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Il baro
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E-book231 pagine3 ore

Il baro

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Un uomo che considera banale l’esistenza che ha vissuto e che, per l’insoddisfazione che essa gli ha procurato, reclama il diritto di pensare in modo differente su temi che invece sono unanimemente condivisi è il filo conduttore del romanzo Il baro. Il protagonista è un misantropo che narra in prima persona il suo viaggio introspettivo e, poiché è consapevole che il suo modo di pensare sarebbe inaccettabile per la società, spiega la scelta di ritirarsi in solitudine col doppio intento di non ritrattare e di non offendere. La storia non è focalizzata sulla libertà di coscienza, ma evidenzia la difficoltà di mantenere le proprie idee in un mondo che ha già provveduto a codificare i comportamenti da tenere. Il punto di osservazione privilegiato è l’ambito domestico, dove vengono analizzati in particolare i rapporti che intercorrono fra il protagonista e il figlio, figura ben più serena e luminosa, in modo che risalti la contraddizione di una condizione esistenziale che non sempre è riconosciuta e che molto spesso è inesprimibile.
LinguaItaliano
EditorePetra
Data di uscita25 giu 2016
ISBN9786050465334
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    Anteprima del libro

    Il baro - Petra

    demone

    Capitolo primo

    La massima ambizione di un essere umano è quella di restare solo, altrimenti non si comporterebbe spregevolmente non appena ne avesse l’occasione e non esigerebbe la soddisfazione del suo amor proprio a costo di sacrificare l’amore vero. Eppure, cedere per un solo momento alle necessità degli altri, sebbene siano più vere e autentiche di tutte le fantasie che si rincorrono nella propria testa, per molti equivarrebbe a un’imposizione e, poiché l’imposizione è la più dura condizione a cui sottostare, le torture che ne deriverebbero sarebbero identiche a quelle provocate dalla perdita di qualcosa di vitale, di un diritto, di un organo.

    Peccato che non sia tanto abile da imprimere ironia a queste righe, ma deve dipendere dal fatto che sono stato reticente sull’elemento principale: ambire alla solitudine è stata anzitutto la mia intenzione. Ecco, ora sarà più comprensibile, ma da questo piccolo errore sarà chiaro che qui intendo fare un esame, non una confessione. Sbaglierei impostazione, se immaginassi di confessarmi, visto che sono sempre stato più bravo a dissimulare che a esprimere... Anche in questo c’è ironia, la si riconoscerà alla fine.

    Vorrei capire, anzitutto, perché mi sia sistemato proprio nella stanza in cui si è svolto l’ultimo incontro con mio figlio, visto che non cerco di castigarmi. Dipenderà dal fatto che, fra le stanze di casa mia, una non vale più dell’altra, se, alla fine, ho scelto quella con cui mi rimane familiarità.

    Sono seduto proprio al centro del salotto, cosicché il difetto di questa stanza è ancora più evidente: vi è un che di pretenziosamente simmetrico e di contraddittorio, perché la simmetria si rovescia da destra a sinistra, come se qui, dove sono io, vi sia uno specchio o una lente che capovolga la prospettiva. Visto che da qualche parte bisogna iniziare, inizierò da destra. A destra, si aprono tre finestre lunghe e strette, simili a feritoie, che mostrano più cielo che terra. Non c’è nessun intento spirituale nella loro direzione; mi piace guardare il cielo solo perché mi evita di vedere la gente, sia quella che si affaccia alle finestre delle case di fronte, che sono più basse, sia quella che cammina per la strada. Non sopporto la gente. Scommetterei che, fra la moltitudine che gironzola in città in un giorno, non ci sono che una o due persone che perseguano uno scopo di qualche valore – e che la metà di queste non lo realizzerà per distrazione o paura. Non ho mai visto nulla di più insulso di una folla di abitanti di città...

    Amo le città, invece, e la mia in particolare, fin dove è composta di pietra e di ghiaccio, o quando la nebbia serpeggia fra le vie, trascinandosi al suolo come un velo da sposa (sarò l’unico al mondo a essere incantato dalla nebbia; dovrei essermi caratterizzato alla perfezione). Guardando l’ordine, le proporzioni e l’armonia degli edifici, specie quelli che si vedono dal fiume, mi stupisce che qualcuno che non era nulla di meglio che un uomo abbia potuto creare qualcosa di maestoso, persino che abbia potuto averne l’idea... Ma l’idea balena per un istante nella mente di quell’uomo e poi la realizzazione avviene sforzando coloro che sono stati chiamati per darle sembianza, cosicché, ancora dopo secoli, fra coloro che passano davanti a un monumento c’è chi, con pietà anacronistica, osserva, scuote il capo e borbotta: «Quante persone sono morte per questo...»

    Mi sono sempre chiesto se sia sensibilità, ignoranza o politica a nascondersi dietro queste affermazioni e soprattutto a che serva compiangere chi è morto senza lasciare traccia di sé, neanche il nome, solo perché siamo tutti uomini e perché il simile deve provare una pietà istintiva e astratta per il simile, altrimenti diventa qualcosa di peggio che un rinnegato, un verme. Non voglio nemmeno supporre che un poveretto debba essere scusato perché non ha avuto possibilità e mezzi: sono comode scuse, tanto più che anche con possibilità e mezzi è più facile fallire che andare in porto. È impossibile che non sia mai capitata un’occasione di riscattarsi. No, non è così: l’occasione c’è stata, ma è stato più comodo lasciarla passare, accampando scuse di ineffettuabilità, di mancanza di tempo, o (peggio ancora!) per aver perduto il momento. Questa non è una scusa, ma un’aggravante. È un’aggravante, sì, è proprio un’aggravante! Oh, so come va il discorso: è un poveretto, non ha visto che avversità, forse miseria, e, quando gli è arrivata l’occasione, è stato sopraffatto dall’inesperienza, dall’angoscia... Beh, peggio per lui. Fatto sta, allora, che l’occasione c’è stata e che avevo ragione io, quindi va bene anche che non voglia compatire chi l’ha perduta. Avere pietà è facile quando le persone sono lontane, ma sono sicuro che se i filantropi incontrassero il poveretto nella figura di un loro conoscente, farebbero in un attimo il conto, valutando vagamente il carattere e soprattutto tenendo in alto valore l’opinione che hanno di lui, che ha fatto passare l’occasione perché è sempre stato un distratto, uno stupido, un ignorante. Adesso, vorrei capire in cosa il mio sconosciuto sia diverso dal conoscente, fuorché per il fatto che ho avuto la fortuna di non conoscerlo. Riducendo all’osso, le storie e il disprezzo sono identici, quindi non vedo in cosa io sia peggio di tanti altri che stigmatizzano i vivi. In entrambi i casi, disprezziamo una di quelle miriadi di esseri nati per un insulso errore, per un egoismo dei genitori che non si sono preoccupati affatto se valesse la pena dar la vita a una creatura e se per essa venire al mondo fosse motivo di gioia o dolore. Io stesso, se avessi potuto, avrei rifiutato di venire al mondo, perché sono un uomo banale, e il più banale di tutti. È di nuovo un’ironia e, senza di essa, non avrei scritto una parola di quel che finora ho scritto.

    Ho sciupato l’effetto che mi ero ripromesso, benché questa digressione non sia stata superflua; tutto tornerà utile in seguito. Non sono un vero scrittore, sono al mio primo cimento e, per essere sincero, sto improvvisando. Devo tornare goffamente indietro. Mi sono dimenticato di dire che al lato verticale e destro della stanza ne corrisponde uno orizzontale e sinistro. La parte sinistra è attraversata a diverse altezze da una linee orizzontali, parallele a spazi diseguali, uno sotto l’altro, con una ripetitività ossessiva. Da lontano, la geometria confonde l’occhio, provoca persino le vertigini. Le linee corrispondono alla sommità della credenza, che copre mezza parete, agli scaffali, sette in tutto, e al battiscopa che spunta ai lati della credenza; il motivo continua nel parquet. La concentrazione di linee si infittisce verso il basso, perché gli ultimi scaffali sono più stretti, cosicché sembra che tutto debba precipitare: presumo che l’impressione dipenda da una mia precisa preoccupazione, perché, quando l’ho fatto notare a mio figlio, mi ha risposto che io troverei la precisione anche in un quadro d’avanguardia (anche se lui è il primo a sentirsi disorientato qui dentro)... Beh, non era la prima volta che un giudizio di mio figlio fosse scorretto, ma non l’ho contestato e mi sono limitato a un minuscolo, curvo sorriso, perché ho il vizio di non correggere l’errore, anche se sono sicuro che sia un errore. Io sono così, così incoerente, e solo per la consapevolezza di questo mio tratto, mi domando come altri mi considerino troppo ligio. Aggiungo anche che sono molto riservato, non mi piace che si parli di me e io stesso cerco di evitarlo.

    Per concludere, ho reso il salotto il più cupo possibile. Le tre finestre sono esposte a nord e tutto è avvolto nella penombra; la luce non illumina la stanza che per un breve metro. Ho fatto appendere le doppie tende, quelle esterne di un pesante velluto blu, ho scelto una tappezzeria scura, che avvolga tutta la stanza come un mantello e i mobili e la mia stessa poltrona hanno una tinta tendente al nero. Può darsi che il mio umore sia influenzato proprio dal colore dominante, oppure che lo veda così scuro (è indubitabilmente scuro, solo che ormai sono più quelli che si divertono a esaminare la psiche contorta per arrivare al paradosso che non c’è nulla di assoluto, piuttosto che trovare una certezza una volta per tutte), che io, dicevo, veda scuro il colore dominante per via del mio costante umor nero. Per essere sicuro che le cose stiano come voglio io, cioè che queste stanze siano scure perché sono indubitabilmente scure, fumo moltissimo e non arieggio affatto...

    Sì, io sono così, dispettoso anzitutto con me stesso e solo poi con gli altri. Mi conformo a quello che si chiama non pretendere da altri più di quello che pretendo da me, ma il guaio è che non pretendo neanche di meno e non voglio che ci sia di più. Deve essere per questa fermezza che, di tanto in tanto, mi hanno definito persino logico, ma non esiste persona che sia meno logica di me...

    Vediamo se riesco a raccontare la mia storia senza essere prolisso. Non ho intenzione di ripercorrere minuziosamente la mia vita, non voglio annoiarmi o stizzirmi ricordando episodi attraverso i quali mi basta essere passato una volta. Ci sono peraltro più sentimenti che fatti e mi interessa esplorare anzitutto i primi, così mi sbrigherò ancora più in breve, perché non è possibile descrivere sentimenti senza fatti (ma com’è possibile che gli uni sorpassino tanto gli altri?).

    Non ci sono fatti perché sono stato più attivo nel pensiero che nelle azioni, oppure perché quei fatti, se esistono, sono di una banalità, di un’ordinarietà sconcertanti e non occorre fantasia per immaginarli. Sono nato in una famiglia con principi solidi e aspettative ordinarie – no, grette – e la mia vita è stata semplice, lineare, frastagliata solo per un disordine dell’anima, che non so se attribuire più alla delusione o al rancore, ma senz’altro a tutti e due. Me ne stupisco io stesso, visto che non c’è un motivo sostanziale che li giustifichi, ma purtroppo, quando non si ha nulla da fare, si medita, e a meditar troppo si esagera. Per di più, sono un solitario e la solitudine è buona per tutto fuorché per l’equilibrio. Mi sono fatto assorbire da me stesso, anche se in fondo non lo considero un difetto: non c’è rifugio più sicuro che in se stessi, perché gli altri sono così inaffidabili, o curiosi, o malevoli, che costringono sempre a tenere alta la guardia. Basta conoscere una sola persona e le si troveranno così tanti difetti che passerà la voglia di fare conoscenza con chiunque; si diventa egoisti per colpa degli altri.

    Da bambino, ero di una sensibilità vivissima, nervosa. Ero viziato e capriccioso, ma ciò contribuiva a rafforzare la mia trepidazione, per cui saltavo su, veramente saltavo su, quasi fino a scandalizzarmi, se notavo un’ingiustizia, non solo verso di me, ma verso chiunque. Non potevo sentir piangere senza correre a informarmi del motivo e se vi fosse un rimedio, e, nelle rare occasioni in cui prestavo orecchio ai discorsi dei miei compagni, mi stupivo di quanto fossero furbi rispetto a me e le osservazioni appena saporite mi parevano cattiverie. Se capitava che mi stuzzicassero, non rispondevo, ma non mi avvilivo e mi raccoglievo in me stesso, per consolarmi nel modo più dolce, cioè vedendomi come il primo, ma in un modo affatto particolare; sarebbe più esatto dire che mi vedessi come l’unico, ma in un’accezione di solitudine più che di superbia.

    Non mi soffermerò su queste fantasie infantili, ma era giusto registrarle perché qualcosa di esse si è protratto fino all’adolescenza, quando hanno trovato uno sbocco e si sono riversate sul violino. Ci si potrebbe aspettare che un uomo, così come sono io, fosse pazzo per la musica? Il violino! Avevo iniziato a suonarlo da piccino, per far piacere al nonno, violinista dilettante (è stato il mio primo maestro), e al violino e a quel buon vecchio sono legati i ricordi più sereni della mia infanzia. Mio nonno è stato l’unico essere che abbia amato interamente; mi duole confessare che lo amassi tanto perché non mi ha mai contraddetto... Ma perché avrebbe dovuto contraddirmi, se per noi andare d’accordo era naturale? Spero davvero che non lo facesse solo per assecondarmi, per l’unico nipote... Non voglio rifletterci, non alla mia maniera. Il nonno era un buon uomo, era generoso se non altro, e come posso biasimarlo per una qualunque cosa, io, da qui dentro? Al diavolo i ricordi sereni, neanche questi mi danno pace!

    Amavo suonare, dunque. Quante ore ho dedicato al violino! Amavo il suo suono stridulo e amavo la sua piccola forma; tendendo entrambe le mani sopra la cassa sfioravo coi mignoli le due estremità. Era delizioso, era qualcosa di cui prendermi cura. Non avevo molti amici, cosicché riponevo il mio affetto negli oggetti, e in quello, in particolare, vedevo riunite così tante, ardite e disperate speranze che quasi mi scoppiava il cuore se mi sovvenivano tutte insieme. Ero pronto a dedicarvi tutta la vita, era come se l’avessi già data, a lui solo, senza distrazioni, senza ripensamenti, e mi aspettavo riconoscenza dallo strumento stesso, come se percepisse il mio affetto – non ho mai trovato possibile che non ne fossi ricambiato. Ambivo a diventare un grande solista, volevo una carriera quantomeno sfolgorante e pregavo il violino stesso di concedermela, sì, lo pregavo, ogni volta che lo impugnavo...

    Ecco, l’ho ammesso e per la vergogna strapperei il foglio: la carriera, e che carriera! Odio la mia ingenuità, odio le illusioni che ho nutrito; fossero state meno fervide, ora riuscirei a essere distaccato. Era necessario ammetterle, però, e sarà il caso di ribadirle: volevo farmi un nome, ero ambizioso, ma soprattutto per un desiderio di indipendenza, per orgoglio, se vogliamo, ma un orgoglio benigno. Aggiungerò subito (non resisterei, altrimenti) che non avevo perduto la testa del tutto, che valutavo altre soluzioni, ma la prima, in assoluto la prima, restava questa, la più impervia. Fra me e me, non discorrevo di altro... e ora non so neppure se riuscirò a parlarne.

    Non spenderò una parola sul mio presunto talento, né mi darò le arie dell’incompreso, perché sarebbe una stupida immodestia, per chi non ha avuto successo. Per come è andata, è uguale che fossi un virtuoso o che stonassi all’attacco. Ero diplomato al conservatorio e avevo diritto a delle speranze, ecco tutto, ma non vuol dire niente, visto che di rado fama e bravura sono buone compagne e sono più le volte in cui divergono. Chi mi ascoltava, mi faceva i complimenti, cosa che più che lusingarmi ritenevo dovuta, visto che non dubitavo di meritarla, ma che contribuiva a radicare la mia pericolosa ambizione. Il mio principale difetto è di prendere troppo sul serio le cose, qualunque cosa. Da ragazzo, non muovevo un dito se non potevo immaginarmi che quel che ero in procinto di compiere non sarebbe stato utile ai fini del mio progetto: la distrazione o la pigrizia mi faceva sentire in colpa. «Tu sperperi la benevolenza di Dio» mi ripetevo, sapendo quanto il tempo sarebbe stato fondamentale per migliorare e crucciandomi di non averne abbastanza. Avevo una vocazione e il mio dovere era tendervi e, quando mi ero accorto che nessuno manifestava le stesse inclinazioni o addirittura non sapeva aspirare a nulla di simile, credevo che il solo immaginare qualcosa di nuovo mi rendesse speciale e che, avendo le capacità, sarei riuscito automaticamente. Chi non fa di se stesso l’eroe delle proprie fantasie? Potrei dire che, nell’immaginarmi come un violinista onnipotente (sic!), mettessi ancora più impegno che nello studio. Ero così sicuro del mio successo da sentir divampare dentro di me un talento che sarebbe bastato per tre carriere: ed ero veramente fuori di me, per far nascere il talento dal successo...

    Oh, la cosa ridicola è che avevo l’ambizione, forse avevo il talento, ma non avevo il carattere per arrivare dove mi prefiggevo, cioè non il più in alto possibile, ma il più in alto di tutti e quel carattere, paradossalmente, me l’ero formato rintanandomi nel mio buco. Ero un buon ragazzo, avevo una speranza e non c’è nulla che mantenga buona una persona quanto una speranza, ma mi mancava quel genere di rabbia che mi avrebbe reso risoluto e che non avevo sviluppato perché non avevo avuto accanto nessuno con cui competere. Avevo perduto dimestichezza con la gente e, quando mi trovavo in mezzo a essa, mi sentivo come prosciugato. Nelle conversazioni non avevo nulla da raccontare oltre allo studio e detestavo la sintesi con cui si compendiavano ore e ore di esercizi, ma neanche gli altri avevano nulla di nuovo da dirmi e si rifugiavano nelle solite, generiche domande sui miei studi, con una curiosità assidua, da cui non potevo sottrarmi e che mi stizziva. Mi pareva che mi sorvegliassero. D’altro canto, anche al momento di esibirmi non avevo granché da esprimere (talvolta, io e degli amici, i due o tre che avessi, musicisti anche loro, organizzavamo dei piccoli concerti). Persino gli spettacoli, cioè – sarà il caso che lo sottolinei – il fine ultimo della mia disciplina, mi sembravano tempo sottratto allo studio. Soprattutto, però, quando suonavo non avevo passione, né entusiasmo. Anche nel mio grande sogno di fama, il mio fine principale era di non lasciare il mondo che mi ero creato, di preservare le mie abitudini e... fare il mio comodo, insomma. Volevo stare come un petalo staccato dalla corolla, uno di quelli che si conserva in un album e che alla fine resta lì, dimenticato. Qualcuno penserà che quel petalo ha avuto una sorte infelice, non è fiorito con gli altri, non è sbocciato nel più fresco rigoglio... ma in realtà quello esisterà ancora quando l’intera pianta sarà appassita, si mostrerà ingiallito e sgualcito, ma ci sarà, ci sarà. Volevo continuare la mia vita solitaria, volevo restare separato, non a distanza, ma in disparte. Potrei arrivare al paradosso che volessi diventare celebre per essere dimenticato.

    Io mi impegno fino allo sfinimento, ma come un burocrate, non come un artista. Anche allora, non avrei potuto illudermi per un istante di esprimere un sentimento nella mia musica, perché avevo troppo timore di rivelare qualcosa di me che avrebbe dovuto restare nascosto (come dire, ero pronto a sacrificare tutto alla musica, fuorché una delle poche cose veramente necessarie). Devo ammettere che fossi un prodigio di tecnica, era come se i suoni sgorgassero direttamente dalle mie dita. I miei spettatori mi dicevano che c’era un gran gusto anche a vedermi suonare, che era come «assistere allo sbocciare di un fiore»... ma non mi interessava a cosa somigliassero le mie dita, se muovendosi avrebbero prodotto il suono corretto. Una volta che mi ero trovato in grado (potenzialmente, almeno) di suonare tutti i pezzi, compresi i più difficili, con perizia – una volta, cioè, che avevo intuito come funzionasse l’ingranaggio – avevo cominciato a sentirmi satollo e meno soddisfatto di quando sbagliassi una diteggiatura. Dirò persino che ero più felice quando la mia preparazione era incompleta e al termine di un’esecuzione potevo affermare

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