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AnimAma
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E-book388 pagine5 ore

AnimAma

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Info su questo ebook

La vita è un viaggio alla scoperta dell'Amore, ma fintanto che il bisogno di essere amati ci appende l'anima al mondo, non sa esistere. L'incontro con l'anima gemella può essere romantico quanto una polmonite, perché invece di trovarsi di fronte il principe azzurro o la sirena dei sogni, s'inciampa in quella metà esatta che spereremmo di non vedere mai, quella metà mancante che amiamo in modo smisurato e che esige di essere ricongiunta a se stessa, malgrado noi. Quando l'Anima Ama, tutto è degno del suo amore e persino Dio torna a parlarci, lo so, perché l'ho vissuto. In questo romanzo autobiografico, vi racconterò il mio viaggio e sarà talmente vero da non riuscire a crederci...
LinguaItaliano
Data di uscita25 lug 2016
ISBN9788892618954
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    Anteprima del libro

    AnimAma - Deborah Vassos

    633/1941.

    TI AMO

    Era un giorno speciale, ma io non ne avevo idea.

    Seduta al tavolino di un bar all’aperto, subivo una giornata afosa ed un caffè bollente, scrutando i passanti con fredda indifferenza.

    Passò un bambino triste, il ronzio di una bicicletta, la mano enorme di un padre, la scritta true love su una maglietta scollata, il volo di un piccione ed una voce anonima che alle mie spalle, squillò:

    Regali una moneta per una scatola d’acqua, voglio solo acqua, giuro!

    Come in un agguato, mi voltai verso quell’accento straniero.

    Perché giuri? domandai, severa.

    Perché è vero, rispose, allegro.

    Un istante prima di posare lo sguardo su di lui, la mia mente prevenuta aveva stilato, fulminea, l’identikit probabile dell’uomo e, secondo i suoi calcoli, avrei dovuto incappare in occhi imploranti, labbra imbronciate e corpo ricurvo.

    Invece no.

    I miei stereotipi si infransero sulla figura festosa di un cinquantenne in camicia di lino bianco, alto come una pertica, dritto, fiero e con occhi da cartone animato.

    Dovrei avercela una moneta, biascicai, cacciando le dita nella borsa.

    Lo sbirciai appena, mentre mi inondava di sorrisi in trepidante attesa, dandomi l’impressione che, in realtà, volesse spenderli per le giostre.

    Trovata: é tua, dichiarai, allungando l’euro stanato.

    Lui lo colse come se fosse un fiore e afferrandomi una mano, disse:

    Ti amo.

    Così.

    Quella parolina, fiondata dritta negli occhi, fu l’ abracadabra che li fece spalancare e lui, per diritto, vi entrò.

    Non aver paura, rise,non amo te. Gli altri amano te! Io non posso amarti, come pensi. Però, ti amo! Pulito. Hai capito, vero?

    Persuaso che fosse una spiegazione più che esauriente, mi fissò in religiosa attesa, mentre le mie ciglia sfarfallarono incontrollate, come ali di falena intorno alla lampadina, finché, non ebbe la premura di affievolire la luce: mi lasciò la mano e drizzatosi, si allontanò di un passo. Poi, teatrante, recitò:

    Tuo marito ti ama. Ma Dio c’è! E ti amo anch’io. Di più! Serio. Tu non dirglielo però, eh! disse, scoppiando a ridere, inaspettatamente felice.

    Quella risata sorgiva mi dissetò.

    Mi ami come anima, arrivai a concludere.

    Lui spalancò le braccia, colme di gratitudine e illuminandosi, come se fossi il suo regalo di Natale, disse: Sì!

    Poi, accennò qualche passo di una danza tutta sua, come se una musica avesse preso a vibrargli dal cuore e quando si fermò, cominciò il suo canto:

    L’anima ama Dio, l’uomo no. Dio ama la montagna e l’erba. Tutto! Vero? Dio ama anche l’uomo, perché Dio è buono, vero? Ma l’uomo è sporco, l’uomo è cattivo, vero?, chiese, scimmiottandosi rassegnato.

    No! E’ solo confuso, risposi brusca Dio è in Tutto, anche nell’uomo, ma lui lo cerca altrove e non lo trova. S’incattivisce, solo perché non si accorge che è sempre stato lì.

    Uscì come uno starnuto e lui, sprizzò di salute.

    Raggiante, mi riafferrò la mano che si era scordato sul tavolino e, scandendo bene ogni sillaba, dettò: Tu hai capito.

    Senza darmi il tempo di replicare, mitragliò una sfilza di ti amo, che colpirono, in parte me, ed in parte il cielo a cui rivolse le braccia.

    Dio è qui?, chiese, poi, indicandosi il cuore.

    , risposi e, poi, come a confidargli un segreto, bisbigliai: Dio non è mica il tizio antipatico che pensi tu! Lo chiami Dio, ma puoi chiamarlo Amore e non è un sentimento. L’Amore è potente, pura energia ed è l’unica cosa che esiste. Tutto il resto è illusione.

    Ti amo! Ti amo! Ti amo!, schiamazzò, lui, salutandomi con la mano.

    E quella sua musica che pareva inascoltabile, sembrò suonare anche dentro di me, tanto che, mentre lo guardavo allontanarsi baldanzoso, mi pentii di non avergli risposto: anch’io.

    Sparì dietro l’angolo ed io riposai lo sguardo sul flusso umano che si riversava nella via. Passò una donna in bilico sui tacchi, un cane accaldato, vi amo tutti, due amiche che ridono, un vecchino allegro, un giovane pensieroso, giuro.

    L’amore incondizionato per l’intera umanità durò qualche minuto, poi evaporò. Ma, intanto, era stato il sole, dopo una galleria.

    L’anima ama, ma gli uomini ne hanno paura. Potrei scrivere un intero libro solo su questo, pensai.

    Mi alzai dal tavolino di in bar all’aperto, ma quello era un giorno speciale ed io, ora, lo intuivo.

    Questo episodio e tutto ciò che leggerete, è Vero.

    La maggior parte dei nomi sono stati modificati, per ragioni di privacy.

    I fatti risalgono a cinque anni prima la stesura del libro.

    INCONTRO

    Ci sono appuntamenti a cui non possiamo mancare, perché la nostra anima li ha presi con amore,prima che ci illudessimo di essere solo uomini. Tuttavia, fintanto che l’illusione persiste, si vede obbligata a tenerne fede, senza che ce ne accorgiamo.

    Ecco perché, solo per caso, mi capitò di conoscere un uomo di nome Marco.

    Tra i suoi vari talenti, spiccava anche quello di massaggiatore competente ed una sera di settembre, una contrattura alle spalle mi spinse a prenotargli una seduta.

    Il senso dell’orientamento, però, non spiccava tra i miei di talenti e malgrado le indicazioni che fu costretto a ripetere più volte e che io ritenni opinabilmente dettagliate, mi persi proprio a pochi metri dal punto dell’incontro.

    La prima richiesta che gli rivolsi, quindi, fu quella di venirmi a prendere di persona e scelsi, per comodità di entrambi, il parcheggio davanti ad una chiesa poco distante.

    Lui,che considerava la mia richiesta del tutto inopportuna, spese un discreto numero di tentativi per convincermi che era soltanto il mio scarso impegno ad impedirmi di trovare il suo studio, ma infine, per timore di una mia ulteriore telefonata, cedette.

    E mentre mi gingillavo coi vari campanellini della mia lunga gonna, ammirando l’angelo che impietrito mi guardava dalla facciata di quella chiesa, lui arrivò.

    Il suo benvenuto fu talmente caloroso da raggelarmi il sangue istantaneamente: mi concesse il privilegio di un saluto sputato per terra e con la faccia di un serial killer indeciso se smettere, mi fece cenno con la testa di seguirlo.

    Io, terribilmente a disagio, reagii d’istinto scherzando sull’accaduto, con la speranza che l’autoironia potesse alleviare la tensione, ma non sempre la speranza è l’ultima a morire.

    Tutto ciò che la mia buona volontà riuscì a conquistare fu un suo debole mugugno, così mi persuasi che, in fondo, salvare quel pover’uomo dalla sua seriosità, non fosse compito mio e finalmente tacqui, con suo evidente sollievo.

    Arrivammo, aprì la porta, accese le luci e, travolto da funebre entusiasmo, proferì verbo: Accomodati pure, vado a cambiarmi e arrivo.

    Con un gesto della mano, mi indicò la porta dello stanzino destinato al massaggio e, non so se per buona educazione o perché temeva che mi perdessi ancora, ma pazientò di vedermi entrare.

    Se è vero che lui doveva travestirsi in non so cosa, io, senza dubbio, dovevo svestirmi e basta.

    Ora, va detto che l’idea del massaggio mi balenò dopo una prima, recente esperienza, ma non faceva parte delle mie normali abitudini, così, una volta sola nella stanza, mi colse un atroce dilemma: quanto mi dovevo spogliare?

    Seconda la mia logica, per una contrattura alle spalle, dovevo denudare le spalle. Ma alla luce di un’analisi più approfondita della questione, il dolore alle spalle poteva essere il riflesso di un problema da qualche altra parte, la schiena senza dubbio.

    Tolsi la maglietta.

    Non era da escludersi, poi, un problema di postura e allora forse anche le gambe andavano scoperte, ma lui faceva anche riflessologia?

    E mentre toglievo e rimettevo indumenti, persa nelle mie alte considerazioni, lui, diede un discreto colpo di nocche alla porta e formalmente chiese: Posso entrare?

    Seminuda, coi vestiti in mano e panicata come un’adultera al rientro del marito, scoppiettai: No, no, no!

    Dall’altro lato della porta non partì un fiato.

    Zampettai fino alla maniglia e scostando la porta come se avesse la catenella, gli spuntai fuori la testa con la sua bella domanda dentro:

    Ma quanto mi devo spogliare? uscì.

    Fu lì che vidi la sua primissima espressione facciale, ma, non so proprio perché, non mi parve particolarmente amichevole, né tanto meno comprensiva la sua risposta: Fa come vuoi.

    Come per le indicazioni stradali, mi sembrò un tantino vago e, sentendomi come un’analfabeta all’università, pensai di non mortificarmi oltre: mutande a pois con tanto di apina sorridente, reggiseno triste pre-maman e soprattutto calzini,mi sembrarono la tenuta perfetta per quel massaggio.

    Mi distesi poco convinta, come dal dentista, e, stringendomi in un abbraccio,chiamai: Ehilaa?

    Il corvaccio entrò nella stanza come se non ci fosse nessun’altro.

    Luce o buio? chiese.

    Fa come vuoi, mi vendicai.

    Lui optò per una ragionevole via di mezzo, per poi accendere una musica rilassante che non funzionò.

    I piedi no, per favore. I calzini son lì come promemoria,puntualizzai.

    C’è un motivo?

    Il motivo è che te li ritroveresti stampati in faccia. Nessuno può toccarmi i piedi.

    Si spostò verso di me, oscurandomi come una nube sul sole ed io mi voltai di schiena.

    Buio.

    Tutto bene? Mi chiese, staccando le mani.

    ,risposi, stropicciandomi gli occhi però mi vien da piangere …

    Una volta ridi e quella dopo piangi?

    Accennai un sorriso.

    Ti ricordi?, esclamai, non ho mai riso così tanto in vita mia! Non avevo mai fatto un massaggio vero,non immaginavo che potesse fare quell’effetto, mi scendevano le lacrime perfino!

    Sì, mi è rimasto impresso, rispose lui.

    Però non ho più sentito le scosse, è normale?

    Lui aggrottò la fronte, perplesso.

    Di che scosse parli?, chiese infine.

    Alla serata dimostrativa, c’eri tu e l’altro, coso … come si chiama …

    Gregorio, suggerì.

    Eh! Mi avete fatto il massaggio tutti e due, perché forse c’era sta cosa di una che doveva esserci, ma non c’era e se non c’era nessun’altro, allora mica che uno stava li a guardare, giusto?

    Lui continuava ad aggrottare la fronte.

    Il massaggio a quattro mani, si fa normalmente, specificò.

    Ah. Va beh, sta di fatto che io non avevo capito bene cos’era; sul programma che mi era arrivato, c’era scritto : una roba sui massaggi, ma pensavo che spiegavate, ma sì, dimostrativo,comunque, un po’ dalla fretta che ero appena uscita dalla doccia e che ero in ritardo, sono arrivata lì senza mutande …

    Lui si aggrottò tanto, che parve aver succhiato un limone.

    Sotto non le avevo! Ma sopra avevo i pantaloni! Insomma ero vestita un po’ tutta e voi potevate massaggiare giusto le braccia, la pancia, i piedi no …

    Sì, ma quali scosse?, intervenne lui.

    Le tue, no?, risposi, con le mani al cielo.

    Avevo gli occhi chiusi, ma riconoscevo le tue mani da quelle di Gregorio, perché tu facevi le scosse e lui no. E’ per quello che ridevo tanto, mi sembrava di stare sulle giostre!

    Restammo un istante in silenzio.

    Io lo guardai, annuendo, soddisfatta per essermi spiegata bene.

    Lui mi osservò come un virus al microscopio.

    Dopo di che, tagliò corto:

    Bene, fai con comodo.

    Uscì dalla porta e a me tornò la voglia di piangere.

    Mi rivestii lentamente, invasa da un leggero tremore.

    Forse ho parlato troppo e ho preso freddo, conclusi a me stessa.

    Ma, al momento del congedo, la tristezza trasfigurò in un incomprensibile e profondo senso di terrore.

    Piantatagli di fronte,stringendomi la borsetta sul ventre,lo spiavo in allerta, come se un suo sguardo potesse accidentalmente trafiggermi a distanza.

    Cosa ti devo? Dissi robotica.

    Niente! Il primo è gratis! Esclamò, tutto pimpante.

    Ebbi la fulminea sensazione di una réclame nel bel mezzo di un film dell’orrore e come per cambiar canale, dissi:

    No, grazie. Preferisco pagare.

    Per quanto mi dispiacesse di aver spento il suo unico flash di felicità, avevo maturato la decisione che non sarei tornata in quel luogo per nessuna ragione al mondo.

    L’idea di accettare la sua offerta, poi, mi sembrò disonesto: aveva svolto un buon lavoro e meritava un giusto compenso.

    Ma quando feci per sfilare il portafogli dalla borsa, cominciò il classico balletto dei no, ma figurati e dei ci mancherebbe, insisto, finché con la banconota in mano e guardandolo dritto negli occhi, dissi ferma:

    Niente debiti, se li prendi fai un favore a me. Sei gentile, ma non voglio, davvero.

    Mi rivolse uno sguardo ferito e poi, come a giustificarsi, spiegò:

    Tu inizialmente hai accolto l’invito della prova massaggio gratis, ma, in pratica hai risposto solo tu, noi l’avevamo cancellata …

    Sì,me l’hai detto, ma ho preso appuntamento lo stesso, no? Hai svolto un lavoro e …

    Non posso, mi frenò lui, mi sembra disonesto.

    Rimasi col braccio sospeso e la banconota appesa tra le dita: questo lo capivo.

    Va bene, grazie. Allora, ciao.

    Tu hai paura di me. Lo disse.

    Perché?

    Non lo so

    Mi spiò da una fessura degli occhi, mentre io mi aggrappavo alla borsa più saldamente.

    Hai paura che ti faccia del male, fisicamente? chiese, in tono paterno.

    No. A pelle, so che non lo faresti mai.

    E allora?

    E allora, è sempre non lo so. Non lo dico per dire! Non lo so è non lo so! Se lo sapessi, te lo direi, ma, guarda caso, non lo so! Semmai dovessi saperlo, ti faccio uno squillo!

    Feci un cenno veloce con la mano e me ne andai con sulla schiena la sensazione della sua fronte aggrottata.

    Quella stessa notte un dolore pungente al petto non mi diede tregua.

    Sembrava che il cuore, gonfiatosi, non riuscisse più a stare al suo posto e come un pesciolino pescato, si dibatteva, sferzandomi atroci colpi di pinna.

    Allo stesso modo, io, mi dimenavo tra le lenzuola, finché, dolcemente, straripai.

    Fu un grondare di occhi, più che un pianto e, come il respiro, ne subivo la volontà perfetta. Il dolore saliva, passando da una crepa e, sfuggendo il cuore, sfociava liquido e muto. Ma la ragione di tutto questo, sfuggiva a me.

    Quando anche il cielo si svegliò, mi alzai.

    Temendo le ansie di mie madre, più che un infarto, mi mossi invisibile per la casa, difendendo quella pena, che, tuttavia, non mi fu grata e alle 11.00 del mattino suonarono alla porta: Adelchi era passato a trovarmi.

    M’illuminai e poi mi spensi.

    Che sei qui è strano. E’ successo qualcosa? domandai.

    Il suo sorriso parve dire di no, ma poi …

    Volevo riportarti questo, disse, porgendomi uno scialle.

    Rimasi a guardare il gesto che si fermò e poi i suoi occhi ancora in movimento.

    Perché?, lo interrogai.

    L’hai dimenticato sulla mia auto, sabato.

    E allora?

    Posso entrare?

    Mi scostai come in ascensore, ma senza staccargli gli occhi.

    Da quanti anni ci conosciamo, Adelchi?

    Troppi, rise lui.

    E in questi troppi anni, quante volte mi hai riportato qualcosa che avevo scordato, in giro?,chiesi seria io.

    Ma posso anche sedermi, per caso?

    Te lo dico io: mai,continuai, ignorando l’etichetta.

    E quante volte ho dimenticato qualcosa da te, al bar, in auto e in qualunque luogo la mia distrazione potesse esprimersi?

    Vedo che hai dipinto quasi tutte le pareti di questa stanza, sei stata brava, mi ignorò, lui.

    Te lo dico io: sempre. Se non li avessi recuperati io, ad ogni nuovo incontro, dovevi passare con una ditta traslochi, oggi!

    Senti, non tutti i giorni sono uguali,no?, sospirò.

    Ancora in piedi, davanti alla porta me lo guardavo come su di una fotografia.

    Adelchi non era una comparsa sul palco della mia vita, ma, piuttosto, un personaggio principale a cui, difficilmente, si affidano scene insignificanti. Tuttavia, come tutti noi attori di buona fede, recitava il suo ruolo sempre per la prima volta, seguendo il copione pagina, dopo pagina, fantasticando, di rado, sul possibile finale.

    Questo è nuovo, non l’avevo ancora visto, disse, indicando la parete dipinta alle sue spalle, che cosa rappresenta?

    Decisi di assecondarlo e come l’uomo del meteo, spiegai: Qui a destra c’è l’abbozzo di una città che rappresenta il mondo, mentre qui, in basso, il corpo di un uomo che si trascina, ma, è solo l’involucro dell’essere e, come vedi, è vuoto. In realtà, il dipinto prosegue sulla parete dell’armadio, ma nessuno lo sospetta.

    Adelchi ruotò la testa ed io gli indicai verso l’alto: Qui è rappresentato il vero volto dell’uomo, la sua vera essenza; é dipinto dorato e come un sole, perché si possa intuire.

    Lui fece una smorfia divertita, dubitando fortemente che qualcuno lo avesse mai intuito.

    E aveva ragione.

    Più in basso, tra il corpo vuoto e la sua anima, illustrai, c’è la mano di Dio che ti porge una chiave. Anche la mano è dorata, perché della stessa sostanza dell’anima, ma è staccata dal corpo, perché non ne ha bisogno per esistere.

    Ma se volevi che si capiva tutta questa roba, perché hai separato le due immagini?

    Mi uscì una risatina.

    Io? Io sono la mano, lo sai. Chi l’ha dipinto, non lo so, dissi.

    Annuimmo insieme, ma con due pensieri diversi.

    Ma credo sia ovvio, tentai, é cosi che viviamo noi. Stiamo su quella parete in perenne ricerca di chi siamo, ma non si può trovare nulla se si guarda sempre nello stesso punto, pensando che Dio sia da un’altra parte. Il cervello fa così, divide tutto e noi gli crediamo.

    Si, va beh, mannaggia a quando te l’ho chiesto! Ma possibile che uno ti fa una domanda e tu te ne esci sempre con un romanzo?, provocò.

    Ma se uno mi fai una domanda seria, io che devo fare?, esplosi.

    Essere coincisa. Co-in-ci-sa. Ma che te lo dico a fare, in quella testa c’hai tutto un mondo che lo sai solo tu!, rise.

    Sicuro! Come mai non ci ho pensato prima risposi, ironica ecco perché un Dante ha scritto la Divina Commedia: non sapeva essere coinciso! Ci ha rifilato un malloppo, perché nei riassunti faceva schifo! Grazie Adelchi per avermi illuminato, te ne sarò per sempre grata …

    Tu non sei Dante, bella!, staccò.

    Ma l’argomento era profondo, pirla!, sbottai.

    E ci scambiammo sguardi luminosi: i nostri, continui, battibecchi erano un primo spazio, dove incontrarsi liberi. Giocavamo di quel nostro amore allegro, come bambini che vogliono diventare grandi, ma in un modo tutto loro e senza che gli adulti ne sapessero niente.

    Ad ogni battibecco, seguiva sempre una risata e il desiderio impellente di abbracciarsi, ma, in quello strano giorno, non fu così.

    Nel frattempo quel dolorino persistente, cominciò a sgambettarmi nel petto con maggiore impeto, ed io, per istinto, vi appoggiai una mano.

    Adesso che ci faccio caso … fece lui la chiave sulla mano non è disegnata: c’hai messo una chiave vera!

    Certo, perché la chiave per capire è vera.

    Adelchi rideva ancora, divertito dal nostro gioco, ma, d’improvviso, si accorse di quella mia mano che pacava il cuore e si fece serio.

    Cos’hai?

    Non è niente, stai tranquillo, risposi calma.

    Sto tranquillo quando mi dici cos’hai.

    Mi guardò da fratello.

    Un dolorino,minimizzai.

    Da quando?

    Da stanotte. Ma se piango si scioglie, quindi è di natura emozionale. Ieri sera ho fatto un massaggio da un operatore del centro olistico, si vede che mi ha smosso qualcosa, tutto qui.

    Va da lui allora. Fatti vedere, dispose.

    L’idea mi inebriava quanto quella di una gastroscopia.

    Non è necessario, davvero. Adesso piango un po’ e quando scopro cosa mi fa piangere, mi metto in bolla, sorrisi.

    Io adesso devo andare, ma tu lo chiami, insistette.

    E puntandomi l’indice sul terzo occhio, replicò: Lo devi fare.

    Poi,mentre varcava la porta, una farfalla di stoffa, appesa alla tenda, cadde. Solo il fruscio, me lo fece notare, ma quando la vidi, posata ai miei piedi, un senso di nostalgia mi arrivò in gola.

    Adelchi, è caduta la farfalla mentre uscivi! Annunciai.

    E quindi?

    La farfalla è trasformazione. Sta per cambiare qualcosa, risposi.

    Lui non mi ascoltò. Mi baciò sulle labbra, ma quando mi strinse tra le braccia, quel fruscio si spostò al cuore e si fece tonfo.

    Devo proprio andare adesso, smorzò, frettoloso, tu e i tuoi romanzi! Mi hai fatto fare tardi!

    Tardi? Ma perché sei venuto qui, Adelchi? Dimmelo.

    Te l’ho detto, per lo scialle!, farfugliò, scendendo le scale.

    Ma, potevi rendermelo la prossima volta. Tu non vieni mai a casa mia. Adelchi … fermati.

    Tu chiama il massaggiatore, capito?, mi rammentò e poi, un ultimo, fugace sguardo, giusto per dirmi:Je t’aime.

    Ma agli attori principali della tua vita non viene mai affidata una scena insignificante ed intanto che quell’anima bella si allontanava, ebbi il sentore che scendesse dal mio palcoscenico, senza nemmeno un meritato applauso.

    L’ansia di mia madre si scoperchiò con le altre pentole, proprio all’ora di pranzo.

    A tavola,mio padre era intento a guardare uno dei tanti programmi televisivi che emozionano la sua vita e più che mangiare, si trovò a zittire di continuo quella rumorosa preoccupazione materna,tanto che alla fine mia madre mi gridò, ma bisbigliando:

    Adesso ti porto all’ospedale e basta!

    Mamma, non ha niente il cuore, è emozionale! Come te lo devo dire?

    Il cuore con troppe emozioni, scoppia! Chi te lo dice che adesso non vai a lavorare e ti viene un infarto? Oh, povera me! Tutte a me capitano, ma che ho fatto di male, io?

    Sshht, fece mio padre ma non potete aspettare la pubblicità, per parlare?

    Aspettammo la pubblicità.

    Ma durante gli spot, mio padre ci delucidava, meticoloso, su ciò che avevano appena trasmesso, come se quella, sua, televisione fosse invisibile a tutti gli altri.

    Quando il programma riprese, mia madre si alzò e mi fece cenno di seguirla fino al lavello, con la faccia di chi stava per svaligiare una banca e, sottovoce, urlò:

    Ma quando ti è venuto sto dolore, proprio lì?

    Sai che avevo mal di spalle?

    Mia madre fece sì, sì, con la testa

    Niente, sono andata a fare un massaggio e stanotte è arrivato il dolore. Adesso passa, lentamente, ma passa.

    Aaaah! Ma allora non è niente! giunse immediata alla diagnosi Ha toccato i muscoli che non doveva e si sono infiammati.

    Ecco, almeno non mi tormentava più.

    Però, accentò, ripensandoci, dovresti chiedere al dottore che ti ha fatto il massaggio … lui lo sa di sicuro che c’hai!

    Ma vuoi star tranquilla?, tentai di rabbonirla, io.

    No!, sussurrò ad alta voce, se non lo chiami subito e ti fai vedere, chiamo io l’ambulanza! Ma non ho già sofferto abbastanza nella mia vita?, miagolò.

    Ci voltammo di schiena, come prima di un duello, io verso la mia camera, lei verso mio padre.

    Pubblicità.

    Prontooo?

    Ciao, scusa se ti disturbo, ma …

    Prontooo?

    MI SENTI?

    Sì, dimmi.

    Ah, ecco. Scusa se ti disturbo, ma è successa una cosa che non mi aspettavo e volevo chiederti consiglio …

    Lui ascoltò silenzioso tutti i dettagli e, sinceratomi sui sintomi, sentenziò:

    E’ di natura emozionale.

    Eh! L’avevo detto io!

    Come?

    Sai, si sono tutti un po’ agitati qui e minacciano ambulanze.

    Se piangi e diminuisce, non sei in pericolo, però è strano.

    Non so se fosse incredulo o sorpreso.

    Evidentemente hai avuto uno sblocco a livello del quarto chakra, ma il massaggio che ti ho fatto non lo prevedeva.

    E quindi?, chiesi, un po’ preoccupata.

    Beh, se hai un dolore così acuto, è stato uno sblocco bello potente, ma a metà. Bisognerebbe fare un lavoro di riequilibrio energetico.

    Mah, non so …

    Ma tu, quando piangi, pensi a qualcosa di particolare? E’ un periodo di stress, forse?

    Proprio per niente, è un periodo molto sereno. Piango come per espellere tossine, ma non ho idea del perché, capisci?

    Ok. Fai defluire le emozioni all’esterno,facciamo passare un paio di giorni e poi, se lo senti, facciamo un lavoro più profondo. Sta a te.

    Riflettei un istante.

    E va bene.

    D’accordo. Qualunque problema, chiama pure.

    Grazie, ciao.

    Non avrei voluto incontrarlo di nuovo, ma il mio cuore lo impose.

    La sera stabilita, mi presentai di buon umore e vestita di bianco,come una sposa dal cuore vergine. Ma il mio specchio luminoso s’infranse, di colpo, sulla figura funerea di lui che alla porta mi accolse, non come uno sposo, né come un padre, ma come un preside a scuola. Capii immediatamente di essere in ritardo di ben cinque minuti, perché il guastafeste se ne stava ricurvo col telefono in mano in cerca del mio numero e di accettabili spiegazioni.

    Sei in ritardo, mi salutò lui.

    Ma il giorno è giusto, non sei contento?, bofonchiai a testa china.

    Con la stessa spumeggiante allegria di un cecchino mi fece passare e indicandomi la stanza dei massaggi, sparò: Quando sei pronta, dillo.

    Una volta sola, mi spogliai completamente a mio agio, esibendo un pratico e poco confidenziale costume da bagno e quando un altro minuto giustificò la sua intollerabile attesa, lo chiamai.

    Lui si affacciò e, alla vista del mio costumino rosso sgargiante, reagì con l’espressione divertita di un condannato a morte.

    Era evidente che il mio fascino personale non aveva alcuna presa su di lui, ed anzi, probabilmente incarnavo, con esattezza divina, tutte le caratteristiche spiacevoli di chi non amava avere intorno.

    Tuttavia, spinto unicamente dall’amore per la professione, persino con me, si comportava sempre in modo squisitamente impeccabile, ed anche quella sera, lo fece.

    Come sta il tuo cuore?,mi chiese.

    L’ho svuotato, sorrisi.

    Sblocchiamo completamente. Ti faccio un massaggio intuitivo.

    Mi fido di te, risposi, con mia stessa sorpresa.

    Come da mansionario, abbassò le luci e fece partire un cd, ma, stavolta, mi rilassai: volevo abbracciare me stessa.

    Gli ultimi tre giorni erano stati intensi, ma significativi. Benedicevo, ora, quel dolore stagnante che mi era imploso nel petto, perché era stato sincero nel mostrarmi le crudeltà che mi ero inflitta. Credere di poter amare gli altri, per odio verso se stessi, era il pensiero più ottuso che si potesse concepire, eppure, inconsciamente, era il mio di pensiero.

    Altrettanto irragionevole era credere che per amore verso se stessi, fosse indispensabile disprezzare tutti gli altri. Dentro di me, come in chiunque altro, c’era un essere ignorato, ma puro, come un bambino che non capiva perché, pur trovando il tempo di incolpare il prossimo delle sue pene, non mi fossi mai occupata di amarlo io, direttamente.

    Adesso capivo e tutto ciò che chiedevo a quel massaggio era di poter correre a braccia aperte verso me stessa, per perdonarci a vicenda.

    Le mani di Marco pareva che lo sapessero, perché, se da principio seguivano una loro rotta precisa, ad un certo punto,l’abbandonarono.

    Affidandosi completamente al vento, navigarono fluide, sulla mia pelle che s’increspava lungo le braccia, voltandosi, sinuose, sul ventre, per scorrere, poi, lungo le gambe e come cascata, giungere ai piedi. E lì, si arrestò la loro corsa.

    Galleggiando sulle curve delle dita e solcando i talloni, le sue mani, mi infusero una pace inattesa. Non solo i piedi, non si ribellarono al tocco, ma lo confusero, credendolo il mio.

    Per una sorta d’incantesimo, le mani di Marco avevano dischiuso l’ermetico sigillo e nelle sfere della mia coscienza, approdammo insieme sulla spiaggia vergine di una nuova terra.

    Uno senso di beatitudine frastornante mi avvolse e, nella sala buia della mia mente, presero a proiettare spezzoni di un film che non avevo mai visto.

    Accadeva ogni volta che meditavo, soprattutto in gruppo, ma quella sera, la Bellezza delle immagini era indicibile e l’emozione trionfava sulle sinapsi.

    Fisicamente, poi, le nostre mani si alzarono insieme e dispiegando le ali, presero il volo verso un cielo invisibile. Quando planarono, come piume nella brezza, io sentii l’irrefrenabile urgenza di atterrarle sul mio cuore, premendo con forza come a trattenere la vita stessa.

    Ad un tratto, qualcuno che sonnecchiava dentro di me, si svegliò e subito mi svelò l’identità reale di quelle mani: non erano anonime, anzi, non era nemmeno più parti di

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