Muori cornuto. Giuseppe Zangara l'uomo che tentò di uccidere il presidente Roosevelt
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Rimasto orfano a soli due anni perché la madre muore di parto, Giuseppe è costretto sin da bambino a lasciare la scuola e a lavorare nei campi. Il padre, che più tardi si risposerà, lo tratta come uno schiavo non mostrandogli mai affetto e benevolenza. Zangara, accudito dalla nonna materna, sarà chiamato a combattere sul fronte del Carso durante il primo conflitto mondiale e, dopo essere rientrato sano e salvo nella terra di origine, a 21 anni sarà richiamato sotto le armi per prestare il servizio militare. Compiu-to il periodo di leva, deciderà di emigrare negli Stati Uniti, dove già era sbarcato uno zio materno, Vincen-zo, prendendo dimora a Paterson, nel New Jersey. Obbligato, dunque, come milioni di altri calabresi a cercar fortuna all’estero, Giuseppe non riuscirà tuttavia nell’intento.
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Anteprima del libro
Muori cornuto. Giuseppe Zangara l'uomo che tentò di uccidere il presidente Roosevelt - Arcangelo Badolati
a.b.
Muori cornuto
Il racconto del calabrese che tentò di uccidere
il presidente Franklin Delano Roosevelt
Introduzione
Questo libro racconta in forma letteraria e teatrale la storia di Giuseppe Zangara, nato a Ferruzzano, in provincia di Reggio Calabria, nel 1900, all’interno di una famiglia che viveva in un’area molto povera del nostro Paese.
Rimasto orfano a soli due anni perché la madre muore di parto, Giuseppe è costretto sin da bambino a lasciare la scuola e a lavorare nei campi. Il padre, che più tardi si risposerà, lo tratta come uno schiavo non mostrandogli mai affetto e benevolenza.
Zangara, accudito dalla nonna materna, sarà chiamato a combattere sul fronte del Carso durante il primo conflitto mondiale e, dopo essere rientrato sano e salvo nella terra di origine, a 21 anni sarà richiamato sotto le armi per prestare il servizio militare. Compiuto il periodo di leva, deciderà di emigrare negli Stati Uniti, dove già era sbarcato uno zio materno, Vincenzo, prendendo dimora a Paterson, nel New Jersey. Obbligato, dunque, come milioni di altri calabresi a cercar fortuna all’estero, Giuseppe non riuscirà tuttavia nell’intento.
La condizione di sostanziale infelicità che lo accompagnerà lungo il corso di tutta l’esistenza, lo convincerà perciò che il mondo è dominato solo dai ricchi e dai capitalisti, pronti ad approfittare della gente povera e sfortunata. Per questa ragione deciderà di assassinare il Presidente degli Stati Uniti, Franklyn Delano Roosevelt, massimo rappresentante, a suo avviso, del capitalismo mondiale. Nell’attentato teso a Miami all’uomo politico, sbaglierà però bersaglio ferendo il sindaco di Chicago, Anton Cermak, che in seguito morirà. La circostanza farà finire Giuseppe Zangara sulla sedia elettrica. Il calabrese verrà giustiziato nella prigione di Raiford nel 1933. Pure nel momento della esecuzione, quest’uomo mostrerà una dignità e un coraggio senza eguali denunciando pubblicamente le ingiustizie subite nel corso della vita; egli spirerà inneggiando a tutti i poveri del mondo.
La sua vicenda è ricostruita in questo volume sulla base del diario che il condannato scrisse nei giorni di detenzione. Nel racconto sia letterario che teatrale vi sono elementi di fantasia e personaggi che arricchiscono le vicende di colore e di sfumature. Nel testo teatrale, per esempio, per esigenze sceniche compare un altro detenuto, compagno di cella di Zangara, che è frutto della creatività degli autori.
L’intento della pubblicazione è di far conoscere la figura di questo ribelle
che interpreta il disagio profondo di milioni di persone che, nel secolo scorso, hanno subito soprusi e ingiustizie sociali. Per molto tempo, infatti, nell’ambito di contesti statuali diversi, le speranze di riscatto coltivate dalle popolazioni non hanno mai trovato concreto sbocco.
Il Paese
Un pugno di case aggrappate alla colline guarda al mar Ionio luminoso e profondo. È un mare antico, solcato prima dai fenici e poi dai greci, raccontato da Omero e immaginato da Virgilio. La costa, invece, arsa dal sole e abbeverata da torrenti e fiumare secchi d’estate e gonfi d’inverno, è un impasto di colori cangianti. Al verde broccato della primavera s’oppongono il biondo bruciato d’agosto e il marron-grigio di cui si vestono l’autunno e l’inverno. Ferruzzano vive di agricoltura e pastorizia, sorge lontano dalle città più grandi e conserva il fascino segreto della comunità piccole e isolate. È un paese abitato da contadini e allevatori che si contendono pugni di terra da cui trarre profitto. Le abitazioni, costruite impastando il terreno argilloso, la calce povera e le pietre sottratte alle armacie crollate sotto l’imperversare delle piogge, vengono riscaldate da consunti e anneriti bracieri. È intorno a queste tazze di ferro o di bronzo che le donne asciugano gli indumenti e recitano il Rosario all’alba e al vespro.
Il vento batte scostante e furioso nei giorni di burrasca contro le pareti di case e ricoveri, facendo tremare le imposte di legno. Porte e finestre vengono tenute faticosamente bloccate da assi di tavola incastrate nei muri. Il vento, nei giorni di tempesta, s’insinua fischiando tra tegole e infissi provocando un suono somigliante all’ululato di cani infernali. Sembra un terremoto. Le donne e i bambini dormono abbracciati come in attesa della fine del mondo, mentre gli uomini s’adoperano, senza chiudere occhio, a tappare frettolosamente le feritoie aperte dalle raffiche impetuose. È una lotta spaventosa che può andare avanti per ore, una sfida che la Natura muove agli uomini per saggiarne la forza e la resistenza.
Lo stesso vento, d’estate, diventa invece brezza salutare offrendo disinteressato ristoro al cospetto del sole cocente che brucia l’erba dei pascoli, rinsecchisce le siepi e rende l’aria tanto calda da farla sembrare irrespirabile. Serpi e lucertole si contendono l’ombra dei sassi, mentre calabroni di diversa misura volano da un rovo all’altro con le cicale che urlano dagli alberi il loro monotono verso fino al tramonto.
La vita, in ogni stagione, è tremenda fatica per chi coltiva la terra o bada alle greggi: il lavoro comincia all’alba e finisce al crepuscolo. Le donne badano alla casa, corrono alla fiumara a lavare gli indumenti, prelevano l’acqua potabile alle fonti trasportandola, con uno straordinario esercizio di equilibrio, dentro anfore rette sulla testa.
La cucina è fatta di poche cose semplici: le zuppe di minestra selvatica, i fagiolini scaldati nell’acqua bollente, il formaggio di latte di pecora, il pane cotto tre volte a settimana nell’unico forno gestito da un’anziana vedova e dalla figlia zitella, il latte munto ogni giorno dalle capre, le melanzane sott’olio ed i pomodori secchi preparati ogni anno per tutta la stagione.
E la carne? Quella mai, o quasi. Una volta al mese, se va bene, altrimenti solo quando ci sono i soldi per pagarla. Poi c’è il vino, che ha il colore rosso cupo delle pupille delle donne malate d’amore e il profumo del vigneto squassato dal vento sulle balze marine. Così si vive a Ferruzzano, con poche cose e senza speranza. I maschi in salute perciò partono in cerca di fortuna raggiungendo i piroscafi ormeggiati nel porto di Napoli e diretti il primo sabato di ogni mese verso l’America. New York è lontana, ma lì c’è lavoro si può guadagnare del denaro – i dollari – da mandare in Italia tre volte all’anno per aiutare chi è rimasto in riva al mar Ionio.
La Nascita e la Sfortuna
Salvatore Zangara e la moglie Rosina Carfaro si sposarono giovanissimi: lei aveva 16 anni, lui 20. Figli di due agricoltori si conoscevano sin da bambini perché i rispettivi genitori coltivavano dei terreni confinanti. Il matrimonio venne celebrato da don Salvatore, il parroco di Riace e la festa per lo sposalizio organizzata in casa degli Zangara con un pranzo a base di pasta con sugo di capra e carne ovina arrostita su una brace posta all’esterno, alla destra del portone d’ingresso. Una brace ricavata su due colonne di mattoni originariamente destinati a rafforzare il muro di cinta dell’aia.
Era il 20 ottobre del 1899, il secolo stava per chiudersi lasciando spazio al Novecento. Salvatore e Rosina consumarono la loro prima notte d’amore nella piccola casa male arredata che i genitori di lui avevano allestito con fatica in un vecchio casolare abbandonato da anni da una coppia di cugini emigrati dall’altra parte del mondo. Lei voleva diventare madre, magari di un maschio che non avrebbe avuto in futuro bisogno di una dote com’era per le femmine.
Il 7 settembre dell’anno successivo, all’alba, Rosina cominciò ad avvertire dolori sempre più frequenti e forti. Le si ruppero le acque e la madre venne subito in soccorso in compagnia dell’anziana zia Luigina.
Il parto stava per avvenire e Salvatore, con il padre e il suocero, rimasero in attesa fuori dalla stanza da letto che le donne avevano intanto allestito come se fosse una sala ospedaliera. A casa arrivò rapidamente Caterina, una levatrice coraggiosa e robusta, che aveva fatto nascere tanti bambini a Ferruzzano. Lei sapeva come tirar fuori il nascituro al momento opportuno ed era pure in grado di arginare l’emorragia usando delle pezze che intanto erano state messe a bollire. Il travaglio durò dieci ore e Rosina rischiò per le doglie di perdere più volte conoscenza.
Alla fine il bimbo venne fuori alle tre del pomeriggio tra le urla della madre, salutando il suo arrivo nel mondo con un pianto disperato. E continuò a piangere a lungo, avvolto in una coperta di lana che le nonne e l’ostetrica gli misero addosso. Salvatore decise di chiamarlo come il padre, Giuseppe, perché così si usava. Il neonato non smise tuttavia di singhiozzare fino al mattino seguente quando cadde sfinito in un sonno ristoratore. Al risveglio riprese a piangere ed ebbe difficoltà ad attaccarsi al seno, così Salvatore e Rosina decisero di chiamare il medico condotto.
Il piccolo Giuseppe respirava bene ma aveva qualche problema alle orecchie. Niente di grave ma era pur sempre un fastidio. Dopo due mesi, persistendo il problema, la coppia decise di portarlo in ospedale a Reggio Calabria dove i pediatri riscontrarono una lieve malformazione e il persistere di una infezione che provocava una leggera ma stabile febbre. Decisero pertanto di intervenire chirurgicamente.
L’operazione si protrasse per tre lunghe ore durante le quali padre e madre attesero seduti su delle lunghe panche di legno poste davanti all’ingresso del reparto. Rosina invocava la Madonna di Polsi affinché proteggesse il suo bambino mentre Salvatore imprecava, fissando il tetto del cielo, contro il destino avverso che costringeva il suo primo figlio maschio a sopportare tanta sofferenza. L’intervento andò bene e il bimbo rimase in ospedale per una settimana prima d’essere dimesso e tornare a casa. In quei giorni Rosina si convinse che quello fosse un figlio sfortunato
. E questa convinzione la seguì nei mesi a venire tanto che ripeteva spesso a tutte le vicine, quando al mattino s’incontravano per andare a prendere l’acqua alla fonte:
– È piccolo e non ha fortuna Giuseppuzzo mio! Basta un refolo di vento e s’ammala e poi soffre e piange!
La vita a Ferruzzano continuava intanto come sempre e la malasorte sembrava essersi concentrata sugli Zangara perché le piogge torrenziali dell’inverno del 1901 distrussero la cascina in cui alloggiavano i tre vitelli ch’erano il piccolo tesoro
della famiglia, facendoli morire annegati. In una notte gli Zangara persero tutto. Bisognava, ancora una volta, ricominciare. Toccava faticare, faticare e faticare…
Il ritorno dell’estate fu foriero di una lieta notizia: Rosina era di nuovo incinta e presto Giuseppe avrebbe avuto compagnia. La sorte anche questa volta, però, non si mostrò benigna. La giovane mamma, che aveva appena 18 anni, quando giunse il momento del parto non resse al travaglio: portava in grembo un altro maschietto ch’era in posizione podalica. Caterina, l’ostetrica, non riuscì a tirarlo fuori in tempo per farlo respirare e morirono insieme, madre e figlio. A Rosina non resse il cuore per lo sforzo mentre il piccolo spirò soffocato dal cordone ombelicale. Giuseppe non solo non ebbe un fratellino ma rimase orfano.
Fu la nonna materna da quel giorno d’estate a prendersi cura di lui. Appena si sparse la notizia della morte della puerpera e del nascituro la casa si riempì di gente. Gli uomini e le donne del paese corsero a porgere le condoglianze. Maria e Concetta, la mamma di Salvatore, dovettero organizzare il lutto. Ripulirono Rosina, la lavarono con l’acqua che c’era in casa, le infilarono l’abito più bello che aveva, quello usato il giorno del matrimonio con Salvatore e l’improfumarono con una essenza di bergamotto che Maria teneva in casa per le occasioni importanti. La bara venne posizionata nella camera che fungeva da cucina e sala da pranzo e tutt’intorno furono poste delle sedie di legno. Maria e Concetta indossarono gonne e camicie nere e raccolsero i capelli sotto dei fazzoletti scuri e, in compagnia delle vicine, cominciarono la veglia della salma. Una veglia accompagnata da una nenia, una sorta di cantilena con cui raccontavano della grazia e della bellezza di Rosina, della sua bravura come madre, della sua fedeltà come sposa.
Giuseppe se ne stava seduto su un piccolo sgabello in mezzo alle due nonne. Tutti gli avevano ripetuto che la mamma era volata in cielo per diventare un angelo. Lui, però, la vedeva lì, davanti a sé, immobile e terrea e non capiva. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni ma nessuno sembrava disposto a offrirgliene.
Tutti piangevano e si battevano il petto. In una piccola bara bianca, accanto a Rosina, c’era Francesco, questo il nome che i genitori, in onore di San