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DAL ROSA AL VISO. Una saga familiare dell'Italia risorgimentale
DAL ROSA AL VISO. Una saga familiare dell'Italia risorgimentale
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E-book418 pagine5 ore

DAL ROSA AL VISO. Una saga familiare dell'Italia risorgimentale

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Info su questo ebook

Il romanzo è un'immersione nel passato. È incontro tra la grande e la piccola storia, in particolare tra l'epopea risorgimentale e le vicissitudini di due giovani che un giorno hanno incrociato i loro destini.

Con una prosa chiara, incalzante, cavalcando pensieri ed emozioni, l'autrice regala un sorprendente spaccato di vita dell'Ottocento piemontese, avente come sfondo iniziale la Valle Anzasca ai piedi del Monte Rosa e successivamente la bella e vitale Saluzzo, prospicente il Monviso.

Le pagine traboccano di vita vera, semplice e forte nella sua autenticità e si evince anche la fierezza dell'autrice nel raccontare di personaggi che non sono presi a prestito dalla sua fantasia per sviluppare una storia realistica, ma piuttosto persone realmente esistite, ripercorrendo a ritroso il suo albero genealogico e riportandole in qualche modo in vita attraverso una ricostruzione il più possibile fedele del loro passaggio su questa terra.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mag 2016
ISBN9788895628660
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    Anteprima del libro

    DAL ROSA AL VISO. Una saga familiare dell'Italia risorgimentale - Angela Delgrosso Bellardi

    Valentino

    Ringraziamenti

    Questo romanzo storico non è solo il frutto di una ricerca minuziosa a ritroso nel tempo, durata 5 anni, ma è anche il risultato di una sinergia condivisa con alcune persone che mi hanno incoraggiato e supportato nella realizzazione del progetto.

    – Mia sorella Piera è stata colei che, fin dall’inizio, ha assecondato il mio entusiasmo, rispondendo sempre positivamente alle mie richieste. Per lei non ho solo parole di ringraziamento, ma un’eterna riconoscenza.

    – Un grazie di cuore va alle mie due cugine: a Silvia perché, leggendo per prima il libro completo, ha saputo darmi indicazioni e suggerimenti validi, lodando con obiettività il mio lavoro, a Alda, perché, con la sua straordinaria memoria e lucidità storica, mi ha aiutato a riscoprire avvenimenti, aneddoti ed episodi della nostra famiglia.

    – Non posso lesinare ringraziamenti anche a mio marito Pierluigi, che si è prestato ad accompagnarmi nei miei tuffi nel passato tra le montagne del Monte Rosa.

    – Un profondo riconoscimento va al personale del comune di Calasca che mi ha permesso di accedere agli archivi e soprattutto al parroco Don Andrea, persona dotta nella conoscenza della gente di montagna, che mi ha ricevuto con una grande disponibilità e agevolato nella consultazione dei faldoni parrocchiali.

    – Grazie al Sig. Belli di Calasca che, con i suoi alberi genealogici di tutte le famiglie del luogo, mi ha fatto capire che ci sono persone che si sentono depositarie del passato e fanno di tutto perché la memoria non venga cancellata.

    – Grazie a Ennio, il lontano parente ritrovato, e a sua moglie Liliana, che mi hanno aperto le porte di casa loro come all’amica più cara, consegnandomi fotografie e documenti per proseguire la mia ricerca.

    – E non dimentico don Gisolo, archivista della diocesi di Saluzzo e don Mariano, parroco della Cattedrale e la Signora Graziella, addetta alla sorveglianza della consultazione dell’archivio parrocchiale.

    – Un ringraziamento anche a don Marco, parroco di Verzuolo, che non riusciva a capire che cosa stessi cercando e si angustiava, a Don Aldo ,ex parroco di Villanovetta, che mi ha accolto sempre con il sorriso e tanta benevolenza.

    – Ringrazio la Signora Manuela, delegata all’archivio di Verzuolo, sempre gentile e disponibile e Riccardo, responsabile della Biblioteca Civica di Saluzzo, cortese, solerte e preparato.

    – Inoltre esprimo la mia profonda gratitudine a tutto il personale dell’archivio storico di Saluzzo, in particolare alla dott.ssa Giancarla e alla dott.ssa Roberta, giovane archivista appassionata al suo lavoro, che mi ha seguita con attenzione e curiosità in questa mia avventura di ricercatrice e scrittrice.

    – Infine un sentito grazie a mio cognato Franco, che ha illustrato con sensibilità e dovizia di particolari alcune vicende del romanzo.

    A tutti coloro che posso aver dimenticato i mie piu sinceri ringraziamenti.

    Introduzione

    Il romanzo è un’immersione nel passato. È incontro tra la grande e la piccola storia, in particolare tra l’epopea risorgimentale e le vicissitudini di due giovani che un giorno hanno incrociato i loro destini.

    Con una prosa chiara, incalzante, cavalcando pensieri ed emozioni, l’autrice regala un sorprendente spaccato di vita dell’ottocento piemontese, avente come sfondo iniziale la Valle Anzasca ai piedi del Monte Rosa e successivamente la bella e vitale Saluzzo, prospicente il Monviso.

    La ricchezza di riferimenti socio-storiografici, frutto di una ricerca e di una rielaborazione appassionate, permette una naturale immedesimazione nelle vicende, trattate con attenzione ai risvolti più umani. Le pagine traboccano di vita vera, semplice e forte nella sua autenticità e si evince anche la fierezza dell’autrice nel raccontare di persone che non le sono estranee.

    Infatti i personaggi del romanzo non sono di invenzione, presi a prestito dalla sua fantasia per sviluppare una storia realistica, ma piuttosto persone realmente esistite, ripercorrendo a ritroso il suo albero genealogico e riportandole in qualche modo in vita attraverso una ricostruzione il più possibile fedele del loro passaggio su questa terra.

    Se Cavour, Pellico, Carlo Alberto, Garibaldi hanno fatto la grande storia da tutti conosciuta, Maria Isolana e Pietro Delgrosso, i figli Giacomo, Giuseppe, Angelo, Anna Maria, Michele, Bartolomeo, Domenica hanno fatto anch’essi la loro storia; per se stessi, innanzitutto, ma anche per coloro che sono venuti dopo di loro.

    Per l’autrice è un ritorno alle origini e nella bontà di questa operazione sta la forza della trasmissione di valori che vanno ben oltre l’interesse personale.

    Questo romanzo parla a chi ama interrogare il passato non con rimpianto o nostalgia, ma con la consapevolezza che quello che è stato vive nel presente, che il proprio essere è radicato in un passato che a volte si dimentica e più spesso non si conosce.

    L’autrice ha voluto per sè che questo non fosse.

    Silvia Balbis

    Cap. I. Fantasticava con le illusioni e le speranze della sua giovane età

    CAPITOLO I

    L’alpeggio

    Maria era raggiante ed eccitata. Pensava con trepidazione alla tanto attesa festa della ormai prossima domenica e fantasticava con le illusioni e le speranze della sua giovane età. Il suo viso aveva una dolcezza infantile, espressa da occhi luminosi e verdi come i prati dei suoi pascoli. Le labbra sottili ma ben delineate erano tese ad un sorriso leggero che sembrava scaturire dai pensieri in cui si stava cullando.

    Un paesaggio alpino, degno di essere immortalato, l’avvolgeva ma lei lo ignorava, assorta come era nei suoi sogni. Alla sua sinistra la splendida catena del Monte Rosa, ammantata sulle cime più elevate dalle nevi perenni, rifletteva la luce del mattino in sfumature di colori tenui e brillanti. Tutt’intorno si ergevano creste e vette dalle forme più diverse con corsi d’acqua che precipitavano a fondo valle in salti e cascate che si rincorrevano con forte scrosciare e zampilli luminosi, fino a riversarsi nel torrente Anza che, gonfio e impetuoso, sembrava aver fretta di raggiungere la pianura per portarvi gli echi delle antiche genti Walser.

    Abbarbicato sul pendio di fronte, in posizione soleggiata, si estendeva circondato dal verde dei boschi di faggi e da pittoresche radure la piccola frazione di Vigino, che insieme ad altre andava a formare la comunità di Calasca. Si intravedevano le baite strette tra di loro come a cercar soccorso e rifugio: tutte rigorosamente in pietra e legno, coperte dalle classiche lastre di beola, le piode. In mezzo ai tetti di quel minuscolo aggregato trovava spazio la chiesa di S.Maria e S. Anna, più nota come Oratorio di Vigino. In quel fazzoletto di paesino viveva la famiglia di Maria. Il padre Giacomo Isolana, nel 1809, aveva abbandonato il suo paese di origine Sambughetto, nella valle Strona, una valle attigua alla valle Anzasca, e ivi si era stabilito. Aveva messo su una famiglia numerosa, come la maggior parte delle altre, e aveva cercato con umiltà e operosità di attendere ai suoi doveri di sposo e di padre.

    Il lavoro in montagna era duro, costringeva a sforzi e sacrifici inauditi. Lavoro dall’alba al tramonto e, quando si faceva buio, ci si riuniva intorno al focolare per consumare, su sgabelli o panche, con la ciotola di legno tra le mani, quel poco di cibo che, nei periodi di carestia, poteva ridursi anche ai semi delle ghiande dei faggi. Tutto aveva un costo in termini di fatica e sudore. Fare figli, invece, non era dispendioso e se si aveva la fortuna di riuscire a crescerli erano braccia in più per il lavoro. Che fossero femmine o maschi non aveva importanza, perché anche le donne erano abituate fin da piccole ad affrontare disagi e lavori manuali faticosi quanto gli uomini.

    Erano momenti difficili per la povera gente di montagna che aveva pagato con la carestia e la mancanza di lavoro i gravi sconvolgimenti dell’epoca napoleonica. Quelle terre non avevano solo assistito nei secoli a passaggi di popolazioni diverse, ma avevano subito dominazioni straniere che avevano attinto alle risorse locali con la cupidigia e la violenza di chi approfitta del proprio potere.

    I calaschesi conservavano ancora la memoria della dominazione spagnola di due secoli prima nella rappresentazione storica della milizia tradizionale che, dal 1641, aveva luogo ogni anno, in agosto, con grande partecipazione generale.

    Ora, nel 1837, le condizioni di vita per questi discendenti degli antichi Celti non erano migliorate e tutto continuava con i ritmi faticosi di sempre, di generazione in generazione.

    Maria, seduta su una roccia, con lo sguardo perso nel vuoto, il lavoro a maglia abbandonato sull’erba, ignorando il mondo al di là dei suoi monti, continuava a fantasticare. Le vacche brucavano placidamente l’erba fresca al suono dei loro campanacci, mentre le caprette più giovani saltellavano e il cane pastore si affannava a riportare le più indisciplinate entro il confine del pascolo.

    «Mariaa!» una voce giovane e squillante venne a ridestarla dai suoi sogni innocenti. Si voltò di scatto proteggendosi gli occhi con la mano sinistra dalla luce abbagliante del sole da cui avanzava, correndo, una esile figura. Agitò l’altra in segno di saluto e attese di essere raggiunta.

    «Bartolomeo, cosa succede? Come mai qui?» esclamò Maria con una certa improvvisa apprensione.

    «La mamma vuole che tu vada da lei perché non si sente bene! Baderò io alla mandria, ma tu affrettati a correre verso casa!» rispose suo fratello con il respiro affannoso e i capelli sudati che gli incorniciavano, con buffi riccioli castano chiaro, la fronte madida.

    Maria raccolse velocemente il suo lavoro a maglia inserendolo nella grande tasca del suo grembiule e, senza aggiungere altro, si precipitò correndo verso il gruppo di baite arroccate su un dirupo che si affacciava su larghe distese di pascoli. Nella sua mente, sparite le leggiadre fantasticherie di poc’anzi, si accavallavano come in un mare impetuoso pensieri cupi e tutto il suo essere era percorso da incontrollabili paure.

    Finalmente giunse, sfinita, sulla soglia della piccola baita che, nei mesi estivi, serviva da rifugio alla famiglia che vi si trasferiva per il periodo dedicato al lavoro negli alpeggi. Aprì con delicatezza la porta socchiusa e cercò rapidamente con lo sguardo sua madre.

    Nella piccola stanza quasi quadrata, rischiarata solo in parte dai raggi del sole che penetravano da una minuscola finestra, tutto appariva in ordine: su un piccolo tavolo di rovere una forma di formaggio non più intatta, avvolta in un canovaccio ormai liso, un tagliere con del pane nero e il resto di una spianata di polenta rivelavano inequivocabilmente il genere di sostentamento della famiglia. Una vecchia madia stava appoggiata su una parete mentre, addossato ad un’altra, in posizione centrale, c’era il focolare acceso, con un pentolone di acqua che, giunta all’ebollizione, gorgogliava schizzando spruzzi che finivano sul fuoco con piccoli crepitii. Sopra un sacco di iuta, con un giochino rudimentale di legno tra le morbide e paffute manine, era seduto un bambino che, alla vista di Maria, protese verso di lei le piccole braccia e singhiozzando invocava la mamma.

    «Giacomino, cosa c’è? Su non piangere!» e così dicendo Maria lo sollevò da terra e lo consolò baciandolo e stringendolo al petto. Poi, dopo averlo calmato e distratto trastullandolo, prese dal tavolo un tozzo di pane, glielo mise nelle mani e lo risistemò seduto sul sacco. Quindi salì la scaletta a pioli che conduceva al piccolo fienile e qui trovò sua madre che, con il volto terreo e i capelli bagnati di sudore, cercava ansimando di far fronte ai dolori lancinanti che ormai non le davano tregua. Quando vide Maria, il suo sguardo si illuminò e per un attimo il suo viso assunse contorni più rilassati e meno sofferenti.

    «Oh, Maria, sei arrivata! Il bambino sta per nascere, le doglie mi hanno colto all’improvviso e ho già rotto le acque! Devi farti forza e aiutarmi. Prendi una ciotola grande di acqua calda, le pezze di tela pulite, una coperta e un coltello affilato che passerai sul fuoco del camino...»

    Le ultime parole le morirono in gola strozzate da un lamento che seguiva una fitta di dolore intenso che sembrava squarciarle il pube. Maria si precipitò ad eseguire gli ordini della madre e in un batter d’occhio fu nuovamente accanto a lei. Le sollevò la testa e le asciugò con garbo il volto e la fronte. Tutto il corpo della donna era teso in uno sforzo sovrumano, gli occhi arrossati lacrimavano e le guance cambiavano continuamente colore, la bocca si contorceva in smorfie che rendevano estranea la fisionomia.

    «Maria, ci siamo, aiuta il bambino ad uscire, prendi delicatamente la testolina, che vedrai spuntare, con una mano e con l’altra sorreggi il corpicino accompagnando con delicatezza la sua espulsione, poi taglia il cordone.»

    Maria si apprestò a eseguire scrupolosamente le indicazioni di Carolina, la quarta moglie di suo padre.

    Lei, Maria, faceva parte di una famiglia numerosa. Suo padre Giacomo si era sposato quattro volte. Dal primo matrimonio con la compaesana Margherita Vittoni era nata Domenica, ora già maritata. Dalla seconda moglie Rosa Carolina Labrini erano nati Caterina, anche lei ormai sposata e un maschio vissuto solo tre giorni. La terza moglie, Rosalia Francini, gli aveva dato cinque figli: Maria, che aveva 20 anni, Giovanni Battista di 18 anni, due gemelli, Bartolomeo e Maria Rosa di 15 anni e un altro figlio vissuto poche ore.

    La prima moglie era morta accidentalmente colpita da un fulmine, mentre con la falcetta in mano stava tagliando il fieno. La seconda moglie, Rosa Carolina Labrini, era scomparsa a causa di complicazioni dovute al secondo parto. La terza moglie, la madre di Maria, era morta improvvisamente di morbo virale. Questo nuovo lutto aveva gettato Giacomo e i suoi figli nella costernazione più profonda, ma il ritmo di lavoro e le faccende erano andati avanti con ostinazione e con la caparbietà tipica di quella gente che non conosceva limiti e pause. Poi Giacomo si era accasato con Carolina, una donna giovane, premurosa e instancabile, che non solo si era presa cura di tutti i figli del suo sposo ma, dopo poco tempo, aveva partorito il piccolo Giacomo e ora stava per mettere alla luce un altro pargoletto.

    Come vide spuntare la testolina Maria, facendosi coraggio, la prese con le mani, mentre Carolina, raccolte le ultime forze, si sforzò di accompagnare in modo controllato le spinte. Fu un attimo: il corpicino scivolò fuori all’improvviso attorcigliato al suo cordone. Era viscido e intriso di sangue, sembrava privo di vita. Maria si apprestò a tagliare il cordone ombelicale, poi rimase per un attimo attonita e spaventata.

    «Maria, prendilo per i piedini e mettilo a testa in giù, veloce, dai, sculaccialo, forza, cerca di farlo piangere!»

    Maria eseguì tutto alla lettera, mentre il suo cuore batteva all’impazzata per la tensione, poi finalmente si udì un debole vagito che, nel giro di pochi secondi, si rafforzò, trasformandosi in un pianto forte e continuo. «È una bambina» riuscì finalmente a dire Maria e Carolina si illuminò tutta allungando le mani verso la sua creatura. Maria lavò la neonata delicatamente con una pezzuola e, dopo averla avvolta nella coperta, la adagiò sul petto della madre che, stringendosela, la baciava e sorrideva con le lacrime agli occhi.

    «Guarda, Maria, come è bella la mia piccola Pasqualina, assomiglia molto a suo fratello Giacomino, non credi?»

    «Sì Carolina, hai ragione, ma assomiglia anche a te. Come muove la boccuccia, sembra che cerchi qualcosa, forse avrà già fame!»

    «Ma dovrà aspettare la montata del mio latte e riprendersi bene dal trauma della nascita.»

    Maria allora prese la piccola e la depose delicatamente tra il fieno accanto alla madre che dava segni di stanchezza. Poi scese in cucina per prendersi cura del piccolo Giacomino che, nel frattempo, si era addormentato con la testa ciondolante, lasciando cadere a terra dalla manina semiaperta il tozzo di pane che non aveva terminato di mangiare. Maria lo distese su un fianco e lo coprì con uno scialle abbandonato su una panchetta accanto al camino.

    Consumò velocemente il suo pasto, un po’ di pane nero e formaggio fresco, e infine rassettò la stanza. I raggi del sole stavano abbandonando la minuscola finestra e nel lasso di pochi minuti la stanza piombò in una penombra illuminata solo dal bagliore delle fiamme del camino. Maria che, come tutti i montanari, basava i ritmi giornalieri sulla posizione del sole, capì che erano passate alcune ore e che bisognava recuperare tempo per terminare, prima dell’imbrunire, i lavori quotidiani che le incombevano. Udì in lontananza lo scampanellio della mandria che stava tornando dal pascolo, guidata da suo fratello Bartolomeo. Si affrettò ad aprire le stalle e, nell’attesa, andò ad attingere con due secchielli di legno l’acqua al ruscello vicino. Quindi si recò nel piccolo recinto dove le galline, starnazzando, le si fecero incontro per avere un po’ di pasto. Subito dopo cercò nel pollaio qualche uovo deposto di fresco, che mise nel suo grembiule, riunendo i lembi estremi per trasformarlo in un comodo paniere.

    Finalmente arrivò Bartolomeo che, aiutato dal cane, riuscì a far entrare nella stalla le mucche e le caprette. Appena fuori dalla stalla si avvicinò a Maria.

    «Come sta Carolina? Sei riuscita ad aiutarla?»

    «Sta bene, stai tranquillo. Ha avuto una bella bambina, Pasqualina. Ora riposa perché il parto è stato faticoso.»

    Poi sospirando aggiunse: «Speriamo che il babbo arrivi presto con le provviste e qualche coperta in più per la piccola Pasqualina. Dai entra in casa, vieni a vedere la tua sorellina.»

    Insieme si diressero verso la baita e appena entrati sentirono la bimba piangere e Carolina che cercava con voce fioca e stanca di consolarla.

    «Mamma Carolina come stai?» chiese Bartolomeo mentre saliva la scaletta a pioli. Affacciatosi al fienile vide la madre, con il viso ancora provato, che stringeva al petto felice la sua creatura.

    «Oh! Bartolomeo sei tu, guarda che bella sorellina che hai! Si chiama Pasqualina, la dobbiamo battezzare subito come si conviene fare quando si ha la sorte di nascere negli alpeggi.»

    Dietro a Bartolomeo salì anche Maria con il piccolo Giacomino in braccio.

    «Vieni Giacomino, dai un bacio alla tua sorellina. Ora avrai una compagna per giocare. Dovrai insegnarle tante cose e volerle bene.»

    E così dicendo Carolina distese il braccio libero per abbracciare anche Giacomino, che guardava quella nuova creatura con un certo imbarazzo e stupore. Poi il piccolo si protese per toccare quell’esserino che muoveva il viso e la boccuccia alla ricerca di qualcosa. Carolina gli prese la manina e trasformò quel suo tocco in una lieve carezza che lo rese contento.

    «Dai, Bartolomeo, dobbiamo scendere a mungere le mucche e a preparare il burro» disse Maria.

    «No, rimani accanto alla mamma, oggi farò tutto da solo, vorrà dire che, se non ce la farò prima che faccia buio, lavorerò alla luce del lume.»

    Quindi salutò Carolina, baciò la piccola Pasqualina e, ridiscesa la scala a pioli, si avviò verso le stalle.

    Quella sera, quando Maria, terminati i lavori, si coricò sfinita per la tensione della giornata sul giaciglio di paglia del fienile. Prima che il sonno la cogliesse, si rifugiò con la mente per un po’ nei piacevoli pensieri che aveva dovuto accantonare quando suo fratello era venuto a cercarla. Ora li richiamava, provando dolcezza e una segreta felicità. Poi, stanca, sprofondò nei suoi sogni.

    Il canto del gallo la svegliò annunciando l’alba. Un nuovo giorno, ritmato dalle molteplici faccende e lavori da sbrigare, la riportò alla realtà. Si mise a sedere ancora un po’ assonnata, posò lo sguardo su Carolina che dormiva con la piccola Pasqualina che riposava sul suo seno scoperto e su Giacomino che era rannicchiato vicino a Bartolomeo, anche lui ancora addormentato. Il gallo cantò una seconda volta e Bartolomeo si destò stropicciandosi gli occhi che sembravano non volersi aprire. Maria e suo fratello si scambiarono una significativa occhiata, quasi una specie di reciproco invito e incoraggiamento a iniziare la dura giornata.

    Come gatti silenziosi scesero dal fienile e si avviarono al ruscello dove si sciacquarono il viso, giocando a spruzzarsi a vicenda come dei ragazzini. Poi raggiunsero le stalle e, presi i rustici sgabelli, iniziarono la mungitura delle mucche. Il latte in parte veniva versato in appositi contenitori che venivano trasportati a valle e in parte veniva trasformato, con procedimenti pazienti e ripetitivi, in gustosi formaggi d’alpeggio. Erano questi i formaggi più ambiti e buoni perché provenienti da latte derivato dal pasto delle gustose e tenere erbe di alta montagna. Tutta la fragranza e il profumo dei prati si ritrovava nelle forme accuratamente prodotte e messe a stagionare, con sapiente oculatezza, dalla gente di montagna.

    Quel giorno Bartolomeo si recò al pascolo al posto di Maria, perché lei potesse stare accanto alla madre ancora stanca e spossata dal parto e dedicarsi ai lavori che di solito svolgeva mamma Carolina.

    Maria sbrigò tutte le faccende con quella dedizione e puntigliosità che le erano consone e, tra un lavoro e l’altro, non risparmiava di accudire il piccolo Giacomino che, a passi incerti, con i piedini avvolti negli scuflù, le tipiche scarpe di canapa e lana della gente della vallata, la seguiva come un cagnolino fedele cercando di articolare parole e frasi poco comprensibili ma che Maria riusciva a interpretare rispondendogli con pazienza e dolcezza.

    «Su Giacumin, ven, andiamo a dar da mangiare alle galline e ai coniglietti, poi mungiamo la capretta, la Bianchina, e ti farò una bella zuppa di latte con il pane. Forza, sbrigati, attento a non inciampare e a non scivolare nel liquame dei maialini, quando ci passeremo vicino.» Giacomino, a quelle sollecitazioni, rispose aggrappandosi al grembiule di Maria e facendosi trascinare le venne dietro.

    CAPITOLO II

    La richiesta

    Più tardi, rientrati in casa, mentre Giacomino si sedeva sul suo sacco di iuta accanto al caminetto afferrando il suo giochino di legno, Maria preparò la polenta, con la quale poi fece delle gustose palline con all’interno del formaggio che mise ad arrostire su una grata sul fuoco.

    «Guarda, Giacomino, che buon pasto che sto preparando per domani al babbo e ai nostri fratelli.»

    E poi pensava: «Speriamo che tornino stasera e che il babbo sia riuscito a vendere tutto e a procurare abbastanza provviste.»

    «Maria, per favore, puoi venire un attimo su?»

    Era la voce di Carolina che la chiamava. Maria salì immediatamente. «Di cosa avete bisogno mamma Carolina?» si affrettò a chiedere.

    «Credo che stasera arriverà tuo padre con tuo fratello Giovanni. Non voglio che mi trovi così mal ridotta, vorrei rinfrescarmi e darmi un’aggiustata. Portami dell’acqua fresca per ravvivarmi il viso e aiutami a rifare la treccia e a puntarla bene sulla nuca, poi prendimi una camicia pulita e l’altro vestito. Devo togliermi questi indumenti che sono sporchi e hanno un odore sgradevole. Va bene essere povera gente ma ciò non vuol dire che dobbiamo trascurare la nostra persona.»

    Maria si prodigò affinché Carolina riprendesse un aspetto piacevole e, mentre le lisciava i lunghi capelli nell’intento di rifare la treccia, le chiese con una certa ritrosia e timidezza: «Mamma Carolina, pensate che domenica prossima il babbo mi permetterà di andare alla festa di San Valentino? Mi piacerebbe tanto poter assistere alla sfilata della milizia e alla processione solenne. E poi sarebbe un’occasione per rivedere le mie sorelle Caterina e Domenica e Maria Rosa e stare anche un po’ con loro. Da quando Caterina e Domenica si sono sposate le vedo sempre più raramente e sento la loro mancanza.»

    «Cara Maria, lo sai che, anche se non sono la tua mamma, ti voglio molto bene, perché sei una ragazza buona e laboriosa, ma conosci tuo padre: la vita difficile e sfortunata lo ha reso rigido, chiuso, sospettoso. È un grande lavoratore, tutto preso per garantirvi un’esistenza più felice e sicura della sua. Purtroppo, però, ha le sue idee e soprattutto per voi figlie nutre una specie di gelosia quasi morbosa. Ora che sei in età da marito, a maggior ragione, ti sorveglia e non vuole accasarti col primo che capita, per cui credo che bisognerà che tu stessa gli chieda di essere accompagnata dai tuoi fratelli.»

    Maria ebbe un fremito di tristezza e senza aggiungere altro terminò di appuntare la treccia di Carolina.

    Poi Carolina, aiutata a sorreggersi, scese nella piccola cucina dove fu accolta a braccia aperte da Giacomino che, abbandonato il suo gioco, le corse incontro riempiendole il viso di baci.

    Carolina si sedette su una sedia che, data la sua rusticità, sembrava dar segni di cedimento ma che in realtà era solida e costruita di buon legno di faggio. Appoggiò un gomito sul tavolo accanto e inclinò la testa stanca sulla mano dicendo: «Maria, ti capisco. Hai 20 anni. L’età giusta per incontrare un compagno e cominciare a pensare a mettere su famiglia. Purtroppo il lavoro intenso e le lunghe transumanze non ti permettono di frequentare coetanei tra i quali potresti trovare il tuo futuro marito. Le feste sono le uniche occasioni in cui si possono incontrare giovani e iniziare delle amicizie che potrebbero dare i loro frutti. Cercherò di parlare a tuo padre e di convincerlo a lasciarti andare alla festa di San Valentino. Ma tu, giù in paese, hai già incontrato qualche giovanotto che ti piace o potrebbe piacerti?»

    Maria si fece rossa in volto, la sua timidezza aveva preso il sopravvento. Girò il viso dalla parte opposta e cercando un’occupazione rispose balbettando: «No, no, cosa mai mi chiedete mamma Carolina. Io non ho mai guardato i ragazzi. Non voglio che si pensi male di me.» Ma nella sua mente si diceva: «Sono innamorata di Pietro fin da piccola, ma data la differenza di età, lui non mi ha mai guardata. Ora che ho vent’anni e in età da marito forse potrei attirare un po’ la sua attenzione: domenica sarebbe l’occasione giusta. Chissà se fa parte della milizia? Me lo immagino con la divisa, come un principe.»

    «Ma possibile che nessun giovanotto del paese ti piaccia?» riprese Carolina, «Eppure ce ne sono abbastanza e alcuni sono ottimi lavoratori o fanno mestieri che, per alcuni mesi, vanno a svolgere in luoghi lontani da qui per poi tornare con buoni risparmi.»

    Maria rimase per un momento titubante e perplessa poi, avvicinandosi a Carolina, le prese la mano e con gli occhi bassi e un certo timore disse: «Carolina, perdonate se prima vi ho mentito, ma avevo vergogna di confessarvi che sono innamorata da tanto tempo di un ragazzo più vecchio di me. Fin da bambina provavo per lui una specie di adorazione e non sono mai riuscita a togliermelo dal cuore. Ora che sono cresciuta comincio a sperare di non passargli più inosservata, di potergli parlare da persona adulta e di attirare un po’ la sua attenzione. Queste speranze procurano una certa gioia al mio animo e rendono le fatiche del lavoro più sopportabili.» «Ma chi è questo giovanotto che ti ha colpito così profondamente?» «È... è Pietro, Pietro Delgrosso, il figlio di Giacomo e di Domenica Scalione.»

    Carolina rimase un po’ sbalordita ma ripresasi disse: «Ma Maria, Pietro ha almeno 12 anni più di te e la sua famiglia è di Vigino da almeno 200 anni, hanno terreni, sono lattoniere di professione e si spostano sovente in città e in paesi fuori della vallata, per andare a esercitare i loro mestieri dove c’è richiesta. Non credo che vorrà per moglie una Isolana, la cui famiglia si è stabilita a Vigino da poco tempo dalla Val Strona per sfuggire alla povertà e trovare campi e pascoli più ricchi e generosi. Tuo padre ha persino dovuto pagare, nel giugno del 1813, 46 lire per essere accettato nel comune di Calasca. Siamo visti un po’ come degli immigrati poveri e non ancora bene amalgamati alle famiglie del posto.»

    «Lo so, mamma Carolina, ma non riesco a togliermelo dal cuore e se mi devo sposare sarà con lui, altrimenti preferisco rimanere sola.» «Su, non dire così, vedrai che incontrerai presto un bravo giuanot che ti farà dimenticare Pietro. Forse anche domenica prossima, se riuscirò a convincere tuo padre.»

    Mentre la conversazione delle due donne continuava confidenzialmente e con una certa apprensione da parte di entrambe si udì un richiamo che spinse Maria a uscire dalla baita e a guardare verso il sentiero che saliva all’alpeggio, facendosi scudo con la mano contro il sole che si abbassava sull’orizzonte illuminando di una luce radente i pendii dei monti. «È papà che sta salendo col suo carico» esclamò Maria rivolta verso la baita perché Carolina la udisse, «vado ad aiutarlo, sarà stanco.»

    Prese una borraccia d’acqua e si precipitò incontro al padre. Giacomo procedeva con passo cadenzato con una grossa gerla sulle spalle piena di quelle provviste che in alpeggio mancavano o scarseggiavano. Maria, agile come un capriolo inseguito, sembrava volare lungo il pendio verso il sentiero. Quando raggiunse Giacomo lo aiutò a togliersi la gerla, gli porse la borraccia e poi lo abbracciò. «Padre, state bene? Siete riuscito a vendere i nostri prodotti? Come sono contenta che siate arrivato. Carolina ha partorito una bambina. Stanno bene. Vi stavamo aspettando con ansia. Ma Giovanni Battista, perché non è con Voi?»

    Preso d’assalto da tutte queste domande che gli cadevano addosso come un secchio d’acqua Giacomo rispose: «Piano, piano, figlia mia, lasciami riprendere fiato e forza. La salita è dura e la gerla altrettanto. Tuo fratello è rimasto a valle perché è stato preso nella milizia e deve prepararsi per la festa

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