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I tuoi occhi meritano di brillare
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I tuoi occhi meritano di brillare
E-book241 pagine3 ore

I tuoi occhi meritano di brillare

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Info su questo ebook

Elisa Montini conosce Salvatore. Non è il suo tipo, ma sa lusingarla. Ha inizio una relazione a distanza tra Milano e New York. Salvatore si dimostra un uomo invadente e geloso, ma Elisa non vuole rompere l’incantesimo. Per lui si trasferisce in Italia, ma il sogno si frantuma dopo un litigio che finisce in percosse. Elisa diverrà succube del compagno tra violenze verbali e fisiche senza riuscire ad opporre resistenza. Addirittura lo sposerà. La lotta che Elisa conduce passa attraverso il coraggio di parlarne e la volontà di lasciare traccia della sua esperienza per aiutare altre donne.
LinguaItaliano
Data di uscita13 feb 2015
ISBN9788891177001
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    I tuoi occhi meritano di brillare - Emilyn Ciocio

    questa.

    I TUOI OCCHI MERITANO DI BRILLARE

    Zero. Flashback

    «Niente, buio».

    «Non si accende nulla, vado a controllare il contatore».

    «Brava» si sentì dire.

    Niente. Ancora buio.

    «Stai zitta! Stai zitta, così ti sentono tutti!».

    «Mi sentono tutti? È questo quello che ti preoccupa? Meglio, così sapranno che mi lasci in questa casa senza nemmeno l’acqua calda per farmi una doccia!».

    «Ti ho detto di stare zitta, cretina! Allora, cosa diavolo vuoi da me? Che cazzo vuoi!».

    «Basta, basta! Ti prego, basta…».

    «Amore scusami, non so cosa mi abbia preso. Sono molto stressato, è un periodo molto difficile per me. I clienti, lo studio, la casa… cerca di capirmi almeno tu. Ho bisogno di te, del tuo aiuto, della tua comprensione. Ti prometto che appena arrivo in studio, sistemo tutto. Non accadrà più, te lo prometto, amore mio…».

    1. Il ritardo di Chad

    L’aria era frizzante e una brezza leggera aveva ricoperto il selciato di croccanti foglie autunnali. Le lezioni erano riprese da quasi un mese, gli studenti avevano il ritmo scattante della vita universitaria, e i loro quaderni erano già un po’ sgualciti. A Washington Square i bar diffondevano il profumo del caffè alla vaniglia e i chioschi agli angoli della strada sfornavano hot dog senza sosta.

    Il corso di Mass Media era iniziato alle nove in punto. Nell’aula non si sentiva volare una mosca: il professore, un uomo sulla cinquantina dalla folta barba ingrigita e dalla voce autorevole, dettava le date degli esami a venire. La penna di Elisa scorreva fluidamente sul bloc-notes: ormai non avvertiva più il dolore alle dita tipico di chi è costretto a riprendere a scrivere dopo mesi di riposo. Mentre annotava le date, Elisa studiò la propria calligrafia: tonda, regolare e vezzosa al punto giusto.

    Un attimo dopo il suo flusso di pensieri fu interrotto dal fragore della porta che sbatteva. Chad. Era arrivato con un travolgente ritardo, si scusò con il professore e andò a sedersi vicino ad Elisa, mentre la classe lo seguiva con sguardi di rimprovero.

    «Non posso crederci» le sussurrò mentre tirava fuori dallo zaino penna e quaderno: «sono in piedi dalle cinque di stamattina e sono riuscito a fare tardi lo stesso. Sono quasi le dieci e mi sembra di non aver ancora combinato nulla…».

    «Dalle cinque?!» esclamò lei sbarrando gli occhi.

    «Sì, per arrivare a lezione in tempo devo alzarmi all’alba».

    «Già, vieni dal New Jersey…» disse lei, pensando alla fortuna che aveva di vivere a pochi isolati di distanza.

    «Oggi sono rimasto bloccato sul ponte per più di un’ora e come se non bastasse mi è finita la benzina. Ho dovuto lasciare lì la macchina e prendere un bus. Buon inizio di giornata, non trovi?». Chad intanto tracciava con foga cerchi concentrici sul foglio cercando di far uscire un po’ di inchiostro dalla penna a sfera.

    «Tieni, prendi questa, mi pare di capire che anche la penna ti abbia abbandonato…».

    Chad la ringraziò. «Poi voglio vedere come faccio ad andare a lavorare senza macchina» aggiunse.

    «Lavoro?».

    «Sì, sono caporeparto in un negozio di cancelleria. Copro il turno dalle quattro alle otto di sera. Sai, la borsa di studio non basta per pagarmi tutto, e così arrotondo un po’…».

    «Caspita, che tour de force! Dove lo trovi il tempo per studiare?».

    «Beh, la sera dopo cena o di notte. In ogni caso mi tocca: mia mamma è molto malata e io e mio fratello facciamo a turno per assisterla».

    Elisa si sentì quasi in imbarazzo. «Oh… mi dispiace, non ne sapevo nulla. Non… non avete nessun altro che vi aiuti».

    Chad si strinse nelle spalle. «Che vuoi che ti dica… mio padre se ne frega, non possiamo contare su di lui. Ma lasciamo perdere quest’argomento, mi vengono subito i nervi!».

    «Adesso mi spiego perché hai sempre quell’aria stanca: non dormi mai!» concluse lei, cercando di sdrammatizzare.

    Chad sorrise: «Già… non mi lamento, va bene così; è l’unica maniera che ho per fare qualcosa della mia vita. Alla fine tutti questi sacrifici porteranno dei frutti, no?».

    In quel momento il professore lanciò loro un’occhiataccia dall’inequivocabile significato: era giunto il momento di fare silenzio e seguire la lezione. Chad cominciò a prendere appunti, mentre Elisa fu assorbita dai suoi pensieri.

    La sua mente era rimasta ferma sull’immagine di Chad sveglio a studiare nel cuore della notte, la vita frenetica, i problemi che rendevano la sua quotidianità così complicata. Sapeva così poco del suo compagno di studi. Ora lo immaginava correre da una parte all’altra della città tra università, negozio e casa, con una madre malata e un padre inaffidabile.

    Si guardò le mani. Erano morbide e curate: la sera prima, mentre guardava un film con suo fratello stesa sul divano appena rifoderato, aveva approfittato della pausa pubblicitaria per dipingersi le unghie col suo nuovo smalto color carne. Mani da copertina, vita da copertina, pensò, e quasi ne ebbe vergogna.

    A lei le comodità non erano mai mancate. Abitava in una casa enorme tra la Park Avenue e la 60ª Strada. Si alzava alle otto con il profumo del caffè, si preparava con calma, poi chiamava Alessandro, suo fratello, e scendeva in cucina, dove Josy, la vecchia tata di famiglia, aveva già apparecchiato per la colazione: spremuta, tre tipi di cereali, marmellate fatte in casa, latte con il due per cento di grassi per Elisa, intero per suo fratello. Qualche volta persino i cantucci alle mandorle che gli zii spedivano dall’Italia. Un bacio a mamma e papà, poi via, Alessandro sull’autobus che lo avrebbe scaricato proprio di fronte alla Scuola Internazionale delle Nazioni Unite, sulla 33ª Strada; lei sulla metropolitana che in soli quindici minuti l’avrebbe portata all’università. Per non parlare di quando papà non aveva bisogno della macchina e lei si faceva accompagnare dall’autista con la limousine aziendale. Nel tempo che le restava dopo le lezioni, andava in palestra, faceva un po’ di volontariato e spesso un giro di shopping con le amiche.

    Tutte cose che per Chad erano lontane.

    Mentre il professore parlava, Elisa fantasticava. La sua vita era leggera e azzurra, come una nuvola, mentre quella di Chad era grigia con qualche sfumatura di nero.

    Si guardò attorno, passando in rassegna, uno a uno, i volti dei suoi compagni e cercò di immaginare le loro vite. Sprofondando in queste riflessioni, provò una sensazione nuova: solitudine.

    Si sentiva lontana da tutto ciò che la circondava, come se una linea di demarcazione la separasse dal resto del mondo: lei immersa nella leggerezza di una nuvola azzurra, gli altri nel grigio di una pozzanghera. Si sentiva in colpa, le sembrava tutto così ingiusto, ma al contempo era grata al suo destino.

    Seduta in quell’aula di fianco a Chad, capì che conduceva una vita privilegiata. Quelli come il suo compagno di banco dovevano risolvere problemi e fare sacrifici che lei ignorava. Elisa rappresentava un’eccezione alla regola. Alzò gli occhi al cielo: «Grazie».

    Quel giorno Chad non era arrivato semplicemente in ritardo, aveva fatto molto di più; aveva aiutato Elisa ad aprire gli occhi e a vedere la realtà per quello che era. Dopo cena, Elisa si isolò nella sua camera da letto portandosi dietro una calda tazza di tè. Decise che era ora di prendere coscienza della sua vita. Fino a quel momento ogni cosa era filata liscia come l’olio, ma, ripensando a Chad, si rese conto che tutto poteva cambiare da un momento all’altro. Con le mani che stringevano sempre più forte la tazza, si chiese quanto ancora sarebbe durata questa vita da copertina.

    Nel frattempo, la sua tazza di tè si raffreddò.

    2. New York

    New York, città nottambula dai locali eccentrici in cui le stravaganze sono all’ordine del giorno, dove i grattacieli riflettono le loro luci sui volti multi-etnici delle persone che affollano le strade, dove nasce l’arte più estrosa. New York appartiene a chi va e chi viene, al tempo che scorre tra le dita.

    Elisa era grande abbastanza per vivere New York, ma anziché farla propria, preferiva osservarla. Osservava i newyorkesi e le loro quotidiane follie: si poteva intraprendere qualsiasi avventura senza temere giudizi e pregiudizi. Guardava New York come un giocattolo sempre in movimento, affascinata da questo mondo così vivace, eppure così intangibile.

    Elisa era una ragazza troppo ingenua per partecipare alla New York spudorata. Non rinunciava alle serate con gli amici dopo le quali rincasava all’alba, e le piaceva organizzare feste nei locali più in voga, ma non si lasciava mai travolgere. Viveva le stramberie metropolitane con sufficiente distacco e con la consapevolezza di voler salvaguardare i suoi valori genuini.

    Quello stile di vita, veloce e libertino, non le apparteneva. Aveva assistito allo stesso spettacolo per quattro anni di fila e adesso avvertiva la necessità di un cambiamento.

    Elisa era pronta per qualcosa di più profondo. Desiderava emozioni che questa città faticava a offrirle. Voleva provare a volare, questa volta non con gli occhi, ma con l’anima. Fino ad ora le brevi relazioni non avevano colmato questo suo bisogno; si erano rivelate divertimenti di chi aveva il vorace desiderio di conquistare una ragazza acqua e sapone.

    Elisa cominciava seriamente a dubitare di poter trovare in quella città ciò che invece le sue amiche italiane avevano avuto modo di conquistare da tempo.

    Nonostante fosse nata in Texas e fosse vissuta per tutta la vita nelle più note metropoli del mondo - Città del Messico, Hong Kong, Lussemburgo e New York - le sue origini erano indiscutibilmente italiane. I genitori, i nonni e tutti i suoi parenti erano italiani.

    Lei e suo fratello erano stati i primi a nascere in un paese straniero ed i genitori avevano fatto di tutto per trasmettere a Elisa e Alessandro un’educazione tipicamente italiana incentrata sui valori della famiglia e sull’importanza della religione cattolica.

    Quando tornava negli Stati Uniti, dopo le vacanze estive in Italia, Elisa scriveva alle amiche, raccontando della vita meravigliosa che conduceva a New York, mentre loro la aggiornavano sull’evoluzione delle loro romantiche storie d’amore, sul corteggiamento e sulle doti di seduzione degli uomini italiani.

    Elisa cominciò a idealizzare l’uomo latino: sguardo dolce e penetrante, fisico possente e protettivo, romantico e spiritoso. Un tipo d’uomo che a New York si trovava solo nei film.

    Proprio quando Elisa si era rassegnata al fatto che non avrebbe mai incontrato un ragazzo del genere, ecco che si materializzò, senza alcun preavviso, ciò che per mesi aveva idealizzato.

    Purtroppo, il prezzo da pagare sarebbe stato molto alto.

    3. Il colloquio

    «So che hai già mille impegni, ma vorrei comunque presentarti un mio amico, che sta cercando una rappresentante per una nuova società italiana che avrà una sede a New York» le disse Lollo.

    Elisa aveva già un lavoro che adorava. Lo stipendio era pressoché inesistente, ma a differenza dei suoi amici, tutti manager in carriera con stipendi da capogiro, a lei non interessava la cifra che riceveva a fine mese, né tantomeno la qualifica riportata sul biglietto da visita.

    Lavorare a Sesame Street – un programma televisivo che da più di trent’anni ruota intorno alle storie di una decina di pupazzi – era per Elisa un diversivo. Vivere in un ambiente informale e allegro, con colleghi amichevoli, era come stare in un parco giochi per adulti.

    «Okay, fissami un appuntamento, ma, ti avverto, sarà dura convincermi a separarmi dai miei pupazzi» rispose lei, sorridendo.

    «Se è più di un anno che lavori gratis! Non è ora di iniziare a guadagnare qualcosa?».

    «Non ti ho aggiornato sulle ultime novità! Ho appena avuto una piccola promozione; più un riconoscimento per la buona volontà che un vero e proprio aumento di stipendio. Comunque sia, devo prima finire l’università. Grazie a Dio, non ho bisogno di soldi» disse, rendendosi conto di essere molto fortunata.

    «Senti, facciamo così: domani incontri il mio amico, si chiama Salvatore Loiacono; ci fai due chiacchiere senza alcun impegno. Poi mi dici cosa ne pensi. Okay?».

    «Okay…» si lasciò convincere. Lollo pagò il caffè e, prima di andarsene, la abbracciò calorosamente.

    La mattina seguente Elisa fece fatica a svegliarsi. Con un senso di nausea scostò le tende della finestra e scoprì che il cielo era grigio. In giornate come quella si sentiva sempre nervosa e insofferente. Si ricordò dell’appuntamento con l’amico di Lollo. Non aveva per niente voglia di mettersi un tailleur, non ci era abituata, e lo faceva solo in occasioni speciali. Si appoggiò sul bordo del termosifone e lanciò uno sguardo in strada. I taxi gialli schizzavano in tutte le direzioni, ma lei non vedeva nulla, rimaneva lì, imbambolata, ad ascoltare il suono fastidioso dei clacson. Poi decise di rompere l’incanto, di darsi una smossa e di tentare la sorte. Guardò il bonsai e si accorse, con dispiacere, che stava morendo per via dell’aria calda del calorifero. Elisa ridacchiò: non avrebbe mai avuto il pollice verde! Chiese scusa al bonsai e lo spostò sulla scrivania, lontano dal calorifero.

    «Cosa c’è che non va? Ti vedo strana…» notò sua madre, tagliando una fetta di torta alla banana e cannella fatta in casa.

    «Oggi pomeriggio ho un colloquio che mi ha organizzato Lollo, non ho nessuna voglia di andarci. Sono le classiche cose all’italiana: gente che vuole aprire un ufficio a New York, solo perché fa tendenza. Il mio istinto mi dice che sarà la solita buffonata. Sto già pensando a qualche scusa per non andare. Solo che mi dispiace per Lollo, lo metterei in difficoltà».

    «Ti capisco, quando si tratta di lavoro gli americani sono più affidabili. Perché non ci vai e senti quello che ha da proporti? Al limite avrai buttato via un paio d’ore».

    «Forse hai ragione. Mangio un’altra fetta di torta e poi vado, senza neanche cambiarmi». Si alzò per mostrare alla madre i pantaloni di velluto marrone e la giacchetta azzurra.

    «Stai benissimo».

    Erano quasi le tre del pomeriggio ed Elisa si ritrovò sprofondata in una poltrona di pelle nera, troppo grande per il suo corpo minuto. Osservava la receptionist concentrata su un gioco di carte al computer. Ogni tanto alzava lo sguardo dallo schermo per sorriderle.

    Elisa si guardò intorno per studiare la situazione: si trovava nell’atrio di un ufficio che affittava stanzette e sale riunioni per brevi periodi. Non aveva mai visto niente del genere prima di allora. Solo in America, rifletté, esistono certe cose. Nonostante fosse un’idea commerciale alquanto bizzarra, quel tipo di sistemazione la mise a suo agio: significava che l’uomo con cui aveva appuntamento non aveva un ufficio stabile, ma ne prendeva all’occorrenza uno in affitto. Guardandosi in giro con più attenzione, capì che non si trattava di veri e propri uffici, ma di un open space, diviso in postazioni ricavate con pareti in cartongesso alte circa due metri. Gli americani sono geniali: sfruttano al massimo gli spazi per guadagnare il più possibile, pensò.

    Non era l’ideale per un colloquio di lavoro, le persone nel box accanto avrebbero sentito tutto e addio privacy.

    Salvatore Loiacono era in ritardo, ed Elisa era già indispettita: tollerava al massimo dieci minuti di attesa. Stava per andarsene, sempre che fosse riuscita ad alzarsi da quella poltrona insidiosa, quando un uomo uscì di corsa dall’ascensore. Era sulla trentina, o forse qualcosa in più, aveva un fisico robusto che dava l’impressione di essere intrappolato in un abito troppo stretto. I capelli erano ricci e neri con lunghe basette brizzolate. Sembrava accaldato, e infastidito dal plico di fogli che teneva in mano. Il suo sguardo incrociò quello di Elisa, intuendo che quella doveva essere la ragazza del colloquio. Si ravviò i capelli, poi le si avvicinò, chiedendole in un inglese con accento maccheronico: «Good afternoon. Are you Miss Montini?».

    «Yes, I am» rispose lei timidamente.

    Con un sospiro di sollievo Salvatore riprese, questa volta in italiano: «Scusi per il ritardo. Dottor Salvatore Loiacono. Piacere di conoscerla». Poi le tese la mano.

    «Piacere mio». La ragazza ricambiò la stretta.

    «Si accomodi. Prego, da questa parte». Sorridendole, Salvatore le indicò la via verso il box riservato a suo nome. Sul lato esterno della parete c’era una targhetta che indicava: «Reserved: Mr. Loyakono». Era un errore di ortografia a cui Salvatore era abituato.

    Quello era il colloquio di lavoro più bizzarro al quale Elisa avesse mai partecipato. L’uomo parlava ininterrottamente senza lasciarle la possibilità di presentarsi. Salvatore sembrava interessato più che altro a decantare la propria abilità come uomo d’affari e a raccontarle come avrebbe sfondato in un paese magnifico come gli Stati Uniti. Stordita da quel tono di voce acuto, fece una fatica incredibile a seguire il filo del discorso: sembravano ragionamenti sconnessi l’uno dall’altro, frasi interrotte a metà per la fretta di iniziarne subito un’altra.

    «Grazie per il tempo che mi hai concesso. Fammi sapere se ti interessa. Posso darti del tu, vero? Spero di non averti confuso le idee. Riflettici su, chiamami se hai delle domande».

    Detto questo, con il volto paonazzo e asciugandosi la fronte madida di sudore, mise fine a quel colloquio.

    «Sì, certo, le farò sapere. Buona giornata» si congedò Elisa. Dopodiché prese il primo ascensore disponibile, pensando che non avrebbe mai dato del tu a quell’uomo che per tutto il tempo l’aveva guardata con occhi stralunati, né avrebbe mai accettato la sua

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