Questa (non) è una storia d'amore
Di Irene Iberti
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Questa (non) è una storia d'amore - Irene Iberti
donne
Prologo
Superata la soglia non si torna più indietro pensai mentre la mia anima varcava il muro di nebbia che ci separa dal mondo dei vivi. Avete capito bene, io sono morta. Non trovo altri modi per dire questo dato di fatto e nemmeno mi interessa di come reagirete. Tutto ciò che c’è da sapere è quello che vi dirò, sarò estremamente sincera, soprattutto perché ormai non mi devo più nascondere. Per anni ho cercato di accettare il fatto che ho perso tutto, solo per colpa mia, per le mie decisioni sbagliate. Quando ti trovi davanti a un bivio, è difficile prevedere le conseguenze di determinate scelte ed io avevo proprio il dono di peggiorare le situazioni. Per quanto cercassi di fare sempre la cosa giusta, finivo sempre per mettermi nei guai e alla fine il conto che mi hanno presentato era talmente salato da doverlo pagare con la vita stessa. Il mio unico pensiero era per la mia famiglia e non c’è stato giorno in cui non abbia vegliato su di loro. Ogni sera, dopo cena, entro di soppiatto nella camera da letto del mio bambino. Cody ha sei anni adesso, è un giovanotto che cresce a vista d’occhio e sono orgogliosa di affermare che non serve il test del DNA per sapere che è mio figlio. Ogni sera Alex gli rimbocca le coperte e gli racconta la sua storia preferita. Io rimango in piedi accanto alla porta e ascolto, cullandomi nelle parole di colui che ho amato con tutta me stessa. Quello che Cody non sa è che la storia non è altro che il racconto della vita di sua madre, Alex è convinto che in questo modo, inconsciamente, mi ricorderà. Non so se funzionerà e non lo saprò mai. Sentir raccontare la propria storia da qualcuno che l’ha vissuta indirettamente fa riflettere e, sinceramente, a volte stento a credere che sia davvero successo. Sono o meglio ero Katherine Wilson e questa è la mia storia.
Capitolo 1
Come tutto ebbe inizio
Nel secondo quartiere più malfamato di Chicago, Austin, è situato un istituto di accoglienza privata, centro di educazione per orfani, il San Pedro, un edificio imponente ma fatiscente che ospita un numero di ragazzi oltre la sua disponibilità. La mia storia inizia qui, o meglio, il mio primo ricordo risale proprio a quando entrai in quella struttura. Avevo tre anni, così piccola da non ricordare l’incidente stradale in cui io e la mia famiglia rimanemmo coinvolti, così innocente da non aver capito che fui l’unica a sopravvivere. Mi piacerebbe poter affermare che questo fatto fu un caso isolato di pura sfortuna, in realtà la mia vita era appena iniziata, in salita per giunta. Il San Pedro aveva delle regole ferree che gestivano la nostra quotidianità, la direttrice era una donna affascinante dagli atteggiamenti regali ma, sotto quella maschera di profumo ed eleganza, si nascondeva un animo gelido e perfido, estremamente calcolatore. Conosciuta con il nome di Janet Brown, o più semplicemente, la Signora Brown, era la regina del quartiere e della città, non c’era attività che non controllasse e per far sì che tutto funzionasse come desiderava, aveva occhi e orecchie dappertutto, nessuna foglia si muoveva senza il suo permesso, nessun cuore batteva senza la sua benedizione, nessuno respirava senza la sua concessione. Famosa per essere una perfetta manipolatrice, sapeva trarre profitto da ogni situazione. La sua politica era basata sull’eliminare completamente le nostre emozioni. Per questo motivo, il clima rigido a cui eravamo sottoposti garantiva il pieno raggiungimento di tale obiettivo. Non potevamo possedere oggetti personali, vestivamo tutti uguali, con lunghi camicioni rammendati e pantaloni troppo grandi che eravamo costretti a piegarli più volte per evitare di inciampare nei nostri stessi piedi. Noi ragazze tenevamo i capelli raccolti in uno chignon mentre i ragazzi avevano i capelli rasati come i militari. I dormitori erano senza dubbio le stanze peggiori, lunghi cameroni dai soffitti alti e dai muri scrostati, sempre freddi, illuminati dalle sole luci fioche di alcune candele che venivano spente scoccate le ventuno precise, l’ora di dormire. C’era un sentimento comune che era più insopportabile del freddo e più fastidioso dei vestiti rattoppati, una percezione continua che dovevamo sopportare quotidianamente: la fame. I nostri pasti erano costituiti da una ciotola di brodo di verdure e due pezzi di pane, né uno di più né uno di meno. Era chiaro che non ci bastava ma sapevamo che chiedere una seconda razione era qualcosa di improponibile, proprio perché temevamo conseguenze che sicuramente ci sarebbero state. Era tremendo vivere in quelle condizioni e, proprio per questo, pensare a se stessi era la regola principale per sopravvivere. I ragazzi più grandi erano lì da molto tempo e, non avendo conosciuto altro, ritenevano l’Istituto la loro casa. Erano cresciuti con un rigore assoluto dove l’arte dello stringere accordi per sopravvivere non era solo insegnata ma addirittura inculcata. Proprio i ragazzi più grandi vendevano letteralmente l’anima al diavolo per poter andare avanti giorno dopo giorno e si mettevano al servizio della Signora Brown. Per le ragazze era molto diverso, arrivate a una certa età dovevano collaborare nelle faccende domestiche, le più carine erano indirizzate verso l’attività più antica del mondo... il Lady Moon, un locale notturno dove signorotti benestanti in cerca di divertimento venivano tristemente intrattenuti. Queste poverine erano definite le Cortigiane di velluto.
I giorni trascorsero tutti uguali e diventarono anni. Col tempo presi coscienza del fatto che non avevo altra scelta che adattarmi. Adoravo cantare, avevo una bella voce e cantare mi aiutava ad andare avanti, ma potevo farlo solo quando ero sola perché non era permesso fare nemmeno quello. Intanto ero cresciuta. Ben presto i lineamenti innocenti da bambina scomparvero così come il carattere ingenuo dettato dall’inesperienza e divenni una giovane donna, piuttosto carina a dire delle mie compagne, una sfortuna aggiunsero e ancora non capivo. Questo cambiamento non sfuggì allo sguardo attento della Signora Brown la quale mi affidò alle cure di una sua fedelissima che mi insegnò un certo tipo di comportamento dovendo inserirmi nel Lady Moon, era così che funzionava, le più esperte insegnavano alle più giovani. La maggior parte veniva mandata allo sbaraglio come carne da macello la prima volta, un assaggio dell’ambiente, mentre quelle più grandi le raccoglievano dai loro stati di smarrimento per poi creare una figura fatta e ben definita di una cortigiana di alto livello. Ritengo sia stata una fortuna il fatto che mi ritenessero speciale, non era così scontato incontrare un bel viso e una voce angelica nella stessa persona, solo così mi sono risparmiata la gavetta. Ogni sera c’era uno spettacolo burlesque e noi ragazze adeguatamente preparate andavamo in scena, ben truccate ed eleganti. Chi cantava, chi ballava, insomma dovevamo farci notare. Nota positiva era che la Signora Brown ci consentiva un po’ di libertà, venivamo anche pagate, abbastanza da poter condurre una minima vita dignitosa. Una parte di me credeva ancora nel riscatto dell’anima e sognavo che forse un giorno sarei riuscita ad avere un lavoro normale. Ruby, la sarta del locale, una donna sulla cinquantina, alta o meglio dire bassa quanto me, un vero peperino con una lingua senza freni, era quella che assomigliava di più a una madre, mi diceva sempre che avevo un enorme talento e che dovevo trovare qualcuno che si occupasse di me così da poter cambiare vita. Allora era più facile crederle che pensare di dover vivere in quell’ambiente per sempre.
Avevo circa diciotto anni quando incontrai un uomo che chiamavano il Generale, un certo David Ferrari , di origini italiane, era chiamato così perché adorava impartire ordini e soprattutto pretendeva di essere obbedito. Frequentando il locale con assiduità, mi notò e, come seppi tempo dopo, concordò con la Signora Brown una sistemazione migliore per me, mi prese sotto la sua protezione così che mi venne assegnato un camerino nuovo, finanziò tutti i miei spettacoli da solista e mi riempì di regali. Ovviamente c’era la contropartita: i miei servigi esclusivi. Ancora non avevo capito quanto era crudele ma, considerato che la vita con me non era stata molto generosa, cercai in tutti i modi di cogliere gli aspetti migliori di quella situazione e, proprio quando sembrava che qualcosa stesse cambiando, un piccolo incidente bastò per mandare i miei sogni letteralmente in frantumi: rimasi incinta. Cercai di nasconderlo il più a lungo possibile, solo Ruby era a conoscenza di questo inconveniente e faceva di tutto per coprirmi ogni volta che mi veniva la nausea o che mi sentivo male. Abortire era fuori discussione. Ero talmente spaventata che non riuscivo a capire come avrei potuto risolvere quel problema. Ma, quando la nausea si fece insopportabile e la pancia crebbe tanto da snaturalizzare la mia figura, nessuna bugia per quanto brillante riuscì più a proteggermi. Il Generale mi mandò letteralmente a quel paese mentre la Signora Brown accolse volentieri l’idea di una futura forza nuova a costo zero per la sua attività. Cinque mesi dopo partorii un maschietto e appena potei stringerlo tra le braccia vidi tutto sotto un’altra luce. Sentii un bruciore al petto e sembrò che tutto il mondo si fermasse. Era amore. Quel straordinario e unico amore che si prova solo per un figlio. Lo chiamai Cody e, per quanto mi costasse ammetterlo, quel neonato aveva finalmente acceso il fuoco della passione nel mio cuore. Feci una promessa a me stessa: mio figlio non sarebbe mai cresciuto da solo, in un orfanotrofio, non avrebbe mai fatto parte delle losche attività della Signora Brown. Ruby aveva un piccolo alloggio non lontano dal Lady Moon e mi aiutò tenendomi il bimbo appena ripresi a lavorare. Anche se Cody era un bambino dolcissimo, i primi tempi furono i più difficili, dormiva pochissimo e, quando iniziò a camminare, fu anche peggio perché non poteva rimanere solo. Superata quella fase, la strada sembrò in discesa ma era la nostra vita e dovevamo capire che quella tranquillità non sarebbe durata a lungo. Arrivò quel giorno che sembrava proprio come tutti gli altri. Dopo ogni appuntamento riservavo una decina di minuti solo per me, stavo alla finestra del mio appartamento cercando di liberare la mente, osservavo il paesaggio. Ricordo che era l’ora di punta e la strada era letteralmente invasa dalla folla, i clacson delle vetture risuonavano fino all’ultimo piano del mio palazzo. Quel gran trambusto non mi lasciava pensare ed era ossigeno per me. Aprii la finestra quel tanto da permettere ad un alito di vento freddo primaverile di sfiorarmi il viso e lasciai che la pelle sentisse i brividi mentre con un sorriso mi godevo quel momento di pace. Indossavo una sottoveste nera di pizzo e reggicalze dello stesso colore. I capelli biondi mi scendevano ondulati lungo le spalle. Avevo appena concluso un incontro di lavoro e, dopo una doccia, cercavo di ritrovare me stessa. Avevo le lenzuola da sistemare e l’odore di estraneo fluttuava ancora nell’aria. Mi ripetevo che si trattava solo di lavoro, un lavoro che mi avrebbe consumato col tempo. Un energico toc toc alla porta mi portò alla realtà, strano, non avevo altri appuntamenti, indossai una vestaglia ed andai ad aprire.
Fred!
salutai il mio amico musicista e compositore di tutte le canzoni del Lady Moon, una sorpresa inaspettata. Portava un paio di pantaloni a quadri rossi e bianchi, abbinati ad una maglietta bianca, i capelli rasati quasi a zero.
Ciao, posso entrare?
sorrise smagliante.
Certo, accomodati..
mi feci da parte e lui entrò senza farselo ripetere.
Hai altri appuntamenti per oggi?
chiese guardando le lenzuola ancora dismesse, era talmente abituato al nostro modo di vivere che non mostrava sdegno o disprezzo, per lui il mio era un lavoro che si poteva definire normale. Per questo motivo, la domanda scivolò via con naturalezza.
No.. Era l’ultimo, devo prepararmi per lo spettacolo di questa sera
la mia risposta fu altrettanto naturale, mi avvicinai al letto e iniziai a sistemarlo.
Katy sei mia amica da tantissimo tempo e voglio darti una splendida notizia!
era entusiasta e impaziente di parlarmi.
Sì…..
ero sovrappensiero, più di quanto volessi. Impegnata a sistemare le pieghe del copriletto in maniera maniacale.
Farò finta di non aver percepito disinteresse..
disse con tono polemico, alzai lo sguardo e incontrai la sua espressione delusa.
Scusa Fred…
mi sedetti composta … dimmi pure
aggiunsi prestandogli totale attenzione.
Nell’ultimo periodo ho messo da parte un po’ di soldi e..
iniziò a camminare avanti e indietro davanti a me, era talmente agitato che non riusciva a stare fermo Domani mattina parto per Parigi! Ho sempre sognato di andarci e dicono che gli artisti fanno carriera in Europa! Vale la pena tentare no?!
era felice. Entusiasta all’idea di una nuova avventura.
Sul serio? Sono davvero felice per te! Te lo meriti!
gli sorrisi e lo abbracciai. Eravamo amici speciali, anche il suo aiuto era prezioso con Cody, quando avevo bisogno di un babysitter all’ultimo minuto lui c’era sempre. Ma era un gran artista e sapevo, speravo, che prima o poi avrebbe sfondato.
Però tranquilla.. non ti lascio. Un mio amico, bravo quasi quanto me, ti aiuterà in caso di bisogno, è fidato, non preoccuparti
mi fece l’occhiolino Naturalmente se sei d’accordo
.
Nessuno potrà mai sostituirti davvero Fred
gli sorrisi.
Questa sera sarà il mio ultimo spettacolo, verrà anche il mio amico e te lo presenterò di persona!
era euforico.
Sarà uno spettacolo speciale!
ero davvero felice per lui.
Fammi una promessa piccola star
si fece serio Prenditi cura di Cody, il mio nipotino preferito, e prendi in considerazione anche tu l’idea di andartene
Lo sai che io ho molta meno libertà di te, vero?
mi feci seria, era una questione che proprio non volevo affrontare.
Promettimi che almeno ci penserai
mi disse con lo sguardo da cucciolo.
Oh, così non vale però! Sì, prometto che ci penserò
risposi con un sorriso tirato e lui mi abbracciò.
Uscì e restai di nuovo sola. Parigi. Quanto avrei voluto andare in Europa, visitare luoghi nuovi, mondi nuovi. Sogni impossibili nella mia condizione. Sospirai e poi mi vestii per andare da Ruby, nella testa un turbinio di pensieri, ero sempre più sola.
Ruby abitava ad un paio di isolati, con passo svelto mi ritrovai sulla sua soglia e bussai un paio di volte. Mi aprì dopo qualche istante.
Ciao Ruby
la salutai prima che scomparisse nella sua camera. Cody mi sentì e mi corse incontro abbracciandomi, Amore mio! Come stai cucciolo? Ti sei divertito con zia Ruby oggi?
Si mamma… Abbiamo guardato i cartoni animati e giocato con le macchinine
sorrise gioioso. A lui non importava dei muri scrostati, dei mobili scassati o delle nostre vite troppo complicate da spiegare a un bambino. Mi sorprendeva sempre la sua energia, il suo entusiasmo per qualunque cosa.
Sono quasi pronta
mi urlò Ruby dall’altra stanza, dovevamo andare al Lady Moon ed il tempo stava volando.
Grazie per quello che fai
dissi appena ci raggiunse, le ero riconoscente davvero.
"Dai tesoro, lo sai che lo faccio con