Così a settembre
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Anteprima del libro
Così a settembre - Daniela Vasarri
errori.
PARTE PRIMA
Ottobre. La vendemmia è terminata, ancora oggi il vino, frutto dell’ingegno dell’uomo grazie alla bontà della natura, rimane una raffinatezza che può donare gioia a chi sa centellinarlo, facendone argomento di conversazione modaiola, un fiore all’occhiello per stupire, per emergere, per arricchirsi, per conquistare. Per chi non sa cogliere il suo beneficio può rivelarsi un prolungato piacere con cui annientarsi. Ma anche un’amara consolazione.
«Sa cosa mi piacerebbe fare con lei, adesso? Aprire una bottiglia di buon vino, riempire due calici di quelli che ti imbarazzano nel tenerli tra le mani, che ti fanno sentire potente e…
Rido per interrompere quel tentativo di seduzione mal riuscito. Come sono goffi gli uomini certe volte, e anche presuntuosi, se ci penso bene. S’illudono che siano sufficienti due stupide moine per attirarci a loro, giusto il tempo di vuotare un calice. Avrei potuto offendermi, risentirmi di tanta spregiudicatezza nel considerarmi la distrazione di un calice, ma ridendo ho accondisceso involontariamente. Ho prestato il fianco, rivelando una falla nella mia persona. Quella falla eri tu?
Il mio interlocutore non demorde, ha interpretato il mio sorriso come temevo, un assenso a sconfinare dal suo territorio di caccia. Che importa? Quel termine anglosassone, flirtare, è, oltre che adattissimo per il suo suono, innocuo, richiama un gioco insomma, il cui inizio è sconosciuto, come fosse un atteggiamento innato, naturale. Gli animali ce lo insegnano, senza troppe storie mettono in atto quanto è in loro potere per poter conquistare, circuire l’oggetto del loro desiderio. Esibizione di colori, suoni, muscoli ma, a differenza di noi umani, non si preoccupano se possano oppure no proporsi, incuranti delle conseguenze. In fondo è davvero un intrattenimento, forse il più intrigante da sempre, di certo ciò che resta, unico ricordo piacevole anche quando una storia finisce.
Si china a raccogliermi un foglio caduto dalla mia scrivania, ottimo espediente per avvicinarsi e mettersi nella condizione di farsi ringraziare.
Accidenti!
penso ma lo ringrazio, vittima del mio istinto educato, facendo trapelare un impercettibile stupore per la sua gentilezza.
Mi accorgo che Anna, dall’ufficio di fronte, ha osservato la scena e ha di certo colto il mio attimo di défaillance. Da domani non smetterà di tenermi gli occhi puntati addosso quando lui si ripresenterà.
Il signor Corrado Stoppa non ci pensa nemmeno ad andarsene, ora che è riuscito a farmi arrossire (ma sarò poi arrossita o è solo una mia impressione?) ma io mi riprendo, come se uscissi da una di quelle vignette dei fotoromanzi, mi irrigidisco quel tanto che basta ad accampare una scusa con lui.
«Mi scusi, ma ora ho mille cose da sbrigare, al vino ci penseremo un’altra volta!»
No, non posso credere a me stessa, perché mai ho pronunciato quella frase, quale altra volta, quale vino? Ora davvero mi sento avvampare e non dipende da uno sbalzo della temperatura, vorrei riavvolgere il nastro di questa breve conversazione con lui, controllo se Anna mi abbia per caso sentita, (quanto siamo insicuri davanti al parere degli estranei) ma mi tranquillizzo vedendo che è al telefono. Meglio, almeno questa mia debolezza non la potrà usare per sogghignare tra sé e magari divulgarla tra i colleghi. Le persone ingrandiscono sempre quando addirittura non inventano storie. Infamare è una delle attività umane meglio riuscite, da sempre. Odio il pettegolezzo, è la parte cattiva del giudizio. Quello che fa rabbia è che non sono stata nemmeno sgarbata con lui accomiatandolo, e no, che cavolo, gli ho fatto una promessa implicita, come potrebbe sentirsi offeso? Vulnerabile, troppo vulnerabile, una stupida donna vulnerabile. Ecco quello che sono.
Cerco la concentrazione perduta, il lavoro è sempre stato l’elemento bilanciatore della mia vita, qui mi realizzo (a proposito, cosa significa sentirsi realizzata? Non è ancora il tempo per darsi risposte, che forse non verranno mai, né tantomeno la circostanza per ritrovare una motivazione a immergermi di nuovo tra le mie carte). Il resto della giornata vola, come se qualcuno avesse aperto questa grande finestra per fare entrare più aria possibile e portarsi via i minuti, le ore, e arrivare prima al momento del rientro a casa. Guardo l’orologio giù in strada in modo diverso, non sto rimuginando, come faccio di solito giunta a questo punto del percorso, a ciò che mi resta da fare tra le nostre pareti, le lancette mi sembrano cristallizzate, quasi avessero voluto fermarsi sulla giornata odierna. Una vetrina rimanda la mia figura, che intravedo di sfuggita.
Non male
penso ma poi tiro dritto come se la mia immagine non mi appartenesse o non volessi crederle.
Un giovane uomo mi lancia un’occhiata, gli giro nervosamente le spalle, spazientita questa volta. Ma dentro di me avverto una sottile euforia. Uno strattone dell’autobus, che ha dovuto evitare un anziano in bicicletta perché ha mal calcolato la sua pedalata e ha attraversato l’incrocio, interrompe la mia leggerezza.
Una frenata, ecco cosa mi ci vuole!
mi auguro.
Raccolgo confusamente dei buoni motivi per cancellare quei minuscoli e infidi spunti di tentazione ma, con mio grande disappunto, mi accorgo che non funziona.
Il giardino che circonda la nostra abitazione è apprezzato da molti, e questo grazie anche al tuo lavoro paziente e costante. Le ortensie azzurre, che tanto hai faticato perché si tingessero così, mi sembrano smorte oggi, come pure l’acero cinese, delicato e prezioso. Quanto ti ho fatto impazzire perché tu lo piantassi proprio lì, sfidando la luce del sole inadatta, ma solo perché io lo vedessi al mattino aprendo le persiane. E a riempirti la testa di feng shui e altre tecniche per te incomprensibili, ma che, pur di accontentarmi, hai seguito in fiducia.
La nostra casa, una tra le molte del quartiere, ben curata ma anonima, facilmente confondibile con altre, contenitore di una storia comune, mi appare sulla destra appena superato il rondò. Proprio quella piccola aiuola che, fresca di costruzione, ho semidistrutto una sera, rientrando tardi dal lavoro e dimentica che il municipio l’avesse terminata il giorno prima. Da allora la tua fiducia nella mia guida ha iniziato ad assottigliarsi, le discussioni si sono moltiplicate e la mia consapevolezza che fosse meglio, da lì in poi, che guidassi sempre tu. Molto più comodo, in fondo, ma anche molto più frustrante per me. Sono arrivata al punto che, se rimanessi sola, riempirei il garage di libri, butterei fuori tutte le vernici che utilizzi per il tuo collezionismo accumulate sugli scaffali come fossero oggetti preziosi, assieme all’auto e con il loro ricavato mi permetterei uno di quei viaggi che non hai voluto fare perché non di tuo interesse. Mentre la sua sagoma si fa più vicina, tuttavia ne ammiro la sobrietà, ricordo che i suoi colori pastello ci hanno trovati d’accordo, e quei piccoli particolari, dalla cassetta per la posta allo zerbino, ai vasi di coccio, ci hanno costretto a girare per giorni, cercando e scegliendo tra quelli più inconsueti perché dessero quel tocco di originalità in contrasto con l’anonimato edilizio. È incredibile però accorgersi che tutto, superato il primo momento di entusiasmo nel quale l’oggetto rappresenta una novità, col tempo si affievolisca e, diventando parte di noi, sembri perdere valore e consistenza, si appiattisca quasi a scomparire al nostro sguardo. È così anche per l’amore? È stato così anche per te nei miei confronti? Sempre più spesso ho avuto il timore di avere, ai tuoi occhi, la stessa consistenza e importanza di uno di quegli oggetti che un tempo avevi cercato nei mercatini dell’antiquariato, accarezzato e analizzato la loro autenticità ed esposto, fiero, in quella parte di libreria che mi hai sottratto, ma che una volta acquisiti consideri una parte di te, di cui non curarsi più.
Così al mio rientro ogni sera, prima ricevo un saluto distratto da parte tua, poi mi chiedi, come di routine, come sia andata la mia giornata ma non mi ascolti veramente. Nel consumare la cena che hai messo insieme tu, e non per aiutarmi ma solo perché hai fretta di accelerare quel rito obbligatorio per poi tuffarti tra i tuoi modellini, ogni mio breve racconto è un appiglio perché tu possa dimostrarmi le tue capacità professionali che dovrebbero essermi di esempio su come affrontare le criticità. E se tento di spiegarti che, svolgendo impieghi completamente differenti, anche le problematiche sono differenti, come lo sono i colleghi e i responsabili, tu ribatti, costringendomi a interrompere i miei punti di vista. Ma stasera non tocco l’argomento lavoro, divago, niente di programmato, semplicemente non ne ho voglia, una forma di ritegno o l’inizio di comodi silenzi?
«Sei stanca?» mi chiedi mentre raccolgo i piatti sporchi.
Senza girarmi ti rassicuro che no, non lo sono, evito di darti spiegazioni come avrei fatto di solito raccontandoti i miei piccoli successi o le scorciatoie che ho messo in atto in ufficio per agevolare lo svolgimento delle mie mansioni, ma subito dopo capisco, anzi ricordo, perché tu me lo abbia chiesto. La convivenza ha i suoi lati positivi, aiuta a prevedere le mosse dell’altro, le aspettative, anticipa persino i desideri dell’altro. Non posso sottrarmi a questo punto, e perché poi dovrei farlo? In fondo, anzi al termine, è un atto piacevole, che mi concilia il sonno e che mi premierà con un tuo bacio sulla guancia il mattino successivo prima di salutarci. Non accade ogni giorno, e se qualche vicino lo notasse capirebbe che nasconde un segnale tra di noi. Per fortuna, nessuno è sulla porta della propria casa a vedermi uscire la mattina e io posso, con quel piccolo premio, affrontare un nuovo giorno. Ma questa volta l’esserci amati non ha il consueto effetto soporifero. Mi giro più volte, penso che forse sia imputabile alla tua cena, ma il mio stomaco sta benissimo. Mi ritrovo a passare in rassegna i miei abiti, non li ricordo tutti, mi intestardisco cercando di visionarli uno a uno per scegliere quello più adatto da