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La ragazza dei fiori di loto
La ragazza dei fiori di loto
La ragazza dei fiori di loto
E-book296 pagine4 ore

La ragazza dei fiori di loto

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Info su questo ebook

"La ragazza dei fiori di loto" è un lungo viaggio alla ricerca del senso della vita che ci porta a camminare sul sentiero che attraversa lo sconosciuto mondo dei sentimenti. A tratti sereno come il cielo di un bel giorno di primavera e, a tratti, pieno di ostacoli e difficoltà. Solo la fiducia in noi stessi, l'amore e la fede, come bellissime fiaccole accese, ci indicheranno la strada che conduce in quel meraviglioso posto che tutti noi cerchiamo: "La valle della serenità".
LinguaItaliano
Data di uscita28 ago 2016
ISBN9788898414970
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    La ragazza dei fiori di loto - Luca Imo

    Contemporanea

    Luca Imo

    LA RAGAZZA DEI FIORI DI LOTO

    © La Memoria del Mondo Libreria Editrice

    Via Garibaldi, 51 – Magenta (MI)

    www.lamemoriadelmondo.it

    edizioni@memoriadelmondo.it

    Editing a cura di Alice Gualandris

    ISBN 9788898414970

    Luca Imo

    La ragazza dei fiori di loto

    Introduzione

    Conosco Luca da diversi anni e quello che mi ha sempre colpito, in lui, è la sua profonda sensibilità e quei suoi modi gentili da uomo d’altri tempi.

    Questo è il suo primo romanzo ed i protagonisti di questa dolcissima storia sono un po’ come lui. Sempre alla ricerca di orizzonti lontani che sembrano irraggiungibili. Leali e coraggiosi. Con i loro bagagli di veri valori e con una determinazione ed una costanza inesauribili, s’incammineranno verso un mondo del quale hanno solo sentito parlare, per inseguire i loro sogni. La ragazza dei fiori di loto è un lungo viaggio alla ricerca del senso della vita che ci porta a camminare sul sentiero che attraversa lo sconosciuto mondo dei sentimenti. A tratti sereno come il cielo di un bel giorno di primavera e, a tratti, pieno di ostacoli e difficoltà. Solo la fiducia in noi stessi, l’amore e la fede, come bellissime fiaccole accese, ci indicheranno la strada che conduce in quel meraviglioso posto che tutti noi cerchiamo: La valle della serenità. Un posto da fiaba, una bellissima valle sotto un cielo incredibilmente azzurro, con prati verdi cosparsi di tanti e bellissimi fiori di loto.

    Ivana Spagna

    La ragazza dei fiori di loto

    Era un sentiero lungo e tortuoso quello che attraversava la verde valle tra le montagne rocciose di quell’antico paese sperduto, un piccolo borgo dove il tempo sembrava essersi fermato. Niente e nessuno sarebbe riuscito a cambiare gli usi e costumi di quel popolo, dove i bambini parevano già adulti e dove gli adulti erano già anziani prima del tempo. Di quella strada, che dal villaggio saliva su di un lato scosceso della montagna più alta, non si sapeva molto tranne che del terreno pericolosamente scivoloso lungo il versante brullo e arido. Un tragitto difficile e impegnativo che tuttavia faceva nascere curiosità e voglia di scoperta in tutti coloro che, negli anni, avevano deciso di intraprenderlo, dei quali non era poi più giunta in paese alcuna notizia. Forse al di là di quel monte avevano trovato miglior rifugio o qualcosa di più confortevole e moderno rispetto alla realtà a cui erano abituati: questa era l’ipotesi migliore a cui ci si aggrappava, anche se non se ne aveva alcuna prova. Oppure erano stati divorati da bestie feroci lungo il tragitto: belve che avevano avuto la meglio sui coraggiosi avventurieri, magari sconfitti dalla stanchezza delle infinite ore di cammino, la sofferenza e la fame che solo pochi temerari avrebbero potuto sopportare.

    Era questa l’idea che si era ormai diffusa in paese. E così, da anni, nessuno osava più intraprendere quel viaggio e l’argomento andava scemando dalle labbra della gente. Quasi nessuno si azzardava più ad accennare a quel sentiero, come se fosse peccato anche solo parlarne o come se si potesse mancare di rispetto agli intrepidi che negli anni avevano cercato di percorrerlo. Oppure, ancora peggio, come se non si fosse più voluto spargere notizia alcuna di quelli scellerati e senza testa che avevano deciso di mettere a repentaglio la propria esistenza senza avere certezza alcuna di cosa avrebbe riservato loro il domani. Poiché è così che erano visti dagli anziani del popolo, nessuna notizia che li riguardasse doveva giungere alle nuove generazioni, per non far crescere in loro alcun sentimento di ribellione e di voglia d’evadere da quel villaggio antico e perfetto nei suoi meccanismi, fatto di tradizioni e radici remote che, negli anni, erano state trasmesse di generazione in generazione, così come sarebbe dovuto accadere per sempre.

    Al paese non arrivavano auto o mezzi di trasporto; era possibile raggiungerlo solamente a piedi per un altro versante della montagna, il più ricco di tante varietà di piante e cespugli, dove, a un certo punto, la roccia e la vegetazione si ritraevano per regalare allo sguardo un panorama indescrivibile: il piccolo villaggio, mantenuto in perfette condizioni nel passare degli anni, appariva come un antico borgo medievale, con tante case basse fatte di sassi e pietre grigie. Un senso di pace e tranquillità si respirava percorrendo le stradine strette e ricche di fiori; piante rampicanti ed edere ricoprivano gli archi di mattoni e le travi in legno a vista sparse qua e là, e rendevano ancora più graziose le volte delle finestre e delle vetrate. I balconi in ferro battuto e in pietra calcare erano ricchi di cascate di gerani profumati e viole coloratissime per quasi tutto il periodo dell’anno, ad eccezione del freddo inverno, quando il gelo e la neve facevano da padroni e avevano la meglio su tutta la vegetazione e tutto il villaggio veniva ricoperto da quel magico mantello bianco che trasformava il paese in un luogo incantato, proprio come quelli delle fiabe.

    I giorni si susseguivano tutti uguali in quel piccolo centro, abitato per la maggior parte da persone anziane che solevano sostare nei mesi più caldi, dall’inizio della più mite primavera all’inoltrato e rosso autunno, fuori dagli usci di casa: le donne a cucire e rattoppare i pantaloni dei giovani uomini che lavoravano i campi e i vecchi seduti sulle loro sedie di paglia, più rotte che integre, persi nei loro pensieri, appoggiati a rudimentali bastoni. Si svegliavano, di tanto in tanto, per sgridare e richiamare i pochi bambini che giocavano per le strade a rincorrere qualche gatto o a tirarsi la palla, tenuta come reliquia tra i giocattoli più belli, spesso tramandati da padre in figlio. Questa gente viveva nella povertà, eppure, nei loro occhi e sui loro visi non mancava il sorriso e quella luce di speranza per la gioia del giorno nuovo, la gratificazione di un buon raccolto, il piacere di trovare ogni sera una minestra calda nel piatto, felici di saziarsi con una pagnotta di pane che doveva bastare per tutta la famiglia e perciò da consumare il più lentamente possibile, fino al momento in cui diventava così dura che nemmeno in una tazza di latte si sarebbe riusciti a rammollirla. Ed è proprio in questo posto quasi surreale che inizia la nostra storia; in questo ambiente, tanto caro alle persone avanti negli anni e a quelle più giovani ma molto legate alle tradizioni e certe di poter consumare la propria esistenza in quel piccolo villaggio, prende vita il primo personaggio che dà inizio al nostro racconto…

    1. Spirito d’avventura

    Una fronte alta e spaziosa, su cui cadeva un lungo ciuffo nero e ribelle di capelli lisci e talmente lucidi da riflettere la luce quando il sole ci batteva contro; il viso ovale con un incarnato roseo e perfetto, due belle gote rosse ad enfatizzare gli alti zigomi, le sopracciglia folte ma ben disegnate, scure come la capigliatura, a incorniciare insieme alle lunghe ciglia nere due splendidi occhi di un verde cristallino: furbi, vispi e schietti com’era lui. Questo era Francesco, detto Checco per gli amici, e lui di amici ne aveva davvero parecchi in paese. Il nostro protagonista era un bambino molto intelligente ma con poca voglia di studiare. Dotato di uno spiccato senso pratico, era l’ultimo di sette fratelli, tutti maschi, ed era cresciuto come l’ultima recluta di un plotone militare molto particolare. Non sapete quanto la madre avesse pregato, a tempo debito, affinché il cielo le regalasse la tanto aspettata figlia femmina dopo tanti maschi. Una volta venuto al mondo, però, Francesco non era soltanto l’orgoglio di quell’ormai vecchio signore (poiché quando il bimbo aveva poco più di un anno suo padre stava quasi per compierne cinquanta), ma anche di tutto il paese, poiché di una prole così numerosa nessuno si ricordava. Per ritrovare un numero di fratelli pari ai suoi si doveva risalire ai nonni o bisnonni del papà e della mamma. Anche la madre di Checco era molto orgogliosa di lui, nonostante durante la gravidanza avesse sperato più volte che si trattasse della tanto attesa figlia femmina, sapendo che sarebbe poi stata l’ultima. Seppur colmi d’amore verso i propri figli, i genitori erano capaci di organizzare matrimoni combinati all’interno del villaggio per sollevarsi dal peso di mantenere una persona in più all’interno del nucleo familiare. Le famiglie si conoscevano tutte in paese e cercavano sempre di andare d’accordo, e anche se le liti non mancavano, erano soltanto passeggere e per delle leggerezze: subito tutti erano pronti a riappacificarsi davanti a un buon bicchiere di vino e un pezzo di pagnotta.

    Gli abitanti di quel posto erano poveri ma ricchi di principi, persone che sapevano gioire di quello che avevano e di quello che la terra, il sole e la pioggia sapevano loro offrire. I frutti del loro raccolto ed il bestiame erano indispensabili alla loro sopravvivenza: essi non avevano giorni di ferie o di riposo, se non quando il tempo diventava cattivo e non permetteva loro di lavorare. Ma era un riposo obbligato e angosciante: sapevano che giorni in più di mancato raccolto o di mancata semina o il non poter pascolare le bestie nei campi avrebbero solo causato del male, portando a danni irreparabili che probabilmente non avrebbero toccato soltanto una famiglia.

    La madre di Checco apprese che anche l’ultima sua creatura era di sesso uguale ai suoi fratelli solo al momento della nascita, che avvenne come tutte le altre: in casa e con l’aiuto di alcune donne del villaggio, soprattutto le più anziane che non mancavano di esperienza e di dispensare consigli; anche se, ad eccezione di qualcuna, erano molti di più i rimproveri di queste donne nei confronti delle nuove mamme rispetto all’aiuto effettivo che riuscivano a dare nelle sale parto, allestite per l’occorrenza nelle camere da letto delle partorienti.

    «Un bel maschietto! Un altro maschietto, Anita!»

    Il travaglio era durato quasi tutta la notte; una notte burrascosa, in cui un temporale di fine estate aveva colto la sera prima gli uomini nei campi, tra cui anche il padre del nascituro e i suoi fratelli più grandi, affaccendati ad arare e raccogliere il grano e prendersi cura delle bestie portate al pascolo. Tutta la notte aveva piovuto a dirotto, quando finalmente le nubi si aprirono per dar luce ad una nuova alba. E nel cielo terso e sereno del nuovo giorno il sole splendette su una nuova vita, quella del piccolo Francesco: questo il nome che Anita aveva scelto per il suo ultimo capolavoro. Dopo aver ammortizzato la notizia di un altro maschio all’interno della famiglia, bastò trasformare al maschile il nome Francesca, che la donna aveva scelto per la bellissima figlia mancata. Il nuovo pargolo però non aveva nulla che non potesse evocare il dono della bellezza; ed era più scatenato e, se possibile, ancora più vivace di tutti i suoi fratelli. Gli anni passavano sempre tutti uguali in quella famiglia e i genitori lentamente invecchiavano, logorati dal duro lavoro nei campi. La madre portava il peso non solo delle tante gravidanze, ma anche degli innumerevoli doveri di casa: da brava moglie e madre non faceva mai mancare a tutti i suoi uomini il piatto caldo di minestra la sera e la camicia pulita e stirata nel giorno di festa per recarsi in chiesa.

    Tutti in paese erano molto religiosi e praticanti: a capo di questa comunità c’era un anziano prete, vecchio già quando Anita era bambina, uno di quei personaggi strani a cui è difficile attribuire un’età esatta. Ormai faceva parte del paese come le case, i prati, gli alberi e la piccola chiesa, costruita con rocce e mattoni sulla parte più alta del paese. L’edificio religioso non aveva quasi nulla attorno se non la piccola casa di padre Giovanni, questo il nome del prete. A lui spettava la celebrazione di tutti i matrimoni, i battesimi ma soprattutto i funerali. Il don era sovente invitato a casa dei genitori di Francesco che, fin da piccolo, lo guardava diversamente dai suoi fratelli: alcuni addirittura erano intimoriti da questa figura, che fra tutti gli abitanti del paese godeva di una particolare considerazione. Il nostro piccolo Checco, invece, da sempre lo guardava dritto negli occhi, quasi con aria di sfida; anche crescendo si sarebbe trovato spesso a discutere con lui, gli piaceva parlare apertamente.

    Con le persone non aveva mai messo a tacere la sua anima un po’ ribelle e fuori dagli schemi. In paese era da alcuni ben poco considerato e, peggio ancora, altri credevano fosse un po’ pazzo per via del suo modo di porsi e della sua continua voglia di ricerca e scoperta. Francesco era sensibile alle novità e, negli anni, erano cresciute sempre più la sua sete di sapere e la voglia di conoscere. Non era assolutamente un tipo che sapeva accontentarsi e questo, se da una parte affascinava alcune ragazze, dall’altra gli faceva perdere considerazione e stima tra gli anziani del villaggio. Francesco però era sempre gentile con loro ed attento a non mancar mai di rispetto a nessuno.

    Nonostante fosse cresciuto, Checco aveva conservato la sua anima gentile e la voglia di evasione, di scoperta e di nuovo che da sempre l’avevano contraddistinto, con una particolare inclinazione all’attività fisica. Fin da piccolo adorava infatti giocare con la palla o rincorrere le bestie nei campi o farsi lunghe camminate lungo il letto vuoto del fiume nei periodi di secca. Si era fatto un fisico atletico e scattante da giovanotto, una leggera barbetta incolta spuntava scura su quel viso dolce, in contrasto con gli occhi verde smeraldo che ammaliavano tante ragazze del paese. Lui era, tra i giovanotti, quello più gettonato. Si comportava da vero galantuomo con le donne ed era un ottimo intrattenitore; quando voleva qualcosa sapeva come ottenerla.

    Francesco non aveva mai avuto problemi a relazionarsi, sebbene fosse un tipo caparbio, ostinato e molto ribelle. Pur rimanendo l’orgoglio di papà, divenne nel tempo anche quello di mamma, proprio per la sua prorompente bellezza e la sua infinita bontà d’animo. In lui c’era qualcosa che lo distingueva dai suoi fratelli e la spiccata acutezza ne faceva un uomo fuori dal comune rispetto agli altri ragazzi del villaggio. Tuttavia, nonostante i vari corteggiamenti da parte di diverse fanciulle del paese, non aveva mai ceduto a nessuna in particolare e anzi, anche se ciò non gli fa certo onore, usava spesso le donne solo per il proprio piacere o per divertirsi; e mentre alcuni dei suoi fratelli si erano già sistemati, lui era negli anni rimasto, insieme a soli altri due più giovani, il cucciolo di casa, coccolato e viziato per quanto ne potesse avere la possibilità quell’umile famiglia in un contesto così povero.

    2. La regola d’oro: seguire l’istinto

    Fu proprio attorno al periodo della pre-adolescenza, quando Checco aveva undici o dodici anni. In un bel pomeriggio di mezza estate, il ragazzo aveva già svolto qualche compito che gli era stato assegnato a scuola ed aveva anche portato a termine qualche faccenda in casa per aiutare la madre, anche se di regola i maschi non erano tenuti a prendersi cura della casa. Infatti, anche se non aveva esempi in famiglia, Checco era il primo a rassettare camera sua e a tirar su tavola, nonostante il padre non fosse poi così d’accordo. Lui avrebbe preferito vederlo aiutare i suoi fratelli nel lavoro nei campi, ma si sentiva riprendere da Anita, che gli ricordava che Checco era ancora piccolo ed avrebbe avuto tutto il tempo per dedicarsi alle bestie ed ai campi, com’era consuetudine per gli uomini del suo villaggio.

    Francesco era quindi pronto ad uscire di casa, dopo essersi meritato una bella tazza di latte caldo con un biscotto fatto dalla mamma, che inzuppava facendo molta attenzione a non sporcare troppo in giro e a far finire ogni singola briciola nella sua bocca. Dopodiché salutò la madre con un rapido bacio sulla guancia, rincuorandola nel dirle che non avrebbe fatto tardi. Si attardava infatti molte volte a giocare con gli amici nei campi. Essendo estate era esonerato dall’andare a scuola e quello era l’unico modo per rivedere i suoi compagni.

    Quel pomeriggio c’era però qualcosa di strano nell’aria. Il sole era caldo e alto nel cielo terso di un azzurro infinito. Pochissime nuvolette bianche come zucchero filato facevano da ornamento a quell’incantato paesaggio in fiore, i campi erano immense distese di manto erboso e il giallo del grano, il verde degli alberi secolari, i colori del bosco e sottobosco, si alternavano per regalare un’incantevole cornice ai giochi dei fanciulli. Francesco raggiunse i suoi vecchi amici: Sebastiano, Maurizio e Gabriele, tre ragazzi con fisicità totalmente differenti dal nostro protagonista e anche tra loro stessi, così come erano diverse le loro personalità. Eppure insieme riuscivano a formare una squadra perfetta. Erano infatti gli amici inseparabili, quelli che ognuno di noi nella propria vita vorrebbe avere, quelli che non si ha bisogno di vedere a scuola o al lavoro per sapere che ci sono perché riescono a mantenere costante e viva la loro presenza.

    Checco era legatissimo ad ognuno di loro, ma in particolare al primo, detto Seba. Seba era un ragazzo di ottima famiglia: il padre rimaneva uno dei pochi, forse addirittura l’unico all’interno del villaggio, ad avere un’estesa attività agricola di sua proprietà ed un importante allevamento di mucche da latte. Infatti, mentre quasi tutti, come il padre di Checco, riuscivano a lavorare i loro piccoli appezzamenti di terra, il padre di Sebastiano aveva avuto in eredità dal nonno paterno molti terreni che era riuscito a far fruttare fino a costruire una vera e propria attività imprenditoriale; una realtà piccola se paragonata alle attività imprenditoriali agricole dei nostri tempi, ma molto importante in quel contesto. Nella proprietà dei genitori di Sebastiano spesso era invitato anche Francesco. Lui, così amante della natura e degli animali, adorava perdersi in quella che considerava una reggia ed è a casa di questo suo amico che iniziò a fare i suoi primi passi a cavallo. Questo era un animale che affascinava Checco, una creatura così nobile e fiera, di spiccata eleganza e dal portamento maestoso. Fin da piccolo infatti, Francesco, frequentando assiduamente la casa del suo amico, si ritrovava sovente perso ad ammirare i cavalli che si rincorrevano liberi nei campi e una volta confidò a Sebastiano che, quando sarebbe stato il momento, da grande, avrebbe comprato un bel puledro da suo padre, per farne il suo migliore amico e compagno di grandi e lunghi viaggi.

    La sua voglia di scoperta spesso coglieva di sorpresa anche i suoi compagni, soprattutto i più intimi nominati poco fa, con cui Checco si lasciava andare in confidenze. Mentre all’inizio i suoi amici rimanevano basiti e perplessi dalle confessioni del loro compagno, in seguito, crescendo, non davano più importanza del dovuto ai suoi obiettivi futuri, e capitava che lo lasciassero parlare fino alla fine dei suoi discorsi senza ascoltarlo veramente. Seba però, un ragazzo anche lui dal fisico asciutto e scolpito, ma coi capelli biondi e due grandi occhi nocciola espressivi e sinceri, era sensibile quanto il nostro eroe ed era quello che fin dall’inizio aveva più di tutti gli altri creduto nelle grandi doti dell’amico e da sempre, in cuor suo, sapeva che un giorno o l’altro le loro vite si sarebbero separate. In Francesco vedeva, fin da quando erano bambini, una luce nello sguardo, viva ed energica, quella di una persona caparbia e tenace votata alle sue idee; ed anche se il ragazzo era sicuro che avrebbe cercato in tutti i modi di persuaderlo, sapeva bene in realtà che sarebbe stato tutto inutile. Checco se ne sarebbe andato da quel paese e non vi avrebbe mai fatto ritorno. Di questo era ben consapevole Sebastiano. L’unica speranza era che, nel cuore, entrambi conservassero il ricordo di una bellissima amicizia.

    Maurizio e Gabriele erano invece due fratelli, nati lo stesso giorno: uno dei rari casi di parto gemellare. Avevano però fisicità e personalità completamente diverse. Dopo il caso, che rimase sulla bocca delle persone per molto tempo, anche Anita aveva dato alla luce due gemelli, nati però piccolissimi, tanto che lei non si era accorta della diversità della nuova gravidanza, se non verso la fine del periodo di gestazione, quando il suo ventre esplose, e fu davvero un miracolo che i due fratellini fossero riusciti a salvarsi. Questo fu anche uno dei motivi che spinse la donna, appoggiata dal marito, a perseguire la volontà di avere una bambina, con l’intenzione di fare un regalo alla Madonna. Il neonato, qualora fosse stato femmina, si sarebbe chiamato Maria, in segno di completa devozione alla mamma di Gesù, a cui Anita, a suo tempo, aveva affidato la salute dei suoi gemelli. Ma anche in quell’occasione i desideri dei due genitori non furono ascoltati: nacque il fratello appena più grande di Checco, chiamato poi Mario. I due gemelli erano omozigoti, talmente identici che persino il padre e la madre all’inizio riuscivano a distinguerli a fatica. Ma crescendo, sia per il tono della voce e sia per la diversità di carattere, in famiglia si riusciva a riconoscerli, mentre per i paesani rimanevano identici. Da fanciulli le due pesti amavano scherzare sopra questo fatto e prendevano in giro spesso la gente del villaggio, soprattutto gli anziani.

    Negli amici di Francesco, invece, la differenza era evidente e raramente qualcuno in paese si ricordava del loro legame gemellare, poiché fin da piccoli erano sempre stati completamente diversi e crescendo le differenze si acutizzavano sempre più: il primo era infatti un ragazzotto molto ben messo, un tipo pacioso e tranquillo che adorava mangiare e riposare disteso in un campo o all’ombra di qualche albero; il secondo invece era un tipo molto asciutto, di una magrezza quasi preoccupante, ossuto, con dei grossi occhiali dalle lenti spesse. Adorava leggere e studiare, mentre il primo a fatica riusciva a imparare qualcosa a scuola. Entrambi però andavano molto d’accordo tra di loro, uniti da quel legame unico e particolare tipico dei gemelli. Ma sia Maurizio che Gabriele, pur così opposti nel loro modo di porsi e di comportarsi, godevano di grande stima e amicizia da parte di Francesco. Lui era infatti molto legato a questi tre suoi amici d’infanzia, un rapporto che si protraeva negli anni, rafforzandosi sempre più.

    Il punto di ritrovo concordato per quell’assolato pomeriggio era davanti al sagrato della chiesa, dove Francesco arrivò di corsa, col fiatone e le braghe abbondanti, passate dai fratelli più grandi, e quella camiciola a maniche corte comune a tanti ragazzetti suoi coetanei. Infatti quasi tutti i suoi compagni erano così vestiti. Checco era sempre seguito dal suo fedele ed inseparabile amico a quattro zampe, Geremy, un incrocio di non si sapeva quali razze; un cagnolino di taglia media, alquanto grazioso e simpatico, compagno inseparabile di Francesco fin dai suoi primi anni di vita. Era infatti entrato a far parte di quella famiglia quando il bimbo aveva appena compiuto i tre anni. Era un animale dal temperamento vivace, diventato una figura indispensabile accanto a quella del bambino. Di colore fulvo, il pelo un po’ arruffato, due occhi vispi e limpidi, una simpatica macchia bianca su quel muso dolce e da birba: così era Geremy. Seguiva il suo padroncino ovunque lui andasse e ovunque lo portasse, proprio come un piccolo angelo custode, per tirarlo fuori dai tanti guai in cui si cacciava per via della sua grande vivacità; ma Checco riusciva sempre e comunque a cavarsela. Era molto spericolato quanto fortunato, cucciolo nelle fattezze ma con uno spirito già grande. Mentre i suoi amici avevano solo voglia di giocare e divertirsi, lui prendeva ogni gioco come un’avventura, un sogno ad occhi aperti, pronto sempre a scoprire e a far tesoro di tutto ciò che vedeva e poteva portare nel cuore,

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