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Io sono del mio amore e il mio amore e mio
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Io sono del mio amore e il mio amore e mio
E-book191 pagine3 ore

Io sono del mio amore e il mio amore e mio

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Info su questo ebook

Un romanzo d'amore e di morte. Una storia proibita che non doveva neppure iniziare tra una giovane donna ed un uomo maturo. Un amore dominante, travolgente, morboso, senza scampo che porta un protagonista alla morte violenta e l'altra a una morte che si sconta vivendo. La storia è un lungo flashback, ma è una storia che si chiude con la morte della persona amata, il resto è pura sopravvivenza: tutta la vita della protagonista è infatti un continuo alternarsi tra il tentativo di vivere intensamente e la rassegnazione al vivere passivo. Non pare ci sia scelta possibile in positivo. I tentativi di ricostruire qualcosa, anche se comportano l'emergere di una vocazione artistica, di una affermazione professionale non sono appaganti, perché scontano il fallimento della vita privata, chiusa tra la convivenza con un uomo non amato e il legame difficile con una figlia subita e subdola, accettata solo come surrogato dell'amore perduto, capace di annientare la protagonista, di ucciderla per la seconda volta, ma anche di liberarla dalla propria ossessione.
LinguaItaliano
Data di uscita30 mar 2015
ISBN9788891184726
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    Anteprima del libro

    Io sono del mio amore e il mio amore e mio - Daniela Pavan Verago

    6,2)

    L’innamoramento, la magia

    Caro Ennio,

    sono stata al cimitero di Caorle, dove sapevo che eri sepolto e non ti ho trovato.

    Da non crederci.

    Ho chiamato il becchino, ho chiesto informazioni, gli ho dato il tuo nome e cognome e gli ho detto che eri morto da circa vent’anni: per l’esattezza il 3 aprile del ‘94.

    La mia amica Sandra mi aveva avvertito della tua morte con un telegramma che diceva, molto crudelmente:

    Ennio è morto in un incidente d’auto. Fatti coraggio, ti aspetto.

    Con quel foglio stampato in mano, tutto sgualcito, e la tua data di nascita e di morte, il becchino ed io abbiamo girato tutto il cimitero, ma tu non c’eri da nessuna parte.

    Avevo una piccola pianta di ciclamino in mano che alla fine di quella estenuante ricerca era tutta rovinata, perché la tenevo troppo stretta tra il braccio e la mia enorme borsa.

    Ho atteso che arrivasse un collega di Neno, così si chiamava il becchino, che confabulassero tra loro, che facessero delle telefonate, senza alcun esito. Poi, stremata, ho lasciato un mio recapito, perché mi avvisassero di qualche novità e me ne sono andata.

    Magari se avessi pazientato ancora un po’ qualcuno sarebbe arrivato e m’avrebbe portato da te.

    Ma non era ciò che mi aspettavo da quella mia visita. Volevo trovare la tua tomba da sola, rivedere il tuo bel viso sulla lapide. Di sicuro era quello che ricordavo, perché sei morto giovane, poco tempo dopo che ci siamo lasciati. Volevo piangere. Chissà.

    Prima di uscire dal cimitero posai la mia piantina di ciclamino sulla tomba di una ragazza morta a trentaquattro anni, la stessa età che avevi tu quando ti sei schiantato contro quel muro.

    Mi sono allontanata da quel posto, tetro e silenzioso, che era ormai sera.

    Piovigginava e avevo freddo, mi faceva male un piede perché avevo messo delle scarpe nuove.

    Ero tutta ben vestita e i capelli mi stavano veramente bene, con il taglio nuovo che avevo fatto da poco. Mi sentivo bella.

    Chissà, forse speravo che tu mi potessi vedere, ed io volevo assolutamente vedere la foto sulla tomba perché, con il tempo, mi sono scordata il tuo viso. Se ci penso un po’ mi ricordo la tua bocca, la cicatrice sul tuo mento, i tuoi occhi neri, i tuoi capelli folti sempre spettinati e neri come la pece, come un corvo, che era infatti il soprannome che ti davo, ma è l’insieme che non mi appare più. Piano piano sei scomparso dalla mia mente.

    Sola, in quel cimitero mi amareggiava anche il fatto che non riuscivo più a piangere per te. Dopo vent’anni non piangevo più, pensando a te, a noi.

    Tu ora avresti avuto cinquantaquattro anni ed io ne ho trentasette. Nessuno griderebbe più allo scandalo, per la nostra differenza di età, come invece fecero allora.

    Ero una ragazzina, ero minorenne, e avevo esattamente la metà dei tuoi anni.

    Non ho mai avuto una foto di te, tantomeno una di noi due insieme.

    Noi due insieme. Mi sembra strano dire noi due insieme, mi sembra ancora impossibile che sia accaduto qualcosa tra noi, forse perché ho scordato tutto, non solo il tuo volto.

    Ho presente il tuo modo di camminare, trascinando le gambe. Sembravi stanco e annoiato. Portavi le scarpe sempre slacciate. Ho presente il tuo bel corpo, eri magrissimo, ma avevi delle spalle enormi, da buon nuotatore qual eri. Ma non riesco a farti riapparire accanto a me, come mi accadeva subito dopo la tua morte

    Ricordo le tue braccia forti che mi stringevano, per strada, in auto, al bar, al cinema. Quando poi eravamo a letto, dopo l’amore, mi continuavi a stringere forte a te, con le tue braccia-serpente e non mi volevi lasciare andare neppure a fare la pipì. Scherzando mi accompagnavi, stringendomi forte, sino alla porta del bagno. E come ridevamo, io minacciavo di farla a letto e tu dicevi cretinate.

    Poi tornavo tra le tue braccia e ricominciavamo a fare l’amore, come due disperati che non si preoccupavano del giorno dopo, dell’ora dopo. Come se percepissimo, con largo anticipo, la morte tra noi.

    Ricordo i giorni in cui mi venivi a prendere a scuola, che rabbia provavo perché mi vergognavo di te. Eri un uomo grande, vecchio rispetto a me, con una bellissima macchina, costosa e appariscente, che mi stava ad aspettare all’uscita di scuola. Non eri mio padre né mio fratello o mio zio.

    Piacevi da impazzire alle mie amiche, che dicevano di invidiarmi, ma in fondo pensavano che ero una puttana.

    La gente ti conosceva, eri un avvocato di città, noto e benestante.

    Io abitavo in periferia, ero povera, la mia famiglia non sapeva nulla di questa mia sbandata e le malelingue non ci misero molto a informare mia madre di ciò che stavo facendo.

    Tutti pensarono che tu non mi avessi detto che eri sposato e invece si sbagliavano, io lo seppi subito, la sera stessa che ci incontrammo. Io sapevo tutto di te.

    Ci siamo conosciuti davanti a una libreria, una sera d’estate.

    Stavo aspettando la mia amica Sandra, ero seduta sul marciapiede, fumavo una delle mie prime sigarette, che mi faceva tossire e tu ti avvicinasti e mi dicesti di smettere di fumare. Alzai gli occhi dal libro che tenevo in mano e ti vidi un po’ sfocato perché un ultimo raggio di sole, ormai al tramonto, m’impediva di vederti bene. Anche sfocato eri un uomo bello. Non è che ci si possa sbagliare, un uomo bello è bello e basta. Sorridevi e mi porgesti la mano per farmi alzare da quel marciapiede. Ti presentasti e mi facesti i complimenti perché stavo leggendo un libro di Pavese.

    Io non sapevo più chi ero, se avevo una voce, se ero al mondo o se stavo sognando. Mi presentai, dissi un sacco di stupidaggini e tenni una lezione su Pavese e poi stremata ero pronta a seguirti in capo al mondo. Tu sorridevi, parlavi con la tua voce calda e sensuale di tanti altri autori che mi consigliasti di leggere. Mi chiedesti se volevo bere qualcosa al bar, lì vicino, e quando ti dissi di no, perché stavo aspettando la mia amica, tu decidesti di sederti con me, sul marciapiede, per parlare di libri, per ridere insieme, sfiorarci, desiderare di vivere e morire con me.

    Fu una serata semplice e magica e quando finalmente Sandra comparve ci trovò che ridevamo ancora, felici, innamorati alla follia. Ti presentai alla mia migliore amica e poi piombai in una tristezza tremenda all’idea di doverti lasciare. Ci salutammo e ci scambiammo i numeri di telefono. Ci sembrò d’esserci strappati il cuore, con quell’addio, io molto semplicemente volevo passare tutta la vita con te. L’amore vero, quello tremendo è sempre così assoluto, fin dal primo sguardo.

    Ci si rivide il giorno dopo e quello seguente e si fecero grandi cose insieme, viaggi, notti intere a fare l’amore, ma quella sera d’estate, io e te su quel marciapiede a parlare di noi, di libri e di niente non la scorderò mai, amore mio.

    Quando ti vedevo accadeva qualcosa in me che non ho più provato, e forse mi auguro di non provare mai più. Sentivo tutti i pori della mia pelle respirare, respiravano i capelli, le unghie. La mia pancia borbottava, le budella si torcevano, il viso si distendeva e tutto il mio corpo ti desiderava.

    Ti desideravano le mani, il seno, la bocca. I pensieri si offuscavano, mi girava la testa e un rossore tremendo trasformava le mie guance. Il mio respiro voleva essere il tuo respiro, volevo i tuoi pensieri solo per me, volevo che tu desiderassi solo me, perché io volevo te, solo te più di qualsiasi altra cosa al mondo.

    Forse se per averti mi avessero chiesto di mentire, di tradire o di uccidere, l’avrei fatto.

    A diciassette anni provai l’amore più grande, più intenso, assoluto e terribile di tutta la mia vita.

    Un amore così non si augura a nessuno, oppure si può riservare a un nemico, per farlo soffrire, per rovinargli per sempre la vita. Perché un amore così non poteva durare, era quello di due creature incoscienti, egoiste che volevano cancellare il resto del mondo per un’ora d’amore, un bacio, una carezza. Volevamo tutto il tempo per noi, non ci curavamo se altri soffrivano per quel nostro amore. Perché tua moglie ti amava ed era incinta del vostro primo figlio.

    Quel dato di fatto, quella realtà, la pancia di tua moglie, erano una fucilata per me, il rombo di un tuono in un temporale improvviso. Mi coglieva impreparata, mi sentivo male, mi sentivo in colpa.

    Continuavo a dirmi che non andava niente bene che io rubassi l’uomo a una bella donna giovane e incinta, che ero una bestia e stavo facendo soffrire anche il vostro bambino.

    Ma lo facevo lo stesso, era più forte di qualsiasi senso di colpa ciò che provavo per te e non sarei mai riuscita a smettere.

    Tu invece non ti sentivi per niente in colpa, eri un pazzo e dicevi che andava tutto bene, che non facevamo soffrire nessuno. Dicevi di amare veramente tua moglie, di un amore diverso, un amore ufficiale, lo dicevi ridendo, e aggiungevi di desiderare da morire il tuo bambino che stava per venire al mondo.

    Ma non era colpa tua né mia se l’amore dei gitani ci aveva colpiti. Pare che queste persone si amino alla follia, per tutta la vita. Stupidaggini, dicevi un sacco di stupidaggini e ridevi come un matto.

    Secondo te il nostro amore era come una sciagura, una disgrazia, o una grande fortuna che arriva quando meno te l’aspetti. Non è colpa di nessuno, è destino che accada e basta.

    Dicevi che l’amore dei gitani arriva e ti travolge e ti devi far travolgere, ti devi far portare dalla corrente, perché ti rendi conto che è diverso da tutti gli altri amori e non capiterà mai più, non si ripeterà, non tornerà ancora nella tua vita un amore come quello. Dobbiamo solo viverlo e ringraziare il cielo per avercelo donato, magari per poco. Benedire chi ci ha concesso di sentirci tanto speciali e fortunati.

    Per il nostro amore sapevamo nasconderci, sapevamo mentire, sapevamo fare tutto per bene, senza dare scandalo.

    Ma, quando il giorno del mio compleanno, ti presentasti all’uscita di scuola con un mazzo enorme di rose rosse non ti stavi nascondendo.

    Non ti poterono scambiare per un fratello o uno zio perché ti avvicinasti a me, mi attirasti a te e ci baciammo. Ci nascondemmo in parte dietro il mazzo di fiori e mi sussurrasti all’orecchio frasi sconce e travolgenti.

    Ero appena diventata maggiorenne, era un bel guaio ma non ci potevamo fare proprio nulla. Nulla ci toccava.

    Le mie amiche erano livide di rabbia e d’invidia. Eravamo all’uscita di scuola, davanti a tutti.

    Alcuni professori, ti riconobbero e fecero finta di non vedere, ma fu scandalosa anche la risata che tu facesti loro in faccia.

    Eri pazzo di me. Io ero travolta da tutto quell’amore, non riuscivo a fermarmi, a pensare, a riflettere e filtrare le mie emozioni.

    Quel giorno non tornai a casa per pranzo, mi portasti nel tuo appartamento, che avevi da scapolo, e si fece per la prima volta l’amore, noi due.

    Tutte abbiamo avuto la nostra prima volta, non per tutte è stata travolgente come ce l’eravamo immaginata ma per me fu magica. La mia prima volta con te, amore mio, fu puro incanto. Il mio corpo e il tuo sembrarono conoscersi da sempre, fosti dolce e appassionato, tenero e violento. All’inizio ero molto tesa. Le mie amiche, che già l’avevano fatto, mi avevano un po’ spaventata parlandomi della violenza che comunque ci deve essere nel primo atto d’amore, ma io non sentii alcun dolore. La mia verginità ti sorprese e ti fece perdere la testa. Continuavi a dire che ti avevo fatto un gran regalo perché in tutta la tua vita non ti era mai capitata una vergine, non credevi che ce ne fossero ancora.

    Poi mi prendesti in giro perché ero ancora vergine a diciassette anni e mi dicesti che i miei vecchi morosi non ci sapevano fare, se non erano riusciti ad assediare e conquistare il fortino e giù a ridere come pazzi. Alla fine dicesti che il fato mi aveva preservata per te. In cielo si sapeva che stava per nascere il nostro grande amore. Fu solo un attimo ma ebbi paura già quel primo giorno. Sentii che quello era un amore troppo grande per durare, era uno di quei tragici amori che possono ispirare tragedie, commedie o film strappalacrime.

    Continuasti a porti la domanda sul perché alla mia età ero ancora vergine e dicesti, ridendo, che la religione m’aveva rovinata. Io non ero troppo religiosa, ma una volta siamo entrati in una chiesetta di campagna a mettere dei fiori per non so quale santo e tu mi prendesti in giro per tutto il giorno. Erano fiori che avevamo raccolto in un prato, dove ci eravamo fermati a fare l’amore. Lo facevamo ovunque, come gli animali, incuranti che qualcuno ci vedesse, sempre talmente presi l’uno dell’altra che a volte bastava uno sguardo, una parola, le tue mani su di me, su di una spalla, sul collo, sul palmo della mano o sulle ginocchia che tutto si offuscava e saliva, dentro me, un desiderio che non sapevo frenare. Allora la mia bocca ti cercava, cercava ogni parte del tuo corpo, come per cibarmi di te. Le mie mani non si fermavano e diventavano bisce, strisciavano e ti toccavano là dove ti avevo visto gemere e chiudere gli occhi dal piacere. Avevo imparato presto la lezione, sapevo ciò che ti piaceva e ti faceva sognare.

    Così, come una gran puttana agisce perché i suoi clienti tornino da lei, io mi muovevo, ti toccavo e ti facevo godere perché tu restassi con me e non pensassi a tua moglie. Ti facevo godere e godevo del nostro amore, non eravamo mai stanchi.

    Era estate e nel tuo piccolo appartamento di Caorle, al secondo piano, faceva molto caldo e tenevamo le finestre aperte e la gente in strada sentiva tutto. A volte si fermava qualche curioso, sollevava la testa, sorrideva e poi andava oltre. A volte sentivamo qualche parolaccia venire dalla strada e allora ci mettevamo a ridere e tu dicevi che erano invidiosi e che non avrebbero di certo saputo soddisfare una sgualdrinella esigente come me.

    Verso sera dovevo rientrare a casa e indugiavo ancora un po’ sul nostro lettone. Tu stavi alla finestra a fumare e guardare fuori, eravamo tristi perché ci dovevamo lasciare.

    La doccia me la facevo solo io perché tu dicevi di non volerti liberare del mio profumo, dell’odore della mia pelle. Io non usavo profumo, ma un semplice sapone al mughetto che ti faceva impazzire.

    Poi ognuno andava a casa sua. Io vivevo a Spinea con i miei genitori. Tu abitavi a Treviso con tua moglie Martina e con tuo figlio Venerdì. Non sapevi ancora se era maschio o femmina, tua moglie era al sesto mese di gravidanza. Ma tu eri sicuro che fosse maschio e che gli avresti messo nome Venerdì, perché ti doveva salvare, come era accaduto a Robinson Crusoe.

    Tu ti sentivi fragile ma anche invincibile. Non c’era nulla di inviolabile, intoccabile per te. Ti sentivi in grado di fare tutto, di volere tutto come se ti fosse dovuto, come se sapessi che la tua vita sarebbe finita presto e che Dio ti dovesse accontentare ora e subito.

    Percepivamo entrambi un senso di morte tra di noi. Sembravi avere coraggio ma anche tanta paura. Il tuo desiderio continuo di sesso, al limite dello sfinimento non era normale, aveva qualcosa di patologico, di tragico. A volte le mie lacrime, alla fine di un rapporto d’amore, venivano scambiate per dolore e ti premuravi di chiedermi se mi avevi fatto male, se avevo goduto e non capivi perché io piangessi.

    Forse non lo sapevo neppure io il motivo di tanta disperazione, allora mi asciugavo le lacrime, sorridevo

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