Il vampiro di Bora
Di Liana Fadda
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Info su questo ebook
Sono Daniel Tooth: canini lunghi, affilati e fosforescenti, pallore sexy… peccato per il fiato fetido! Gradisci anche tu una sanguisuga per l’alito?
Fino a ieri, colazione in famiglia a base di sacche di plasma sottratte in ospedale, dove i miei facevano il turno di notte, fino allo spettro del licenziamento. Da oggi, carestia!
Siamo passati dai prodotti da banco, al sangue fresco munto qua e là, spargendo il contagio. Al mio paese siamo sempre più vampiri: solo frati e suore sono rimasti dei vostri.
E chi ci ferma più? Mi ero succhiato anche tutte le spasimanti… ma evviva, sapevate che posso innamorarmi anch’io?
Mi sa che il commissario Lupiero saprà prenderci per la gola. Finale sentimentale catastrofico, per voi solare, per me più oscuro… vestito di nero, ma per caso!
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Anteprima del libro
Il vampiro di Bora - Liana Fadda
Cococcia"
Il colore del sangue
Non ricordo se nacqui vampiro o se lo divenni in seguito e, sinceramente, non mi interessa granché saperlo.
Certamente ho trascorso un’infanzia felice, cresciuto amorevolmente in una famiglia patriarcale composta da undici persone, me compreso: due nonni, i miei genitori, gli zii, tre cugini e una sorella più piccola. I nonni da sempre erano i custodi del cimitero di Bora e tutti assieme abitavamo nella villa attigua al camposanto.
Gli uomini adulti della mia famiglia, cioè il nonno, lo zio e il babbo erano vampiri da sempre, mentre le donne lo erano diventate solamente in seguito; in ogni caso posso definirmi figlio d’arte
.
La nostra casa, al suo interno, non era molto dissimile da tante altre, se non per qualche piccola differenza: avevamo preferito, ai tradizionali letti, delle lussuose bare in noce foderate e rifinite in seta viola, nelle quali durante il giorno riposavamo le nostre stanche membra; anziché i posacenere tradizionali, erano disseminati nelle varie stanze splendidi teschi umani capovolti, che i nonni si premuravano di recuperare ogni volta che fosse loro possibile; i lampadari pendevano dal soffitto appesi a un osso di femore e le maniglie e la rubinetteria altro non erano che rotule umane.
La nostra giornata cominciava dopo il calar del sole, quando, con gli occhi ancora assonnati, ci riunivamo in cucina per una corroborante colazione a base di sangue fresco. Qualunque altra bevanda o cibo diverso dal nostro preferito ci sarebbe stato intollerabile, quindi… non avevamo il problema di che cosa cucinare!
Bastava infatti, a ognuno di noi, bagnarsi la bocca col rosso nettare umano, per acquisire uno splendido aspetto e reimpadronirsi delle forze che al tramonto, purtroppo, scarseggiavano. Che non fossimo bellissimi al risveglio era un dato di fatto, per noi intuibile solo osservando gli altri membri della famiglia: non c’erano specchi in casa, infatti, perché sarebbero stati assolutamente inutili; nessuno specchio è in grado di riflettere l’immagine di una persona affetta da vampirismo!
Dunque, i miei familiari al risveglio si presentavano più o meno così: il loro corpo era molto più magro e peloso di quando, stesi ognuno nella propria bara, giacevano gonfi e pasciuti. Il pallore marmoreo, però, conferiva loro la bellezza tipica degli appartenenti alla categoria: quel colorito che le donne del passato cercarono in tutti i modi, sottraendosi ai raggi solari e regalandosi preziosi bagni immerse nel latte d’asina. Anche per noi i raggi solari erano altamente pericolosi; non tanto perché ci avrebbero privati del nostro affascinante pallore, quanto perché la nostra pelle, esposta all’azione diretta dei raggi ultravioletti, si sarebbe ustionata causandoci orribili e dolorose bolle in tutto il corpo.
Come aspetto fisico ci assomigliavamo un po’ tutti. Il nonno si vantava di questo, perché diceva che avevamo ereditato il suo indiscutibile fascino.
I miei canini erano considerati di gran lunga i più belli della famiglia: nessuno li aveva lunghi, affilati e fosforescenti come quelli di cui la natura mi aveva dotato; le mie zanne retrattili spiccavano con la stessa evidenza con la quale la luna si scolpisce nel cielo. Fui soprannominato per questo ‘Daniel Tooth’. L’alito, però, al tramonto non era dei migliori: fetido; credo sia il termine giusto per descriverlo.
Ma ci vuole pazienza, mica si può avere tutto dalla vita!
Le nostre unghie erano un vanto: resistenti e affilate, crescevano molto di più e molto più velocemente di quelle dei comuni mortali. Altro che ricostruzione!
Ovviamente nessuno di noi ragazzi frequentava la scuola tradizionale, perché era assolutamente incompatibile con gli orari dei non-morti. I nonni avevano fatto credere alle autorità di averci assegnato a istituti privati che avrebbero provveduto alla nostra formazione, così, se non altro, ci lasciavano in pace. D’altronde nessuno di noi fu mai visto scorrazzare durante le ore diurne e ciò era sufficiente per far credere a tutti che fossimo a lezione.
Dunque, la giornata cominciava dopo il calare delle tenebre e a colazione non mancavamo mai di sollazzarci con