Poesie. Gitanjali – Il Giardiniere
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Rabindranath Tagore
Rabindranath Tagore was born in May 1861. He was a Bengali poet, Brahmo Samaj philosopher, visual artist, playwright, novelist, and composer whose works reshaped Bengali literature and music in the late 19th and early 20th centuries. He became Asia's first Nobel laureate when he won the 1913 Nobel Prize in Literature. His works included numerous novels, short-stories, collection of songs, dance-drama, political and personal essays. Some prominent examples are Gitanjali (Song Offerings) , Gora (Fair-Faced), and Ghare-Baire (The Home and the World). He died on 7th August 1941.
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Anteprima del libro
Poesie. Gitanjali – Il Giardiniere - Rabindranath Tagore
Tagore
visto da un non-tagoriano
Introduzione di Alessandro Bausani
Il mio primo contatto con Tagore risale all’adolescenza, quasi all’infanzia. Ero ancora un bambino (avrò avuto 11-12 anni) quando lessi per caso l’esile, simbolico dramma di Rabindranath, L’Ufficio Postale, nelle benemerite, e, ora, credo, introvabili, edizioni del Carabba. L’impressione che mi fece fu fortissima: fu forse il mio primo contatto col simbolo e, per me, animo inguaribilmente religioso, il primo contatto con un modo d’essere religioso diverso, più libero del rigido dogmatismo cattolico tomista in cui già cominciavo a venire educato. Da allora in poi tutte le mie successive letture di Tagore avvennero, per così dire, sotto il segno di quella prima impressione. Tagore cioè rimase per me qualcosa di bello, di dolce, di addirittura trepidamente pauroso e affascinante assieme, ma, anche, sempre, qualcosa di immaturo, di infantile, di esile.
È per questo che parlare ora di Tagore si identifica quasi a un parlare di un malioso, sì, ma quasi irreale, quasi non serio, sogno lontano. Non starò a ripetere i dati, che dovrebbero essere noti a ogni italiano ed europeo colto, della vita del Poeta. Ricordo solo i punti essenziali, pel legittimo sospetto che qualcuno li abbia dimenticati. Tagore¹ è indiano, questo tutti lo sanno, ma è anche nativo della forse più vivace zona dell’India, il Bengala. (Nacque a Calcutta il 6 maggio 1861 e morì nella stessa città, ottantenne, il 7 agosto 1941). Scrisse soprattutto in due lingue, l’inglese, la lingua franca della intellighenzia indiana di allora e di ora, e in bengalese, una delle più melodiose lingue arie del subcontinente, che qualcuno chiama «l’italiano dell’india». È noto che molte sue opere furono, anzi, scritte da lui due volte, in bengalese e in inglese. Di pochi autori in lingue esotiche abbiamo quindi traduzioni più autentiche di quelle di certe opere tagoriane, dato che le curò l’autore stesso. Altro dato di fatto importante: Tagore apparteneva a una delle più ricche e influenti famiglie del Bengala. il nonno Dwarkanath fu un attivo partecipante a quel movimento religioso noto come Brahmo-Samaj (Congregazione, o Società, di Dio) fondata nel 1828 da Raia Rammobun Roy, che aveva lo scopo di conciliare il principio monoteistico del Cristianesimo e dell’islam con il panteismo indù, purificando l’induismo dagli aspetti idolatrici, ritualistici, castali. Il padre di Tagore, Devendranath, fu anzi il capo di un ramo, da lui riformato, della «Società di Dio»: fu lui che, a un centinaio di chilometri da Calcutta, fondò il famoso eremo, poi trasformato da Rabindranath in università di tipo nuovo, di Shanti Niketan, «Asilo di Pace». Di primo piano nella vita intellettuale e spirituale del Bengala furono anche i fratelli del poeta, il filosofo Dvijendranath, il pittore Abanindranath, mentre altri Tagore eccelsero nella musica, nello studio delle letterature straniere e in altri campi.
Un essere fortunato dunque, in tutti gli aspetti, il nostro Tagore, immerso fin dalla nascita negli agi e nella più raffinata cultura, con possibilità di viaggiare (già diciassettenne andò a studiare a Londra), e che del dolore conobbe solo gli aspetti «privati» (suicidio della cognata cui lo legava un tenero affetto, morte della moglie e di due figli in tenera età). Ma fortunato anche nel senso che questa sua serenità concessagli dal fato la mise al servizio degli altri, specialmente nella sua grandiosa opera educativa, la già menzionata università di Shanti Niketan, dove, all’aperto, si insegnavano (e si insegnano) il sanscrito, il bengali, l’inglese, le matematiche, le scienze fisiche e naturali, la storia, la geografia, la musica, le belle arti, e dove, all’ombra stormente dei grandi alberi, gli allievi si esercitavano nell’agricoltura, nel lavoro manuale, nella ginnastica. Ritmavano la vita della scuola la recitazione di drammi, conferenze religiose, meditazioni, preghiere. Il famoso libretto Sadhana, la «presa di coscienza» della vita, pubblicato a Londra per la prima volta nel 1913 e poi più volte ripubblicato e tradotto in varie lingue, è appunto la raccolta di una parte delle conferenze fatte da Tagore a Shanti Niketan. Non gli mancarono nemmeno la fortuna e la fama letteraria: come è noto nel 1913 ottenne il premio Nobel.
Altro dato di fatto: la sua diffidenza e non approvazione per il programma rivoluzionario - seppur non violento - di Gandhi e questo non tanto per simpatia particolare verso gli inglesi (che pure Tagore considera i migliori fra gli europei e utili all’India) ma per un istintivo disgusto per quella rottura di una serenità interiore, per quella agitazione «fanatica», per quel pericolo di idolatria di una patria quasi deificata, sentimenti che mette in bocca, per esempio, al principe Nikhil, l’eroe del suo romanzo The Home and the World. L’Oriente per lui ha molto da imparare dall’Occidente (libertà individuali e sociali, progresso civile ecc.) e l’Occidente dall’Oriente (la serenità, la pace dello spirito, il gusto della meditazione e del silenzio). Non sembri una malignità il dire che quando Tagore fu, nel 1925 e nel 1926, in Italia, ebbe parole di ammirazione per il regime che allora vi dominava, anche se, al ritorno, smentì in parte quelle sue impressioni. Lo ricordiamo non certo per condannarlo ma per mostrare un piccolo esempio concreto della sostanziale ingenuità della sua ideologia.
Ma quale era questa «ideologia»? Per comprenderla non si può non meditare un poco sulle condizioni dell’india dell’800. Tre elementi contribuivano a formare l’atmosfera così singolare di quelle regioni in quel periodo: la cultura inglese, l’islam, e l’induismo. Nella prefazione alle sue interessanti Lettres sur l’Inde, scritte nel 1888, il grande orientalista francese James Darmesteter così si esprimeva sui funzionari inglesi in india: «Je ne crois pas qu’il soit possible de trouver dans un gouvernement étranger plus de conscience, d’honnêteté professionnelle, de désir sincère de faire son devoir et de faire le bien que n’en montre en général le fonctionnaire anglais dans l’inde... Malgré les quelques scandales qui éclatent de temps en temps il n’y a jamais eu dans les provinces romaines, même sous les Antonins, tant de pouvoir et de tentations avec si peu d’abus. Mais à ces maîtres honnêtes manque le don suprême, le seul qui fasse pardonner les supériorités écrasantes: la sympathie». Forse meno onestà e più fraternità ignara di divisioni razziali avrebbero reso più simpatici i dominatori, rigidamente separati dall’elemento indigeno e che solo riuscirono a formare una classe colta indiana parlante inglese, ma nel contempo, priva di reale partecipazione agli elementi vitali profondi che la cultura inglese forgiarono: cristianesimo di un certo tipo, senso della home e della privacy ecc.
L’islam indiano, abbracciante una popolazione che era allora sui sessanta milioni (ora fra india e Pakistan quasi centocinquanta!), fecondo di sette moderniste e innovatrici, in certi ambienti non ancora dimentico dei generosi tentativi universalistici di pacificazione fra le religioni di Akbar (XVI sec.) o di un Dara Sbikob (m. 1659) lo sfortunato principe sincretista allievo di sufi musulmani e di bramini indù, reso invece in altri ambienti particolarmente rigido dalla vita comune con i «pagani» indù e i bellicosi sikh, non dimenticava di esser stato per secoli, cioè dai secc. X-XI fino alla venuta degli inglesi, la classe di governo dell’india, il nemico delle caste e dell’idolatria, l’elemento di unità politica, l’unica forma di stato unitario e, relativamente, moderno che l’india - ricca di profondi pensatori e metafisici e asceti ma ignara della spiritualmente organizzata mondanità dell’islam - avesse mai avuto. E, ancora, il mare magnum dell’induismo, miracolosa permanenza fin in epoca moderna di una religione di tipo arcaico, come l’antico paganesimo grecoromano, complesso inestricabile di riti superstiziosi alla base, di altissime meditazioni panteistiche nei suoi vertici più alti, religiosità più che religione, abbracciante e il sistema delle caste e le arditissime affermazioni nichilistiche di certi suoi sistemi filosofici e l’evangelicità un po’ vaga dei movimenti bhakti (devozionali) di filiale adorazione di un dio «unico» scelto fra i tanti del pantheon, che libera per l’amore che gli si porta e per l’amore universale che si esercita amandolo.
L’alta società indù, liberata dal dominio musulmano degli imperatori Moghul per opera degli inglesi, fu all’inizio più disposta di quella musulmana ad assorbire la cultura «straniera», anche per la sua maggiore flessibilità e la sua disposizione assimilativa. inoltre, proprio in quella seconda metà dell’Ottocento che ci interessa, l’Europa «riscopriva» la cultura indiana antica. Gli intellettuali europei si entusiasmano per il sanscrito, di cui si creano numerose cattedre nelle università, si domandano se in fondo l’antico panteismo indiano e le sue filosofie non siano più adatte al mondo moderno, non siano più liberatrici che la religione «semitica» ebraico-cristiana, monoteistica, da loro (ufficialmente) praticata. E, cosa curiosa, è proprio per influenza di questa riscoperta europea che in India si guarda di nuovo con occhi di ammirazione all’antico passato. E un fatto - che probabilmente pochi conoscono in Europa - che il dominio musulmano in India, durato per tanti secoli, aveva quasi convinto gli indiani stessi del contrario di quello che l’Europa andava riscoprendo: di una certa superiorità - più o meno coscientemente confessata -, dell’etica monoteistica, che fra l’altro portava a risultati sociali liberanti (l’Islam per esempio non conosce caste) sul «paganesimo» tradizionale indù. Chi visiti un antico tempio indù e vi veda certe singolari sculture dove l’eros, anche nei suoi tratti più aberranti, viene plasticamente rappresentato (l’infinita ricchezza del simbolo... dicono gli ammiratori), resta stupefatto paragonando questa libertà espressiva antica alla pruderie degli indù moderni. È un piccolo esempio pratico della influenza musulmana che ha cambiato l’«atmosfera» indiana molto più di quanto non si creda. Nasce da tutto questo quell’India «moderna» di alto livello (diversa è la situazione dei villaggi) nella quale, a prescindere dalle «filosofie» e dalle religioni ufficialmente professate, si è creata una inestricabile miscela di costumi etici inglesi, di tendenza alla venerazione dei Maestri e dei Santi, di tenace attaccamento alle forme della tradizione, di un vago idealismo che identifica l’India madre come patria della spiritualità e l’Occidente come patria del materialismo.
Ma accanto alle