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L'onestà del Moloch: ovvero della beata nientitudine
L'onestà del Moloch: ovvero della beata nientitudine
L'onestà del Moloch: ovvero della beata nientitudine
E-book244 pagine3 ore

L'onestà del Moloch: ovvero della beata nientitudine

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Info su questo ebook

“Essere in un posto che non è quello che sembra. Dicono: Se n'è andato. Ma uno, se va, da qualche parte arriva.”

Leggendo questo romanzo viene da pensare ad una nuova parola: “Inesistenzialismo”. Ma è meglio che anche a lei, come ai protagonisti di questa storia, sia consentito di giungere soltanto fino alla soglia del mondo.

LinguaItaliano
Data di uscita10 ott 2016
ISBN9788898419586
L'onestà del Moloch: ovvero della beata nientitudine

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    Anteprima del libro

    L'onestà del Moloch - Nivangio Siovara

    Indice

    quarta

    copyright

    SANGUE

    CUORE

    GAMBE

    SPIRITO

    LEGAMENTI

    TESTA

    ALI

    OCCHI

    PAROLA

    OSSO

    NOTA

    Dedicato

    a Popov

    SANGUE

    Smisi di vedere, o le cose cessarono d’apparire.

    Smisi d’udire, di toccare, assaporare, odorare.

    Ed ecco che, all’improvviso, a un’ora precisa, dimenticai tutto questo,

    e un nuovo mondo meraviglioso riedificarono i miei sensi.

    I (Uno)

    C’era una volta

    Io_Akbar_nel mio corpo/O: folle (fuori di testa, fuori di me)

    Sto. Lo so. Lo so: sto. Stare. Sostare. Lo so fare. Qui. Nient’altro che io possa fare. Qui. E dove, se no? Là? Là, dice... Là è troppo lontano. Io sto qui. Là è pieno di confusione, ci sono altre cose. Io sono qui. Là è un’altra cosa. Io, qui sono. E perché? Perché qui io non sono? Perché non altro, non altrove? Nessun altro v’è. Qui, Io, e nessun altrove. Qui, io. E qui per raccontarvi... Per raccontarvi una storia... ah, ecco... riguardo al: Quiddove? Certamente troverò il modo per riparlarne più avanti, oppure no, non so, è sicuro: giaccio – non saprei dirvi con certezza in quale luogo, saggio è guadagnare tempo, indagare. Oh, no! Meglio: so. So, io, d’essere qui. Occupo uno spazio, oh, questo è più che sicuro. Certamente: parlo dall’interno di una qualche cosa provvista senza dubbio del volume necessario a contenermi, e che volete che sia... una città, o un suo quartiere, un palazzo, un ascensore del palazzo, una scatola dentro all’ascensore, e nella scatola strettostretto sta, neronero sta... o... in essenza, in esistenza, esistenzialmente, o, forse, meglio, avrei voluto dire, essenzialmente: la mia parola vi giunge da dove sorge, dal contenitore che mi spetta di diritto, eredità incontestabile, il mio proprio corpo. Oh, sissignore. È proprio dal mio corpo che vi parlo. E poi, d’altra parte, sempre che di corpo ancor si possa parlare, dacché da molto tempo, (quanto? L’orologio della torre svetta aldisopra della nebbia, ohmmammiserrimi che qua a terra stiam, solo nebbia noi vediam) mi dà l’idea di essere per/del tutto inutilizzato/bile. Ecco allora, certo, anzi, forse, è il caso che vi renda partecipi di una mia ipotesi fondata, supposta scavando a fondo: sto vegliando il mio cadavere. Probabilmente. Provabile. Potrebbe benissimo, per quanto ne so, esser vero pure il contrario – oh, certamente è soltanto un modo di dire, non vorrei sul serio sostenere che il mio cadavere vegli me, ridotto a quello che sono, ciò che ancora misconosciuto di me rimane, neppure pretendo davvero d’esser io qualcosa di diverso dal mio cadavere (o starei già chiedendomi: è da lui o da me che questa voce vi giunge?) e ammetto pure che non ne so proprio molto su quest’argomento in generale, come, credo, nessuno di voi. No, non vi sarete davvero aspettati di trarre possibili insegnamenti da tutto questo mio discorrere? No, sono certo che nessuno di voi s’aspetti d’imparare alcunché da me e da tutto questo, e di ciò vi ringrazio. (Riguardo al tutto/cosa? Cosa,tutto? È nel nastro, nel filo ragionevolmente spezzato che irragionevolmente srotolo ai vostri piedi per divertirvi come gatti.) Ma, se v’interessasse poi sapere in cosa io credo sia contenuto il mio cadavere, (anche il mio cadavere, a sua volta, suppongo occupi uno spazio, lungo il quale trascinando il filo vi conduco. Dove? Non so.) prestissimo, o al massimo fra poche pagine, saprò ragguagliarvi circostanziatamente sulle informazioni elaborate dal mio spirito indagatore che come voi già avrete intuito, sgorga copioso e incessante dal corpo suddetto cadavere e da me medesimo in men che non si dica. Men? Che non si dica. Non si dica. Ecco, se non dovesse interessarvi per nulla l’esito dell’inchiesta riguardante il contenitore del mio cadavere, v’informerò per tempo che starò per parlarne allo scopo di darvi la possibilità di farvi una passeggiata, nel mentre. Sempre che i vostri piedi non siano già impigliati nel nastro. Oppure... proprio a causa vostra che non volete sapere, che preferite restare nell’ignoranza, deciderò di non parlarne per nulla, e chi vuol sapere resterà a bocca asciutta, e io a bocca serrata, ed ecco vedrete come l’ignoranza chiuda al mondo la luce. O mi ribellerò in punta di crepuscolo inviando solo un criptico accenno dedicato a quelli che invece manifestano così tanta curiosità al riguardo, magari per posta. Fatemi avere i vostri indirizzi con un certo anticipo, mi raccomando.

    Pesantissimi i miei pensieri. Tutto percepisco addensarsi infinitamente intorno a me. Aria e acqua intorno e fuoco e terra sotto di me sento raggomitolarsi. S’accentra, l’universo, nel mio respiro. Son io parte di qualcosa che possa muoversi, agire, fuggire? Se così fosse, del vuoto buio sarebbe quella cosa prigioniera, strangolata e paralizzata.

    Se l’universo fosse una scatola chiusa che si stringe perfettamente intorno a noi, come un abito aderente, che altro saremmo noi, se non buio?

    La nebbia si dissolve e ritorna, addio amici, ci vediamo domani, il sipario s’alza e s’abbassa, si risolleverà: e voi mi ritroverete qui, nello stesso punto, come inchiodato sul palco.

    Il mondo apre il suo occhio, lo richiude. Io sto qui, mi ritroverete qui.

    C’era una volta. La volta celeste

    Dicevo che lo scopo della mia comparsa, qui, nel vostro qui, alla vostra attenzione (sì, mi state leggendo in un qui diverso dal Qui dove Io mi trovo e come sia successo e succeda, Io non so. Sulla cosa poi del leggere e dello scrivere immancabilmente vi trasmetterò le mie dotte osservazioni sull’argomento) è di raccontarvi una storia, necessità che sento di dover espletare presto, molto presto, prima che mi abbandonino le forze. O, per quanto lo ritenga più arduo, che Io abbandoni le mie forze – proprio non saprei con quali forze potrei attuare tale impresa, ma, tant’è, non c’è da fidarsi, di me. Sì, dico forse che il tempo stringe per drammatizzare, per attirare ancora di più la vostra attenzione, per stringere i lacci, per tenervi a me legati strettistretti nerineri, all’ombra mia, in attesa della storia promessa, quieti. È pur vero che io abbia netta la sensazione che il distacco tra me e le mie forze sia già avvenuto. Non vorrei d’altra parte accusarle gratuitamente d’esser state loro a lasciarmi, per quanto si sia appurato, mi pare, che questa sia l’unica possibilità che avvenga una separazione fra noi – e che io sia perciò inerme e inerte, tutto solo. Vorrei pregare quelle mie forze che mi sono rimaste fedeli quanto basta in numero sufficiente per adempiere allo sforzo narrativo di rimanere al mio fianco per il tempo necessario, o d’avere la gentilezza d’avvertirmi di stare per lasciarmi dandomi un margine sufficiente per poter concludere la narrazione in un qualche brusco modo. E, oh... non mi vengano a dire, le mie residue forze, che una volta che se ne saranno andate, da sole, sapranno continuare la storia. Ah! Ho poi sempre saputo localizzare, con grande precisione e una punta di vergogna, il luogo dove andavano a finire le mie forze perdute, le saprei ritrovare subito. Ma no, non potrei, senza forze. D’altra parte è forse il caso, giunti a questo punto, d’abbandonare l’argomento, che pare, alla lunga, vagamente superfluo, e che ci fa solo perdere utilissimo tempo. E forze.

    Dirò dunque che tenterò di raccontarvi questa storia – volendo interpretare la mia urgenza di tramandarla c’è da credere che sia davvero notevole – poi se si dovesse rivelare uggiosa e deludente, perdonatemi, forse non la ricordavo bene, forse la sopravvalutavo un po’, o ho gusti strani, ho forse male compreso quale fosse la natura dell’urgenza che mi premeva e tutto questo mi farà perdere l’attimo giusto per espletare un possibile e trascurato, diverso bisogno – cercherò, comunque, dicevo, di portare alla vostra attenzione questa vicenda finché si manterrà questo fragile stato di cose. Questo, intendo, in cui io posso parlare e voi sentire. Perché è questo ciò che sta accadendo, vero? Voi mi capite, vero? Mi aspetto, ovviamente, che voi non rispondiate, nel caso in cui non possiate intendere la domanda. Inutilmente, quindi, mi aspetto. Inevitabilmente. Faremo che conterò fino a undici. Mi sembra un buon numero, undici. Il vostro silenzio, protratto oltre a quel numero, significherà, senza dubbio, che voi non mi sentite. Non vi faccio, infatti, così crudeli da credervi capaci di tirarmi brutti scherzi e di non rispondermi a bella posta. Gli indirizzi, a proposito. Uno. Due. Tre. Potreste non sentirmi contare. Quattro. Cinque. Sei. Questo non cambia nulla. Sette. Otto. Nove. Forse conto troppo velocemente, magari devo giusto darvi il tempo. Di e ci. Un dì ci. Imbarcammo sul mare levigato. Un dì ci. Scordammo la bussola e lo stato. Forse non capite la lingua: 11.

    Non vi sento rispondere.

    Proprio no.

    Ma se fosse perché Io non posso capire voi? Se mi state dicendo o domandando qualcosa per fare una verifica, non perdiate tempo, meglio che lo sappiate subito, chiaramente. Io non vi capisco. Neppure vi sento. Così, se voi riuscite a capire me e io non posso capire voi, è davvero inutile che io aspetti comunque di sentirvi dire che mi capite, non vi capirei. Forse il vostro modo di comunicare è inferiore al mio, forse solo diverso. Basta. Per chiudere – altrimenti, qui (dove?) non si va avanti (per dove?) – farò finta che voi mi capiate, va bene?

    Sì, sì, ovviamente... va bene.

    Una beata nientitudine.

    C’era una volta. La volta celeste. Celeste impero

    Dicevo, dunque... anzi: da capo. I protagonisti di questa storia saranno quattro. O no: Io. Meglio: i protagonisti sono quattro, io compreso, ma vedrete come nel corso della vicenda tale numero varierà. Sempre calando: non capiterà mai, ad esempio, che da quattro si cresca a cinque, a otto o chennesò, a centododici. No. Si passerà da quattro a tre, da tre a due, da due a me. Tenendo conto che me... Io... sarò sempre nei quattro, nei tre, nei due e... in me. Beh, sì, in me non so quanto Io sia stato neppure quando sembrava naturale che ci stessi ed ero uno di quattro, ma poniamo che in me come personaggio e protagonista del racconto, io ci sia sempre stato, o come fosse il cartellone di uno spettacolo teatrale al quale attendete d’assistere, diciamo:

    Io ………… personaggio ………… Me

    e poi per gli altri tre dovrebbe valere la stessa cosa. E con questo non intendo dire che ognuno di loro sarà interpretato da Me. O meglio: non ne sono certo. Ora, ecco, s’apre il sipario. Non si vedrà nulla, d’acchito, è che l’inizio della vicenda, ugualmente a tutto il corso della stessa, come avrete già capito, diciamocelo, non è troppo chiaro, e se non l’avete ancora capito, sappiatelo fin da ora, perché non accetterò recriminazioni di sorta su questo aspetto quando saremo giunti alla fine, io, ricordatelo, l’avevo dichiarato fin da subito, all’inizio della narrazione e quindi siete liberi di uscire, ma fatelo adesso, perché poi non verrete rimborsati. Ecco. Potrei, ora, per tentare d’incominciare a fare almeno un poco di chiarezza, col dire che io e gli altri tre siamo sempre stati molto, molto amici. Sapete, capita che la vostra famiglia magari non vi piaccia granché e allora pensate: non è colpa mia, i parenti mi son capitati, non li ho scelti io, sono solo l’innocente frutto ultimo di tutta la loro sacramentata fioritura genetica, anzi, addirittura il punto più alto – e, quindi, il peggiore – di tutto quel loro essere millenario che a voi piace così poco. Sì, forse questo è un altro discorso e lo affronteremo probabilmente in un altro momento, a richiesta. Così, dite fra voi, che non vi si senta, i parenti mi sono capitati, o capitato io a loro, ma gli amici me li posso scegliere da me. Ed è proprio ciò che abbiamo fatto io e i miei amici e cosa si potrebbe dire se non che la nostra famiglia eravamo diventati noi? Ognuno di noi in se stesso con gli altri, intendo. Perché comunque nessuno di noi in sé è mai troppo soddisfatto di come è. Ma, dannazione, quello che siete non è purtroppo opinabile: è molto peggio di un parente. Uno zio potete pure cessare di vederlo, ma voi stessi siete quella cosa che non potrete mai smettere d’incontrare ogni mattina appena svegli. Per non parlare delle misere libertà che alcuni noistessi si prendono durante la notte ricordandoci tristemente con chi dovremo dividere il letto per il resto della nostra vita. E con questo non voglio certo dire che ognuno di sé trova in se stesso o nel proprio sopracitato eventuale cadavere la sua stessa propria dolce metà. Benché io l’abbia appena detto. Aldilà di tutto questo, però, può succedere, anzi, Succede! Che il noistessi così tanto da noi detestato si riveli sorprendentemente un ottimo amico per qualcun altro, dai gusti incomprensibili ed eccentrici, in fatto di compagnia, e per questo così diverso da noi, così tanto che subito l’amiamo. In mancanza di meglio. E se il meglio non si presentasse mai, l’amicizia sarà eterna. Con costoro scambieremmo i nostri noistessi volentieri, ma questo non è possibile e così s’è inventata l’amicizia, che è una forma di condivisione di personalità che non si potrebbero mai sopportare in sé, un’avanzata e perversa forma di parassitismo... e... di cosa s’argomentava? Cielo... Ah, sì, dicevamo, noi eravamo la nostra stessa, medesima, in noi – Famiglia.

    Volta celeste. Celeste impero. Impero dei sensi

    Ci sono, è vero, amici buoni e meno buoni. Ci sono quelli che solo perché abitano vicino ti invitano a bere un caffè e tu non sai dire di no e così loro si convincono che noi siamo amichevoli nei loro confronti e così ogni qual volta passiamo striscianti e silenti contro al muro sotto a quella finestra alla quale stanno affacciati da anni senza apparentemente mai rientrare per mangiare o per dormire, ci invitano di nuovo e di nuovo, ancora per quel noiosissimo caffè, costringendoci spessissimo a mentire, a zoppicare, a starnutire istericamente, ad inventarci parenti giunti all’ultimo momento da uno sperduto continente o urgenze ospedaliere per non farli soffrire, accumulando colpe morali che assommano a un totale enorme, sempre inferiore comunque a quello che totalizzeremmo se li uccidessimo subito, e pure questo per non farli soffrire, evitandoci così tutta questa roba edificata per non fare la parte degli stronzi. Noi! Noi, gli stronzi, capite? Noi. Quando gli stronzi di certo son loro, che non riescono a capire – e l’ignoranza è colpa grave più dell’omicidio – che non abbiamo nessuna voglia di bere un caffè con la loro compagnia che detestiamo, che ci infliggono una violenza, che la loro ostentata artefatta gentilezza è diabolica, che accettiamo solo perché l’ombra della pietà ci ostacola la libera nostra circolazione, e discende questa dall’idea che ci siamo fatti della loro malattia, la solitudine, in concomitanza alla nostra autostima elevata quanto basta per poterci credere in grado di poterne alleviare i sintomi. Perché alla fine, comunque, anche se a noi di loro fondamentalmente non importa nulla, a nessuno piace mentire o fare la parte degli stronzi. È tutta fatica. Poi, magari – colmo dei colmi – pure loro c’hanno stimato abbastanza da crederci capaci d’alleviare la loro solitudine che tanto li autoimpietosiva, ma già dal primo caffè si sono formati invece l’idea che non ne siamo all’altezza, e allora, ogni volta, c’invitano a bere quello schifo di caffè perché sono loro, ora, a temere di fare la figura degli stronzi non invitandoci, e, bella roba, magari pensano addirittura che noi li crediamo all’altezza d’alleviare la nostra solitudine Ben detto. Benedetta! Santa! Celeste e divina. Che roba! Che gente. Dissacratori. Diavoli. Oh, ma il mondo è pieno, pieno di queste figure, abituatevi fin da subito, non c’è scampo, non potrete mai fuggire. Cercherete di rifugiarvi in Congo, magari, ma troverete sempre un tizio che v’inviterà per una banana, invischiandovi ancora in questa palude viziosa d’amicizia geografica. Ma: invece. Invece questo io stavo per dire: che io e i miei tre amici, pur non abitando troppo vicino (oppure sì, ma in un modo particolare che vi spiegherò dopo) nemmeno trovavamo il tempo di salutarci, incontrandoci, perché più che altro finivamo sempre per cozzare l’uno contro all’altro in piazza ancor prima di vederci, tanta nebbia c’è sempre stata in quella landa fredda, e non ci piaceva cozzare contro a nessun altro. Cozzavamo soltanto fra di noi, e gli altri li salutavamo.

    Celeste impero. Impero dei sensi. Sensi incantati

    Sì, insomma, credo di essermi spiegato, vero, lettore? Lettore? Ohibò... e come mi viene ora quest’idea dello scrivere? Non posso scrivere, non ne sono in grado, non riesco. Non so neppure dire se io l’abbia mai imparato, non ricordo. Qualcuno m’ha mai visto scrivere, per favore? Beh, non che sia una prova decisiva: potrebbero avermi visto fingere di scrivere, così, giusto per darmi un tono. Oppure il testimone che si presenta potrebbe essere un mitomane, o un millantatore che tenta di attirare l’attenzione su di sé strumentalizzando questo delicato argomento e sfruttando la mia persona allo scopo di crearsi una vasta popolarità e una gran ricchezza alle mie spalle. Certo, però, che se non sto scrivendo e tu non stai leggendo, come t’arrivano queste mie parole? Mi stai ascoltando, si diceva più sopra. Per chiudere quell’argomento: mi sono accorto che io non sto parlando. Lo dico, e dico lo dico tra virgolette, lo dico a ragion veduta, dacché non odo la mia voce, non si muovono le mie labbra, serrata è la mia bocca. E non sono un ventriloquo sordo. Questo lo ricorderei, ne son certo. Abbastanza. Telepatia? Tele apatia, piuttosto. Forse stai leggendo un libro che parla di me. Forse è così. Oppure sto riscrivendo malamente un certo libro che ho trovato per caso, che parla di un me che io manco so chi sia, non sapendo leggere, e riproducendo lettera per lettera il tutto come tanti piccoli disegni, pensando di creare un magnifico quadretto. Che poi, lettore, toglimi una curiosità: se uno scrive ma non lo legge nessuno, è uno scrittore comunque o è soltanto uno che scrive? Uno un po’ strambo... scrive, ma non lo legge nessuno... sta sempre in disparte, gli altri pensano che sia un po’ picchiatello... beh, d’altra parte è normale, non funziona così anche con la parola declamata? Uno è un oratore se c’è un bel po’ di gente che

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