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La ragazza del 1935
La ragazza del 1935
La ragazza del 1935
E-book236 pagine2 ore

La ragazza del 1935

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Info su questo ebook

Nerea e Cristina hanno 17 anni, vivono a Taranto e hanno un rapporto speciale.
Dopo l’inizio della guerra però dovranno separarsi: Cristina andrà in Svizzera con i suoi genitori ; 
Nerea a Roma con suo padre, sua sorella, la sua matrigna e il suo fratellastro, questi ultimi di sangue ebreo. 
Lì conoscerà il commissario  Nicholas Norchott, adottato dai marchesi Nobile. Lui all’inizio la aiuterà, ma si rivelerà essere  ossessionato da lei. Nerea sarà costretta a sposarlo, scoprendo che nella famiglia Nobile avvengono una serie di omicidi efferati…
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita18 nov 2020
ISBN9788833667133
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    Anteprima del libro

    La ragazza del 1935 - Angelica Rubino

    (Legge 633/1941).

    PROLOGO

    Nicholas

    Estate 1933. La dimora Norchott era circondata da un prato fiorito, con erba alta mossa dal leggero vento. Rose, viole e tulipani erano ammassati. Sulla sinistra una grande quercia. La luce obliqua ritagliava alcune foglie più chiare sullo sfondo verde cupo delle fronde. Seduto fra l'erba, leggevo tranquillamente un libro.

    Mio padre e mia madre uscirono, impeccabili nei loro abiti eleganti.

    -Cosa ci fai seduto lì? Vuoi sporcarti? - ringhiò mio padre, furibondo.

    Mi alzai di scatto, pulendomi dall'erba. Uscii fuori dalla villa con i miei genitori, incamminandomi verso l'automobile. L'aria era afosa, i grilli cantavano e le zanzare tentavano di posarsi su di noi. Arrivarono dinanzi alla nostra lussuosa auto.

    Mia madre era sorridente e briosa:

    -Dove ci porti?- domandò a mio padre.

    -Sorpresa- disse lui, sorridendo. Dal mio canto gli volsi uno sguardo torvo.

    -Un po' di allegria, è il giorno del tuo compleanno! - mi canzonò mio padre, ordinando poi all'autista di mettere in moto l'automobile.

    Guardavo il paesaggio attorno a me, cercando di trovare nelle figure della campagna una distrazione.

    -Passiamo a prendere mio figlio Romeo- cinguettò mia madre. Mio padre sbuffò, e l'autista sviò verso una stradina colma di salici. Il canto dei cigni era melodioso e struggente.

    -Quanto avrei voluto che ci fosse anche Lisa- sospirò mia madre.

    -Sta benissimo dov'è, il collegio che ho scelto per lei è uno dei migliori del Regno Unito- sbuffò mio padre.

    Da una villa dai mattoni rossi uscì mio fratello, vestito impeccabilmente.

    Entrò in macchina.

    -Dov'è tua moglie? - domandò mia madre.

    -È malata! - rispose Romeo.

    -Sia lodato il cielo! - ridacchiò mio padre. Romeo fece finta di non sentirlo, e accarezzò i miei capelli.

    -Che cos’ hai? È il tuo compleanno, non dovresti essere triste! - notò.

    Accennai un sorriso a mio fratello, e mi accorsi che mia madre mi aveva volto uno sguardo preoccupato. Sì, compivo diciassette anni quel giorno, ma non ero felice. Non sopportavo più la mia vita, non sopportavo più mio padre. Tuttavia, non risposi. Distolsi lo sguardo, guardando fuori dal finestrino.

    Ci inoltrammo nella campagna. Gli alberi e la luna sembravano muoversi insieme a noi, il rumore delle ruote sull'asfalto creava un suono armonico alle mie orecchie. D'un tratto udì un rumore fortissimo, il suo corpo fu travolto da una scossa fortissima, appena coperta dalle urla. Il paesaggio si trasformò in un vortice nero. Dopo, il nulla.

    1

    Nerea

    Autunno 1943.

    Ricordo come fosse ieri l'alba dei miei diciassette anni. Era il sedici ottobre, ma l'aria era primaverile. I raggi infuocati si stendevano lungo il mare splendido di Taranto. Ero affacciata dal balcone del mio palazzo, e potevo scorgere i delfini in lontananza.

    Ho un ricordo tenero di me stessa. Ero bassina, pressoché come ora, e dimostravo circa quattordici anni. Secondo alcuni, addirittura dodici.

    Avevo i capelli ricci, lunghi, color biondo cenere, raccolti in un cerchietto blu, come il mio vestito. Gli occhi neri erano ingenui e grandi, in contrasto con il mio piccolo viso, del colorito quasi latteo. Ero insicura del mio aspetto nonostante non ne avessi un reale motivo, come tuttora capita alle giovinette. Il dimostrare molto di meno dei miei anni mi irritava, ma a nulla valevano i miei tentativi disperati di dimostrare la mia età. Orecchini e collane mi facevano sembrare una bambina che imitava la mamma. Quando conversavo però, tutti mi attribuivano un'età maggiore.

    Di lì a poco si sarebbero alzati mio padre e la mia matrigna per farmi gli auguri, seguiti da mia sorella e mio fratello. Mio padre Natale era un gran lavoratore, capo cuoco di un ristorante di cucina locale; sempre stanco ma sorridente. Non aveva fratelli né sorelle. I suoi genitori morirono prima ancora che nascessi. So che mio nonno fu un bravo pescatore.

    Il destino aveva voluto che mia madre morisse dando alla luce mia sorella Nadia. Il suo ricordo è vivo dentro di me tuttora come se mi avesse lasciata ieri. Si chiamava Immacolata, ed era l'unica figlia di una coppia di venditori ambulanti, scomparsi entrambi di tifo quando avevo due anni. Fu lei a scegliere il mio nome: Nerea, che vuol dire ''colei che sa nuotare'', come Nereo, il padre mitologico delle ninfe.

    Mia madre è stata la donna più bella che io abbia mai conosciuto. Per ogni figlia la madre è bella, ma la mia lo era per davvero. Era quel tipo di donna che era impossibile non notare. Di certo era oggettivamente meravigliosa, con i suoi capelli ondulati che le ricadevano sulla schiena come cioccolato liquido e con i suoi occhi color tempesta. Ma non attraeva per volgarità e appariscenza, come molte altre donne, bensì per la grazia e i modi fatati. Quando chiudo gli occhi vedo ancora il suo volto angelico, il suo sorriso calmo e sereno. Solo io so quanto fosse bella interiormente. Ho sempre provato ad imitarla, e forse solo adesso, all'età di novant'anni, credo di esserci riuscita.

    Per fortuna ebbi in Lia la matrigna migliore che si potesse desiderare. Mio padre l'aveva conosciuta per caso, una domenica mattina al cimitero. La tomba di mia madre era affianco a quella della madre di Lia. Anche lei la perse da bambina, e lei e suo fratello erano cresciuti con il loro padre, un vecchio marinaio che è stato il nonno che non ho mai avuto. Quando avevo tredici anni, Lia sposò mio padre, e poco dopo diede alla luce mio fratello Nino.

    In quell'anno, mio padre aveva cinquant'anni, Lia quaranta, Nadia dieci e Nino cinque.

    Era un uomo singolare, Natale Nizza: con la sua enorme pancia e la barba già bianca, sembrava babbo natale. Mi assomigliava, o almeno così dicevano, ed era molto loquace.

    Nadia aveva ereditato la bellezza di mia madre. Ripeto, non che io fossi brutta. Non ero grassa, non avevo brufoli, né denti storti, eppure non so con quale criterio da bambina ero diventata il bersaglio principale delle canzonature del quartiere. Crescendo avevo imparato a farmi rispettare quando ce ne era bisogno, eppure non avevo mai avuto un corteggiatore, anche se non me ne importava molto. Raramente mi erano stati fatti dei complimenti. Con le persone con cui avevo confidenza ero un terremoto, ma fra la gente ero sempre curva, schiva.

    Lia portava sempre una treccia e amava cantare. Era stonata, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di dirglielo. L'idea di avere una matrigna non mi entusiasmava, ma quando la vidi per la prima volta, impacciata e impaurita al pensiero di conoscermi, provai subito tenerezza. Nino era timido come lei. Nonostante avesse per metà del sangue estraneo, non l'ho mai considerato un fratellastro. Il giorno in cui nacque, fremevo di ansia.

    Lia si piegò su sé stessa, urlando.

    -Chiama la levatrice! - urlò, mente gli occhi le schizzavano fuori dalle orbite.

    Già, la levatrice. La signora dai capelli rossi che si era trasferita da poco nel palazzo di fronte.

    Scesi le scale a perdifiato, e corsi fino all'edificio dai mattoni marroni. Arrivata di fronte al portone, lo trovai aperto, ed entrai.

    Il cognome. Già, il cognome. Non lo avevo chiesto. Bussai sulla porta sinistra del primo piano, sperando in un colpo di fortuna.

    -Chi è? - chiese una voce. Il suono mi colpì. Era particolare, frizzante.

    -Sono la signorina Nizza, cerco la levatrice- risposi.

    -Arrivo- rispose la voce.

    La porta si aprì. In quel momento tutto si fermò.

    E rimase lei.

    Due occhi grigi mi guardarono sorridenti. Una nuvola di capelli color fiamma circondava un volto delicato.

    Dalla mia bocca non uscì un filo di voce, come se avessi dimenticato come si parlasse.

    -Piacere, Cristina- mi disse la ragazza tendendomi la mano. -Mia madre sta arrivando-.

    -Nerea- risposi, buttando la saliva in gola.

    Io e Cristina eravamo inginocchiate mentre Lia gridava con gli occhi iniettati di sangue. Ero quasi sul punto di svenire, mentre lei osservava tranquillamente il corpo della mia matrigna contrarsi e contorcersi dai dolori. La levatrice la esortava a spingere. Una piccola testa nera sbucò tra le sue gambe. Lia spinse più forte, lanciando un ultimo grido per il dolore. Il corpo della creatura continuò a uscire, e la mamma di Cristina la prese per le piccole spalle tirandola delicatamente fuori. La fissò sorridendole, pulendo il suo visino dal sangue. Con delle forbici tagliò il cordone ombelicale. Nino scoppiò a piangere.

    In quel momento la porta si aprì. Mio padre rimase per un attimo fermo sulla soglia, poi corse ad abbracciare Lia. L'odore di frittura misto a quello di sangue è rimasto per sempre impresso nella mia mente.

    In quel momento, accadde qualcosa di terribile. Una serie di rumori assordanti si succedettero in breve tempo, forti come non li avevo mai uditi prima di allora. Per un attimo pensai che potesse scoppiare il mondo. Non potevo saperlo, ma quella sarebbe stata ricordata per sempre come ''La Notte di Taranto''.

    Nino scoppiò a piangere più forte, e io mi meravigliai di come fosse possibile che appena nato provasse già la paura. Lia lo abbracciò forte, mentre Nadia si fiondò tra le braccia di mio padre. Dopo l'ennesimo tonfo, io e Cristina ci nascondemmo entrambe sotto il tavolo. Per quanto possa sembrare assurdo, i suoi occhi argentati cambiarono colore e diventarono celesti come un cielo in primavera, ipnotizzandomi al punto che non udii più alcun rumore.

    2

    Nerea

    -Nerea, scendi! -.

    Non appena udii la voce di Cristina, afferrai il cappotto e mi fiondai sotto il portone.

    La mia amica dagli occhi color del tempo mi abbracciò, facendomi gli auguri, e poi mi porse una sciarpa bianca.

    -L'ho fatta io. Non sono brava come te, ma spero che ti piaccia- mi disse, sistemandola attorno al collo.

    Andammo insieme a passeggiare nella villa Peripato, sedendoci sotto le fronde di un albero dalle foglie leggermente ingiallite. Attorno a noi i bambini giocavano, le coppie accompagnate dai genitori si lanciavano sguardi languidi e i vecchietti davano da mangiare ai piccioni.

    Quel giorno Cristina indossava un giubbotto e un cappello blu, come i suoi occhi in quel momento, pantaloni marroni dismessi e scarpe nere un po’ troppo grandi per lei. Anche lei come me era magra, non tanto alta e sembrava più piccola. Caratterialmente, al contrario mio, era estroversa, solare.

    -Nerea, credi che questa notte potremo dormire in pace? - mi domandò ad un certo punto.

    Si riferiva ovviamente ai bombardamenti che colpivano l'arsenale di notte.

    -Non lo so, lo spero- risposi, angosciata. Non mi andava di passare un'altra notte di terrore il giorno del mio compleanno.

    Uscendo dalla villa, una macchina ci sfrecciò davanti, e per poco non ci colpì in pieno. Era la macchina dell'onorevole, una bellissima auto lucida e nera.

    -Poteva guardare- sbuffò Cristina.

    -Pensi che anche noi un giorno potremo salire su un’auto così? - domandai io.

    -Può darsi, tra molti anni forse. Per ora preferisco la mia amata bici- ridacchiò, sedendosi sul sedile della sua bicicletta nera, uguale alla mia.

    Pedalammo sino a casa. Sentii l'odore di pasta al pomodoro e udii la voce di Lia che mi chiamava dal balcone.

    Le feci cenno che stessi per salire. Avevo la mano sulla maniglia, quando Cristina mi bloccò:

    -Devo parlarti-.

    Odio quelle due parole. Il loro potere è in grado di raggelarmi il sangue tuttora. La mia amica si morse le labbra, visibilmente nervosa. Dalla sua bocca uscirono poche e confuse parole, balbettate in un crescente stato di ansia.

    -Cosa stai cercando di dirmi? - le domandai. Il cuore mi batteva forte.

    -Mi trasferisco in Svizzera-.

    Ricordo ancora il colpo al cuore che ebbi udendo quelle parole. Stentai a credere alle mie orecchie.

    -Come? -.

    -Non possiamo continuare a vivere qui. Potremmo morire da un momento all'altro. Mio padre ha conoscenze e referenze lì. La Svizzera è sicura. Là c’è grande opportunità di lavoro-.

    -Ma quando? - domandai.

    -Stanotte. Tranquilla, ci rivedremo-.

    Scoppiai a piangere e la abbracciai forte.

    -Dai, non angosciarti, ti prometto che ci rivedremo- sorrise lei.

    -La Svizzera è lontana- dissi.

    -Siamo sempre sotto lo stesso cielo- mi rispose, staccandosi da me. Mi asciugò le lacrime.

    -Ora devo andare, ci vediamo-.

    Mi salutò baciandomi sulle guance ancora bagnate, e tornò a casa pedalando forte, mentre il cielo si scuriva e piccole gocce di pioggia incominciavano a scendere.

    Salii le scale correndo. La porta del terzo piano era già aperta, e Lia mi aspettava sulla porta con un sorriso radioso.

    -Non ho fame- borbottai singhiozzando, e corsi nella mia stanza, buttandomi tra le lenzuola e abbandonandomi a un pianto disperato, mentre i battiti del mio cuore accelerati mi parevano più forti dei rumori delle bombe.

    3

    Nerea

    Passai le prime settimane in un crescente stadio di angoscia. Le mie abitudini erano state improvvisamente stravolte. Cristina era la mia ancora nel naufragio della guerra, il mio rifugio caldo e sicuro nei miei momenti bui. Ancora oggi, la paragonerei alla canzone più melodiosa di cui non ricordi le parole, la poesia più dolce che non è mai esistita, il paesaggio più bello che non avrei mai dovuto vedere.

    I soldati avevano incominciato ad abusare delle donne e a irrompere nelle case per rapire i ragazzini maschi. Ringraziavo Iddio che Nino avesse ancora solo cinque anni.

    Non sapevo però che il peggio doveva ancora accadere.

    Ero a conoscenza delle leggi che perseguitavano gli ebrei. Non mi ero mai soffermata più di tanto a domandarmi il perché. Sapevo che erano comunisti, nemici dello stato, che diventavano sempre più potenti, anche se non avevo mai approfondito il concetto di comunista.

    Sapevo di essere di origini greche, come lo era tutta la popolazione tarantina, e ne andavo fiera.

    Da alcuni giorni in casa si respirava un clima strano. Noi, famiglia sempre allegra e vivace, ci eravamo rinchiusi nel mutismo. A tavola, ero io a tirar fuori gli argomenti per conversare. Parlavo dei delfini, delle scene viste al parco, delle idee più estrose per i ricami del corredo.

    Talvolta, quelli che fanno di tutto per sollevare il morale agli altri, sono più tristi di loro.

    Quel giorno, Nadia e Nino erano a pranzo dal nonno. Adoravano andare a mangiare da lui, poiché raccontava sempre loro delle belle leggende locali. Quando era con me, invece, si perdeva nei suoi racconti. Mi narrava dei luoghi visitati, dipingendomi gli anni passati come radiosi, in un mondo privo della crudeltà di oggi.

    Era davvero così? Certamente, la guerra c'era sempre stata.

    Lia mise al centro della tavola un grosso piatto di verdure.

    Decisi di approfittare della situazione.

    -Cosa succede? - chiesi, dopo aver mangiato la mia porzione.

    -Niente- rispose freddamente mio padre.

    -Non sono più una bambina. Ho capito che c'è qualcosa che non va-.

    -Le leggi razziali sugli ebrei hanno colpito anche l'Italia- disse Lia, appoggiando la

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