    Anche il secondo capitolo, Religione e radicalizzazione, di Renzo Guolo, ha la funzione che appartiene al livello descrittivo e di chiarificazione concettuale. Da un punto di vista sociologico, Guolo analizza il termine «radicalizzazione», riportandolo alla sua complessità originaria e tracciando la sua evoluzione sociale dai tempi dell’anarchismo a quelli più recenti legati alla radicalizzazione di matrice islamica.

    Il terzo capitolo, Il riformismo islamico. La genesi dei movimenti riformisti e la lotta per l’egemonia del discorso religioso, di Luca Patrizi, apre lo sguardo sul rapporto tra Islam sunnita e Islam riformista, mostrando come nell’ambito delle società islamiche, osservando da una prospettiva storica, dal rapporto conflittuale tra tradizione e modernità siano nati dei movimenti che hanno portato una sfida interna al mondo religioso dell’Islam.

    Il quarto capitolo, «Ugualmente libere di fronte alla legge». L’eccezione islamica?, di Paolo Naso, appartiene al livello dell’analisi emica, e introduce la prospettiva nazionale italiana, prendendo in considerazione il complesso intreccio tra materia legale (l’Intesa tra lo Stato e le confessioni religiose), il diritto al culto e la specificità del caso islamico, attraverso una puntuale analisi di dati a disposizione.

    Segue il quinto capitolo, Radicalizzarsi online. Islamofobia e discorsi d’odio in rete, di Alessandra Vitullo, che non solo analizza i dati sull’islamofobia online, ma anche gli strumenti, la tipologia dei discorsi d’odio e la modalità attraverso cui avviene o può avvenire il processo di radicalizzazione in rete.

    Al secondo livello di analisi appartiene, ancora, il sesto capitolo, Jihad e violenza armata. La grande menzogna, di Marco Demichelis, che descrive l’evoluzione storica e di nuovo gli svariati contesti che il termine jihad ha avuto nella storia dei paesi islamici e in Occidente.

    Il settimo capitolo, Le donne e i processi di radicalizzazione. Il caso dell’attivismo femminile per lo Stato islamico, di Maria Bombardieri, analizza, dal punto di vista sociologico, la specificità di genere nei processi di radicalizzazione violenta che hanno spinto le donne occidentali ad unirsi allo Stato Islamico.

    L’ottavo capitolo, «La migliore delle forme esistenti». Il corpo e l’anti-corpo nell’Islam, di Sara Hejazi, analizza il tema del corpo nella tradizione islamica da una prospettiva antropologica per poi parlare del corpo islamico nel contesto occidentale.

    Di radicalizzazione in carcere attraverso un’accurata etnografia parla il nono capitolo, di Elena Sonnini, L’Islam in carcere e il mito del radicalismo, che decostruisce lo stereotipo diffuso per cui il carcere è il luogo per eccellenza in cui vengono avviati i processi di radicalizzazione, mettendo in luce come il credo religioso si traduca in realtà in esigenze molto pratiche e di ordine quotidiano per i carcerati di fede musulmana.

    Un altro capitolo che prende in considerazione un importante spazio pubblico è il decimo, quello di Alberta Giorgi e Bruno Iannaccone: I giovani e la scuola: ci si radicalizza a scuola? Un’analisi dei rischi e della prevenzione della radicalizzazione in ambiente scolastico, che analizza il rapporto tra religione islamica e lo spazio scolastico, considerando anche i rischi di radicalizzazione violenta generati dall’esclusione e dalla mancanza di partecipazione all’interno del gruppo classe.

    Il capitolo undicesimo, La moschea. Spazio della violenza o luogo della comunità?, di Luca Bossi, parte dal caso studio della città di Torino come best practice per la messa in pratica di un pluralismo religioso attivo, in cui le comunità musulmane sono protagoniste di un movimento di innovazione sociale che ha dei risvolti interessanti per tutta la cittadinanza del capoluogo piemontese.

    Il capitolo conclusivo, Prevenzione dei radicalismi tra prospettive e buone pratiche, di Cristina Caparesi, fornisce infine ai lettori un’analisi articolata e commentata delle pratiche e dei sistemi di sicurezza adottati proprio per far fronte al rischio di radicalizzazione violenta, sia a livello nazionale, sia a livello europeo.

    Se l’origine del volume risiede nella necessità di far fronte a una emergenza legata all’Islam in Europa e In Italia – che lo rende una delle religioni meno comprese e più stereotipate del vecchio continente, percepita come radicale (nonostante sia una delle religioni minoritarie più significative dal punto di vista numerico) –, la sua originalità si sviluppa lungo i capitoli descritti più sopra, nel tentativo di capire le dinamiche storiche, sociologiche e antropologiche che portano la società occidentale a dover, oggi, intendere l’Islam non solo come un credo religioso, uno stile di vita che accomuna un significativo numero di credenti e specie di giovani, ma soprattutto come una «sfida».

    Capitolo primo

    I fondamentalismi religiosi

    Una storia al plurale?

    Maria Chiara Giorda

    «Fundamentalism, forget that rock-n-roll

    No cigarette, no drink»

    NOfx, All Outta Angst

    Il nesso tra le religioni e la violenza è uno dei fili conduttori della storia delle religioni: integralismo, estremismo, radicalismo, fondamentalismo sono le parole usate per riferirsi a fenomeni che hanno come concetti chiave la violenza e la matrice religiosa (Giorda 2012). Il termine su cui ci soffermiamo è fondamentalismo religioso, che ha conosciuto negli ultimi decenni un’ampia diffusione, sia nelle pubblicazioni giornalistiche, sia nel linguaggio comune. Questa popolarità, tuttavia, è coincisa con una sempre minore precisione nel suo uso, che lo ha fatto identificare con l’estremismo religioso in genere e con le sue manifestazioni violente e i fenomeni di terrorismo legati a una religione in particolare, l’Islam.

    In questo capitolo proveremo ad affrontare la cornice di ogni fenomeno fondamentalista o radicale che è il nesso religione e violenza (e viceversa), osservato da discipline differenti nel corso della storia degli studi, per poi fornire qualche cenno storico sulla nascita dei fondamentalismi religiosi e una breve storia degli studi di tali fenomeni. Dopo aver tentato una definizione del concetto, proveremo a illustrare le differenze con termini simili ma non coincidenti, per offrire qualche primo spunto di riflessione sul parziale declino dell’uso del termine e il contemporaneo successo di uno dei termini familiari quale è radicalismo.

    1. Religione e forme di violenza

    Il legame tra violenza e religione non è casuale e neppure si muove in un’unica direzione: vi sono stati e vi sono casi di interdipendenza, casi di uso strumentale in entrambi i sensi, casi di legittimazione reciproca ma anche di opposizione ed esclusione. Nella misura in cui la violenza pare una componente ineliminabile del comportamento umano, la religione, in quanto fenomeno antropologico, nelle sue differenti realizzazioni storiche, pare abbia intrecciato continuamente rapporti con le forme più diverse di violenza (Filoramo 2004, 178). I libri sacri di numerose tradizioni religiose (basti pensare alla Bibbia ebraica, all’Antico e Nuovo Testamento, al Corano, testi fondanti di altrettanti sistemi monoteistici che, in quanto tali, si fondano sull’esclusione – violenta – dell’opzione dell’altro, del plurale) sono attraversati da episodi di violenza. Dinamiche violente sono spesso fondatrici della stessa, con idealtipi trasversali quali la figura del martire, violento verso se stesso e in alcuni casi verso la divinità, il tema del sacrificio (Girard 1989) legato al patriarca comune alle tre religioni, Abramo, pronto a uccidere Isacco o Ismaele in nome di Dio; si tratta di una violenza non solo compiuta ma anche narrata, messa in scena, trasmessa nella tradizione e quindi asseverata e ricordata. Come ha suggerito Michel Dousse (1993), nella Bibbia si assiste a un passaggio dalla guerra che il Dio promuove attraverso gli uomini e anche agli uomini (che si oppongono, rifiutano la religione, sono nemici della sua religione) alla guerra che gli uomini promuovono in nome di Dio e che provoca, non di rado, una risposta violenta di Dio, come nel caso di Sodoma e Gomorra punite per aver violato le regole morali. Vi è un filo sottile, ma dialettico, tra la violenza umana e la violenza divina che si provocano e anche si alimentano di continuo, in configurazioni variabili in modo che la violenza cessa di essere solo religiosa e sfocia in una violenza culturale, politica, economica.

    In epoca moderna, e in particolare a partire dal XIX secolo, si possono proporre quattro assetti del legame tra violenza e religione (Bozarslan 2014): in primo luogo vi è una violenza pratica scaturita da un desiderio di ritorno alle origini, di cancellazione dei deterioramenti che si susseguono nel corso di ogni storia, una sorta di attrazione per le origini che porta al ritorno alla radice e alla matrice e spesso queste azioni sono supportate da una lettura dei testi che suggellano e giustificano. Il Salmo 137 del Manuale della disciplina di Qumran fu la giustificazione teologica del gesto compiuto da Baruch Goldstein quando uccise 30 palestinesi a Hebron presso la Tomba dei Patriarchi; secondo Debray (2003) e Juergensmeyer (2001) è un atto violento che recupera degli atti altrettanto violenti evocati come legittimi alle origini di una storia religiosa, attraverso una lettura militante e letterale del testo richiamato puntualmente dall’attentatore. La citazione di un testo ispira e rende possibile in senso teologico ed escatologico la violenza.

    La seconda configurazione è il caso in cui la referenza sacra non si riduce a un solo registro religioso, ma interviene in un processo di radicalizzazione che lo precede e lo segue. La religione offre delle risorse – a volte anche solo marginali – a un processo di inasprimento della violenza, confezionandola a modo. Questo è chiaro nel caso dei Fratelli musulmani, movimento sorto per offrire servizi di prima necessità in una geografia di rapido inurbamento, da parte di un sotto-proletariato rurale che non aveva possibilità di integrazione. L’impatto sociale fu rilevante, come anche la narrativa patriottico-nazionale. Si tratta di un fenomeno di rigenerazione che fa riferimento a una storia escatologica che guarda al futuro e non solo al passato: in alcuni casi è un fenomeno pacifico (si pensi ai puritani del Nord America) ma spesso violento che inneggia alla purità, alla perfezione, all’elezione di pochi in grado di proporre un modello non volgarizzato.

    Il terzo modello di rapporto prevede l’identificazione di una comunità o un gruppo con una religione o una confessione religiosa; vi è una confusione totale di identità e confini, in cui la violenza ermeneutica forma un’enclave impermeabile; le risorse fisiche e simboliche sono mobilitate per immobilizzare il gruppo e le sue frontiere, rinsaldare la propria appartenenza; basta citare qui il caso della composizione della ex Jugoslavia: i serbi ortodossi, i croati cattolici, i bosniaci musulmani, come gli israeliani ebrei e i palestinesi musulmani. Una violenza fatta di forzature e semplificazioni che genera violenza per difendere tali identità etnicizzanti. L’origine – spesso inventata –, le barriere antropologiche, la riproduzione endogamica del gruppo, l’ideologia sacralizzata che legittima il noi e il loro chiudersi in se stessi.

    La quarta configurazione si esplicita quando la religione diventa il braccio (armato) di una forza politica coercitiva o di una forza di contestazione sociale o politica. In una prospettiva di comparazione, è il caso dell’Islam politico, della religione come ideologia di contestazione, dei movimenti millenaristi che invocano l’Armageddon, la Gerusalemme celeste, il ritorno del Messia degli ultimi tempi, i movimenti di evasione (Lanternari 1983) che esulano da interessi solo terrestri e basati sulla concezione che Dio o il divino interviene sulla terra a favore dei giusti pronti a attaccare gli ingiusti; è la violenza sacra e necessaria che propone l’ordine escatologico come la fine del caos. Per un verso, questa peculiare violenza ha conosciuto una svolta radicale con l’11 settembre e con il moltiplicarsi di focolai di conflitti etnici a sfondo religioso (Filoramo 2004, 277). Una causa essenziale del nesso tra violenza e religione, che emerge palesemente nell’ambito dei fondamentalismi, è l’intreccio tra politica e religione. In genere, infatti, il problema investe prima di tutto la religione come realtà istituzionale e sociale, chiamata a svolgere funzioni di legittimazione e sostegno della realtà sociopolitica in cui essa si incarna o di cui essa è espressione. Naturalmente, nella storia quest’intreccio si è posto in modo diverso. Alcune religioni, istituzionalizzandosi, hanno rafforzato l’intreccio politica e religione, alimentando, più o meno direttamente, o in ogni caso giustificando la violenza di Stato (Filoramo 2004, 283).

    Queste quattro dimensioni proposte da Bozarslan sono utili riferimenti per un approccio sociologico e comparativo allo studio dei rapporti tra religione/i e violenza.

    2. Storia del termine: i fondamentali

    Oggi, come nel passato recente, accade spesso che il concetto di fondamentalismo sia accompagnato da quelli di democrazia e di laicità, in termini di opposizione; questi due concetti rimandano agli stessi due ambiti di attecchimento dei fondamentalismi che, nella loro stratificazione complessa e nella loro ambiguità semantica, attengono alla sfera della politica e alla sfera del religioso assieme (Cossiga, Germani 2014). È sufficiente ricordare che molteplici e complementari sono gli approcci e le lenti che li hanno osservati: sociologi, politologi, storici delle religioni, giornalisti, antropologi hanno colto aspetti ed esiti differenti dei fondamentalismi e da più parti è stata sottolineata la necessità di una polifonica interdisciplinarità capace di indagarli (Giorda, 2012). La storia del termine, accerchiato da sinonimi e false-friends, è molto complicata, tanto che è più semplice stabilire che cosa non è il fondamentalismo, piuttosto che ciò che esso individua.

    Anzitutto occorre ricordare che il fondamentalismo rimanda alla neutrale ricerca dei fondamenti (fundamentum, derivabile dal verbo fundare, ossia «cercare un solido fondo»), ma sarebbe inopportuno sottovalutare la violenza, la potenza distruttrice dei legami sociali e la forza escludente di certe forme di fondamentalismo (Squarcini, Tavarnesi 2007). Da un punto di vista storico, il concetto di fondamentalismo nasce ma all’interno del Protestantesimo evangelico americano (Ben Barka 1998; Fath 2004; Ozzano 2009). Negli Stati Uniti, infatti, a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, si sviluppò un movimento religioso che intendeva reagire alle interpretazioni moderniste della Bibbia che dall’Europa si erano diffuse oltre Oceano. Queste teorie, note agli studiosi come higher criticism, si ponevano in una prospettiva critica rispetto al testo sacro, a cui applicavano le più raffinate tecniche filologiche per vagliarne l’attendibilità e l’ancoraggio nella storia. Lo studio storico-critico era condotto sui testi in lingua originale e analizzava la redazione, la trasmissione e le interpretazioni, nonché le tradizioni e traduzioni.

    I teologi conservatori statunitensi presero posizione contro le nuove mode interpretative del testo biblico in quello che è ora considerato il manifesto fondatore del fondamentalismo, elaborato durante la conferenza di Niagara Falls del 1895 (Parrinello 2012) e articolato nei seguenti punti: 1) infallibilità del testo sacro; 2) riaffermazione della divinità di Cristo; 3) nascita di Cristo da una Vergine; 4) redenzione universale garantita dalla morte e risurrezione di Cristo; 5) risurrezione della carne e certezza della seconda venuta di Cristo. A seguito del convegno, un mecenate protestante finanziò la pubblicazione di 91 saggi su questi temi, pubblicati in 12 volumi sotto il titolo generale di The Fundamentals, a Testimony to the Truth dal 1910 al 1915. I saggi riprendevano, approfondivano e canonizzavano ciascuno di questi principi fondamentali (LaVerdiere 2000) ed erano inviati gratuitamente alle comunità religiose e a chiunque ne faceva richiesta. Il nome «fondamentalismo» deriva dal termine «fundamentalists» usato nel 1920 dal redattore capo (di religione battista) del Watchman-Examiner (Mayer 2001) per indicare i teologi, i pastori e i credenti che facevano riferimento ai Fundamentals.

    Dopo la Prima Guerra Mondiale, nacque con lo stesso scopo la World Christian Fundamentals Association: i membri del movimento iniziarono ad autodefinirsi, comunemente, «fondamentalisti» (appunto nel senso di «ritorno ai fondamenti del cristianesimo»). Nel 1925 nello Stato del Tennessee, a Dayton, un pastore fondamentalista accusò un professore di biologia, John Scopes, di insegnare le teorie di Darwin, nonostante la proibizione che vigeva di insegnare le teorie sull’evoluzionismo nelle scuole pubbliche. L’insegnante, con l’appoggio dei liberali, denunciò il fatto alle autorità e intentò un procedimento giudiziario che lo vide sconfitto: il cosiddetto «processo alla scimmia», lo Scopes trial (Moran 2002).

    3. Per una storia degli studi sul fondamentalismo

    Da questo uso del termine, che è ancora oggi in uso presso alcune denominazioni dell’ala estrema dello schieramento evangelical americano, deve essere distinto quello scientifico e comparativo, utilizzato soltanto a partire dagli anni Ottanta del Novecento per rappresentare un fenomeno di revival religioso sviluppatosi, negli stessi anni, nell’ambito di alcune delle cosiddette world religions, religioni mondiali che hanno una storia longeva e una diffusione geografica mondiale (Ozzano 2012). Questo ritorno della religione – che fu definito dallo studioso francese Gilles Kepel nel 1991 con la formula revanche de Dieu (rivincita, ma anche ritorno vendicativo e violento di Dio) – rappresentava un evento del tutto inatteso in un mondo in cui Dio sembrava, se non morto, prossimo alla sparizione: tutti ricordano la copertina dell’aprile 1967 del Time in cui campeggia la scritta Is God dead?. Infatti, per buona parte del Novecento, era stato del tutto predominante, all’interno delle scienze sociali, il cosiddetto «paradigma della secolarizzazione», che vedeva nella religione un fenomeno regressivo, destinato ad essere superato (o ridotto a fenomeno esclusivamente privato) dalla modernizzazione e dal progresso. La religione, del resto, pareva un aspetto sempre meno importante della vita sia privata sia pubblica della maggior parte delle persone, in ogni parte del mondo in una sorta di lotta senza tregua tra religione e modernità in cui il vincitore era annunciato.

    A partire dalla seconda metà degli anni Settanta ebbe invece luogo non solo una generale

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