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Zero non esiste
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E-book275 pagine3 ore

Zero non esiste

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Info su questo ebook

Enzo, dopo la morte del padre recupera il suo mondo di carta: documenti di lavoro, agende piene di appunti, lettere alle persone più care. 
In un viaggio che copre il periodo dal Dopoguerra fino agli anni Settanta, viene narrata non solo la storia di un uomo ma quella di un’epoca intera.
Eduardo arriva nella Val d’Agri (Basilicata) e scopre un territorio addormentato, abitato da contadini che ogni mattina, per un pezzo di pane, scendono dai monti per coltivare a valle i terreni lungo il fiume.
Una terra popolata di ricordi di gente ormai lontana, emigrata a grappoli.
È proprio in quegli anni che inizia la storia della bonifica di cui Eduardo sarà interprete tenace e appassionato.
È un racconto testimone della trasformazione di luoghi e persone e che vedrà gli attori del cambiamento continuamente in bilico tra il timore di stravolgere la quiete e la bellezza del territorio e il proposito di contribuire allo sviluppo di quella valle dimenticata.
Zero non esiste ricostruisce con rara delicatezza e precisione documentaria la risurrezione di una zona d’Italia dimenticata e che oggi è diventata quello che è grazie al contributo appassionato e competente di persone come Eduardo Capuano, che interpretando il momento storico hanno saputo unire alla propria realizzazione la possibilità di crescita e di riscatto di una terra e del suo popolo.

Enzo Capuano vive a Salerno, dove è nato nel 1955.  Ha trascorso l’infanzia in Val d’Agri (Lucania). Svolge la professione di cardiologo. Ha pubblicato: Oltre le nuvole (1997), La scatola senza tempo (Guida, 2003), Addio Tienanmen (Marlin, 2006), Quel ponte sul fiordo di furore (Controcorrente, 2013).
LinguaItaliano
Data di uscita15 dic 2020
ISBN9788899706913
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    Anteprima del libro

    Zero non esiste - Enzo Capuano

    Libri

    Incipit

    Basilicata. Alta Val d’Agri

    Un giorno, in quella valle persa nel tempo, arrivò Cristo.

    Non è possibile? Cristo non si fermò a Eboli?

    Sì, è vero, ma dimenticate che veniva da Sud.

    Il suo pellegrinare terminò a Eboli, non aveva bisogno di andare oltre, di proseguire verso Nord. Aveva ritrovato nella Lucania una regione impregnata di sudore, dolore, fatica, una terra dalle emozioni semplici ma profonde, un paese che gli ricordava i suoi luoghi, la sua gente, la sua famiglia. Cristo ne fu incantato. Lo stesso fascino avrebbe ammaliato Eugenio Azimonti, Carlo Levi, Manlio Rossi Doria, Ernesto De Martino… e chiunque abbia respirato quei siti.

    A quei luoghi Cristo affidò la custodia del tempo.

    Agli inizi degli anni Cinquanta Eduardo arriva nella valle e scopre un territorio addormentato, abitato da contadini che ogni mattina scendono dai monti, lungo l’Agri, per un pezzo di pane. Terra popolata di ricordi di gente ormai lontana, emigrata a grappoli.

    È proprio in quegli anni che inizia la storia della bonifica di cui Eduardo sarà interprete tenace e appassionato. È un racconto che si sviluppa pian piano, testimone della trasformazione di luoghi e persone e che vedrà gli attori del cambiamento continuamente in bilico tra il timore di stravolgere la quiete e la bellezza del territorio e il proposito di contribuire allo sviluppo di quella valle dimenticata.

    La gente abituata a subire gli eventi, a considerarsi nulla, lentamente si accorge che chiunque vive non è zero, zero non esiste. Comprende che giorno dopo giorno non ha scritto solo una pagina di storia, ma è stata protagonista di un’intera civiltà: la civiltà contadina.

    Queste pagine sono il ricordo di un uomo e di una valle distesa su un altopiano lucano che s’intreccia e si salda ad altre vicende di uomini e di paesi del Sud.

    A mio padre e mia madre

    La morte è un soffio

    che pesa l’intero.

    Alfonso Gatto

    PRIMA PARTE

    Capitolo 1

    Ho avuto, i primi anni, una repulsione a fermare su carta i ricordi.

    Non mi andava di scrivere, non avrei mai potuto spiegarti il vuoto del tuo non esserci, o, forse, ero ancora stanco, troppo stanco delle continue decisioni da prendere come figlio, ma soprattutto come medico, per indirizzare al meglio il tuo breve futuro. Continuamente a chiedermi se fosse più importante cercare di donarti altro tempo, più tempo possibile o serenità, senza rincorrere i giorni. Le idee si confondevano, non riuscivo a separare le tue attese dalle mie, continuamente a chiedermi se avessi stabilito per te il meglio, o se la scelta fosse condizionata dalle mie esigenze.

    Oggi sono qui a scrivere. Mi hanno chiesto di parlare di famiglia e non potrei farlo se non iniziando da te. E non potrei iniziare se non dal ricordo del giorno in cui uscii da casa per venire a farti compagnia. Era una domenica mattina. Una domenica di novembre, il tempo era ancora bello. Il cielo celeste chiaro, senza nuvole.

    Era presto. Lungo la strada feci una breve sosta al bar dell’angolo, tra via Carmine e via Vernieri, per un caffè. Facevo ogni cosa con calma; in effetti stavo già analizzando ogni attimo di quel giorno per imprimerlo in modo indelebile nella mente; avevo, inconsciamente, progettato di scolpire tra i miei ricordi tutti i momenti di quella domenica mattina.

    Mi fermai all’edicola a comprare un giornale, che non avrei letto, e proseguii. Salii le scale a due a due, con l’odore forte del linoleum nel naso. Aprii la porta della camera; eri a letto e, quando mi scorgesti, mi sorridesti mentre continuavi a strofinarti con il palmo della mano il braccio destro. Ti raggiunsi e ti diedi un bacio sulla fronte.

    Facevo tutto piano, conscio che sarebbe stata l’ultima mattina che avremmo trascorso noi due da soli. Continuai ancora a osservarti, nella tua stanza d’ospedale, dove ti avevamo di nuovo ricoverato perché le cose stavano precipitando.

    Ti chiesi se desiderassi alzarti, mi rispondesti subito , e sono certo che se ti avessi invitato a uscire, ad andare sul lungomare, mi avresti risposto nuovamente , con quella forza d’animo e la voglia di vivere che ti caratterizzavano.

    Le imposte socchiuse creavano nella stanza una zona di penombra. Ti muovesti adagio, ma molto meglio di quello che mi sarei aspettato. Il lume acceso rifletteva il tuo profilo sulla parete bianca.

    «Vuoi che ti faccia la barba?»

    Annuisti e ti facesti accompagnare nel bagno. Ti spalmai la schiuma sul volto e pian piano, senza parlare, ti radevo. Osservavo il tuo volto, le tue rughe, le piccole macchie sulla pelle come isole di un tempo infinito. Ti sbarbavo senza fretta. Poi mi versai il dopobarba sul palmo della mano e ti massaggiai il volto. Alzasti il viso verso di me e la luce illuminò i tuoi occhi. Li cerco spesso, ancora oggi, quegli occhi, quando sono al buio, con i miei dubbi.

    L’odore del dopobarba mi attraversò le narici e riempì rapidamente gli spazi della mia mente, penetrando tra i miei pensieri. Il tuo dopobarba. E solo allora, nel bagno, con te sulla sedia e io appoggiato al lavabo, iniziammo a parlare. Ti ponevo delle domande e tu rispondevi senza chiedermi il perché.

    Quali sono i ricordi più belli dei viaggi fatti da noi due insieme? E tu mi ricordasti quello negli Stati Uniti. Senza mai confonderti, mi raccontasti di San Francisco, di quando rimanemmo per ore seduti di fronte alla vetrata del balcone, con i piedi appoggiati sull’inferriata ad osservare la grande città. «Bellissimo», mi dicesti. Fumavamo. Lo facevamo spesso, quando eravamo in viaggio. Senza mai aspirare sputacchiavamo fumo dappertutto dopo averlo trattenuto lungamente in bocca. Non abbiamo mai fumato veramente noi due, ma quando partivamo insieme, guai a dimenticare sigari o sigarette.

    Mentre parlavi e la luce si rifletteva sui tuoi capelli bianchi, ti lasciai da solo per un poco e rimasi, ancora a San Francisco, in quell’angolo di strada ad ascoltare quei neri che suonavano jazz; il sassofono diffondeva le sue note: quel suono caldo che mi è sempre piaciuto. Incredibile come è nitido quel ricordo; mi invitasti tu ad ascoltare e rimanemmo lì a lungo. Solo tanto tempo dopo ho imparato ad apprezzare le cose che tu apprezzavi, oggi mi ritrovo ad essere molto più simile a te, alla tua età, che a me stesso da ragazzo. Ora ho esattamente l’età che avevi tu allora. A San Francisco, quella sera, ci dimenticammo anche di cenare, camminammo senza meta fino alle prime luci del giorno.

    Eri ormai ben sbarbato, ma rimanemmo in bagno e ti chiesi dell’altra passione condivisa in tutti gli anni vissuti insieme. «Quale partita ricordi con più piacere? Della Salernitana ovviamente!» Rispondesti: «Quella con il Genoa». Dapprima pensai che per quella domanda, come per le risposte che danno i bambini, aveva influito il fatto che era stata l’ultima partita che avevi visto allo stadio; poi ricordai che proprio in quell’occasione c’eri andato con tutti i nipoti maschi e allora compresi che non era una risposta infantile, ma meditata. E comunque la Salernitana vinse, disputando una splendida partita. Mi tornarono alla mente le immagini di quando, fin da piccolo, per mano, mi conducevi allo stadio. Le infinite partite viste in tua compagnia in televisione, e poi le partite condivise con te e con i miei figli, tutti insieme. Ricordai quando, una volta, andando allo stadio, ci fermammo al bar e mi dicesti: «Prendiamo un caffè?»; era la prima volta che mi invitavi a prendere il caffè; non ho mai più bevuto un caffè così buono. Mi sentii grande, tanto grande da poter discutere con te di tutto. E lo abbiamo sempre fatto, sei sempre stato il mio punto di riferimento. Poi durante gli ultimi anni, pian piano, i ruoli si sono invertiti, e mi inorgogliva il tuo chiedermi consigli…

    Mi dicesti di accompagnarti a letto, ma non ti addormentasti subito, anzi vedemmo un film di Totò e ridemmo insieme; ricominciasti a strofinarti le braccia. Il film lo ricordavi, anticipavi addirittura le battute. Ti osservavo quieto e mi chiedevo se tu avessi compreso. In quel sorriso malinconico intuii che avevi capito, ma conservavi il tuo essere sereno, che meraviglia!

    Mi raccontasti di quando andavi al cinema con i tuoi amici e degli anni giovanili e di quando all’improvviso ti chiesero di partire per la Lucania offrendoti un posto di lavoro. Erano storie già ascoltate, eppure mi faceva piacere sentirle ancora, come se i racconti di quel tempo potessero dare forza al presente. A un presente che in quei giorni mi pareva non esistere, spartito tra il passato, in cui subito precipitava inesorabile, e il futuro, percepito come altro, senza vita.

    Adagio ti addormentasti. Spensi la luce e ti osservai a lungo. Respiravi piano; si leggeva sul tuo volto una grande stanchezza. Mi sembrava assurdo che potesse veramente accadere quello che la ragione mi delineava; che la vita, ancora presente nei gesti, nei pensieri, in ogni piccola azione, potesse diventare, improvvisamente, nulla. Ed era inutile pensare: Rimarrai nei nostri cuori, rimarranno i ricordi, rimarranno le cose che hai fatto, il tuo esempio. Era inutile pensare a frasi fatte per dare senso alla più grande ingiustizia a cui è sottoposto l’uomo, niente avrebbe potuto riempire il vuoto infinito. Ti osservavo e già mi mancavi.

    Andai a sedermi sulla poltrona, vicino alla porta, e seguitai a osservarti.

    Provai a entrare nei tuoi pensieri. Li percepii, come sottili vibrazioni. L’ingiustizia non è andare lontano, ma avere il timore di non potervi più incontrare. Vivrò in un altro luogo, più bello? Impossibile che sia confortevole senza di voi, meglio il nulla; il nulla, dimensione che non si riesce a concepire fino in fondo. Ci sarà un’altra vita poi? No grazie, non m’interessa, senza di voi. Poi un’esile speranza, che riesce a scaldare il cuore: un giorno, forse, l’impensabile….

    Continuavi a dormire; appoggiai la testa alla spalliera della poltrona e mi assopii anch’io. Nel dormiveglia vidi, tra le macchie del soffitto, timide immagini che mi venivano incontro dal passato. Il volto di mamma giovane, i miei fratelli piccoli, con il grembiule della scuola, che andavano incontro alla vita, il tempo della Val d’Agri e il fiume laggiù che scorreva quieto. Le lunghe partite a pallone nella piazza immensa, e la grande quercia, sembianza di famiglia, di casa. Fotografie appena ovattate nella mia mente. La vita è un mucchio di scatti non dimenticati, uno dopo l’altro. E poi venne il tempo di Salerno: la piazzetta dei Mutilati, gli amici della vita, e infine via Arce 51, la casa dei tanti Natali, tutti insieme. Spazi e tempi tatuati sulla pelle.

    Il mondo iniziò ad accelerare, a girare sempre più in fretta. Mi raggiunse il presente: mia moglie, i figli. Mi ritrovai stanco, avrei voluto fermarmi a meditare, ma non c’era tempo. Avvertivo il peso delle cose, delle persone care che avrei voluto proteggere per sempre: i figli, soprattutto i figli. In alcuni momenti percepivo la famiglia come un limite, come un carico che mi tratteneva al suolo mentre avrei voluto librarmi verso il cielo. Anelavo a essere libero, sognavo di volare verso spazi sconfinati, senza regole, senza domani. Non era possibile. Mi fermai un attimo: la luce soffusa del camino, i lampi dei loro occhi, i capelli neri di mia moglie. Presi tra le mie le sue mani. Pensai a quanto avevo realizzato e mi accorsi che nello spazio infinito c’ero già e proprio quel peso, come per incanto, più leggero dell’aria, mi aveva condotto in alto, in alto. E mi accorsi che tutto ciò non mi bastava, volevo andare oltre, e ora era possibile: lì, in alto nel cielo, non ero solo, avevo con chi gioire, con chi ridere, con chi progettare il futuro, e con loro era pensabile andare oltre, sempre più in alto. E mi accorsi che il nulla non esisteva e percepii che, forse un giorno, anche tu papà…

    Mi ritornarono alla mente i versi di Pablo Neruda che, proprio quella sera, a San Francisco, avevo trascritto sul mio diario:

    Ma quanto vive l’uomo? / Vive mille anni o uno solo? / Vive una settimana o più secoli? / Per quanto tempo muore l’uomo? / Che vuol dire per sempre?

    La porta che si aprì mi riportò al presente. Ritornai in quella piccola stanza d’ospedale. Mia sorella veniva a sostituirmi al fianco di nostro padre. Chiacchierammo per un po’, infine mi avvicinai a te, papà, e ti diedi un bacio sulla fronte. Tu schiudesti pigramente gli occhi, mi sorridesti, mi dicesti: «Ciao, a domani». «A domani», risposi, e distolsi subito lo sguardo dal tuo volto, non volevo che vedessi i miei occhi lucidi; ti baciai ancora, aprii la porta e uscii, nel frattempo un’infermiera attraversava il corridoio.

    Chiusi infine la porta alle mie spalle.

    Capitolo 2

    Papà morì pochi giorni dopo. Avevamo appena fatto in tempo a ritornare a casa, nella sua casa di via Arce.

    Maria, la giovane donna ucraina che gli era vicino durante quella notte, venne a chiamarmi: «Sta respirando molto lentamente». Corsi da lui e feci appena in tempo a percepire i suoi ultimi respiri, con i quali, ne sono convinto, teneramente mi salutò.

    Al rientro dal camposanto, andai a sdraiarmi sul suo letto e osservai attentamente lo spazio dei suoi ultimi giorni. Spirò nel lettino dove, per assisterlo meglio, lo avevamo trasferito nell’ultimo periodo della sua vita. In quella stanza, l’ultima a destra del lungo corridoio, che era stata la loro prima camera da letto e poi era stata studio e infine l’avevamo adattata ad accoglierlo, circondato dai tanti dipinti alle pareti, dai suoi libri, dalla corrispondenza e gli appunti di un’intera vita.

    Disteso, capii perché negli ultimi tempi parlava di quadri e di ritornare a casa.

    Poi, per un lungo intervallo, evitai di mettere in ordine i ricordi e di andare alla ricerca del suo passato, quel passato che conoscevo bene, ma del quale mi mancavano molte tessere, in particolare degli anni in cui non ero ancora nato o ero troppo piccolo. Mi limitai a scattare delle foto per non cancellare il suo tempo. Fotografai la sua camera, poi la sua libreria con tutti i volumi in ordine.

    Passai in bagno, al mobiletto nel quale c’erano molte delle sue cose. Il suo profumo, le sue inseparabili creme e, su un ripiano di quel piccolo mobile di vetro trasparente, altri libri riposti in un ordine ben preciso. Erano i libri che aveva più amato o, probabilmente, quelli che più avevano lasciato il segno lungo la strada del suo vivere. Non potevano mancare i miei romanzi. Li aveva sistemati tra Cristo si è fermato a Eboli di Levi e L’uva puttanella di Rocco Scotellaro.

    Finalmente, un pomeriggio, mentre discorrevo con mia madre, seduto sul divano del salone, nella nostra casa di via Arce, e ricordavamo come sempre i momenti passati, le dissi di conservare accuratamente le cose scritte da papà perché forse un giorno…

    Così dicendo ci ritrovammo nello studio a rovistare tra i cassetti. Scoprii il suo mondo di carta: le sue lettere di lavoro, ordinate con un metodo rigoroso che non mi sarei aspettato, i suoi fogli con gli appunti più vari di una vita, le sue agendine, delle quali non conoscevo l’esistenza. E ancora, i testi che aveva raccolto nel tempo, che trattavano di bonifica e di Lucania. In particolare era catalogata in bell’ordine tutta la corrispondenza intercorsa tra lui e i Commissari che avevano diretto il Consorzio dal 1954 al 1968.

    Le chiesi di poter trasferire a casa mia quel cosmo di fogli graffiati con inchiostro nero e blu e di piccole agendine colorate.

    Lei acconsentì. Presi anche la Olivetti Lettera 32 con la quale aveva battuto numerose di quelle testimonianze.

    Non mi sarebbe stato facile ricostruire. Ero convinto che sarebbe stato possibile raccontare di mio padre e del suo tempo solo quando fossi stato certo di poter raccogliere una storia reale, senza spazio per invenzioni o ipotesi. Non volevo narrare una storia, ma raccontare la sua storia, che si era saldamente annodata con la storia della Val d’Agri.

    Un evento fu determinante a convincermi che lo sarebbe stato.

    Ero davanti allo specchio, mi sbarbavo. I movimenti ritmati che facevo mi impressionarono. Mi sembrò che allo specchio ci fosse lui e che io fossi lì nascosto a osservarlo.

    Sempre più spesso in quei giorni scorgevo nei miei gesti, nelle mie espressioni i gesti e le espressioni che erano stati suoi prima che miei. Pensai che dopotutto gli assomigliavo, non solo nei segni ma anche nei pensieri, nelle aspettative, nei sentimenti, nel modo di interpretare la vita.

    Quella mattina, mentre le prime luci si spargevano nel piccolo bagno, dalle mattonelle bianche e viola, continuavo a radermi, e osservando nello specchio l’immagine che mi era di fronte, ritrovai in modo nitido i suoi pensieri; scoprii in me la sua presenza e mi convinsi che interpretare e scrivere le emozioni di quel giovane di tanti anni prima sarebbe stato possibile. Era il gioco del tempo che si ripete e si confonde: scorre inesorabile, sovrapponendo momenti che si assomigliano, di generazione in generazione.

    Avevo letto da un testo di Oriana Fallaci: Essendo uno scrittore, e scrivendo un libro che è un romanzo – basato sì su precisi fatti storici e ricco di precisi personaggi storici, ma romanzo – a me interessano certi caratteri. Certi episodi e basta.

    Sì! Avrei provato a raccontare.

    Tutto ciò che mi sarebbe potuto servire per costruire la struttura del racconto era negli infiniti documenti che mio padre aveva lasciato e in più, anche se come spettatore distratto, per un lungo tratto della storia, io c’ero stato. Pensai: Saranno ben delineati territorio e personaggi. Quando avvertirò lacune da colmare andrò alla ricerca dei fatti, degli ambienti, degli uomini di allora, ritornerò nella Valle tuffandomi nei testi che riguardano la regione, la bonifica, la storia di quel tempo. Il viaggio può iniziare dunque, e sebbene si tratti di un romanzo mi muoverò nell’intento di non commettere errori storici e nella consapevolezza che vi sarà una parte del libro in cui il racconto sarà meno romanzo e assumerà piuttosto i connotati del memoir.

    Rimasi ancora per un po’ sospeso tra il timore di poter tradire il passato, la storia, e l’interesse di provare a restituire, in modo fedele, uno squarcio dei giorni e degli spazi di un uomo che era stato tra i protagonisti degli eventi della terra della mia infanzia, poi, gradualmente, i dubbi scomparvero.

    Quell’avventura valeva per le domande che mi avrebbe obbligato a pormi e per la strada che mi avrebbe costretto a percorrere. Ero certo che mi avrebbe regalato forti emozioni scoprire gli incroci dei tanti percorsi che quella storia mi avrebbe offerto.

    Iniziai a cercare le smisurate tessere che quell’incredibile puzzle mi imponeva di recuperare, e cominciai a provare ad incastrarle tra loro.

    Il treno si mosse

    sul ferro lucente.

    Le gioie nel cuore

    mi s’erano spente.

    Mio padre

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